13 ottobre 2013

Il nostro nome finisce sul barattolo

Etichette e personalizzazione
di Maria Luisa Agnese
Prodotti per la generazione 2.0: dalle bevande agli abiti, l’ossessione di essere protagonisti come negli autoscatti
Nel giro di pochi mesi due prodotti molto amati che fanno prepotentemente parte del nostro immaginario collettivo, hanno decapitato il proprio marchio sull’etichetta, per sostituirlo con una serie di nomi propri, Stefano, Giorgia, Gabriele, Marta. Un harakiri sorprendente nel mondo del marketing, consumato in nome della personalizzazione, della comunicazione individuale, virale ed emotiva. Ha iniziato la Coca Cola, con un mega lancio internazionale partito dall’Australia che ha immesso sul mercato milioni di lattine individualizzate, e una campagna pubblicitaria in gran parte estesa ai social network, in modo da creare un fenomeno di condivisione virale basato sul passaparola.
Poco dopo Nutella non ha avuto paura di arrivare seconda e quasi ricalcare la strategia Coca Cola, creando etichette con i più popolari nomi italiani e appoggiandosi a una campagna pubblicitaria fortemente emotiva che pesca nella memoria di tutti noi, ricollegando mondo adulto e mondo infantile.
Prodotti trasversali e mass market che si arrendono alla personalizzazione, al bisogno di distinguersi e uscire dal gregge, di differenziarsi autoaffermando la propria personalità. Un’urgenza che si aggira da tempo in una società parecchio livellata, ma che è esplosa quasi come un paradosso nel mondo apparentemente appiattito dei social network.
Così oggi anche la moda va a caccia di t-shirt personalizzate, di collanine con le iniziali (anche sul fronte del lusso, Fendi docet) e le cifre del proprio nome piovono su tutti gli status symbol, in versione aggiornata rispetto al tradizionale monogramma sulla camicia da uomo. Su camicie per donna, valigie, borse da viaggio e non solo, basta pensare ai bauletti con le iniziali di Vuitton e Valextra. Iniziali minuscole quasi nascoste o grandi e invasive, in stampatello o in corsivo, nomi interi, dipinti o ricamati, quasi dei tatuaggi sulla stoffa, un’esigenza di griffe personale che testimonia quello stesso bisogno di lasciare il segno e insieme di autodefinizione che il mass market ha intercettato con decisione.
Una piccola ossessione presto estesa anche ai bambini, e come potrebbe essere altrimenti, visto che ormai hanno tutto? A Natale è d’obbligo chiedersi cosa regalare ai pargoli di personalizzato, anche se non si tratta di figli del privilegio consumistico come Suri Cruise: lo ha fatto nel 2012 il sito Eonline, individuando il set di piatti con il nome dipinto vicino alla sirenette per lei e ai pirati per lui, come da stereotipo. Mentre My Style, marchio di nicchia e parecchio glamour, estende il problema a tutto l’anno («Come essere unici fin da piccoli?») e propone per loro zainetti su misura e customizzati.
L’ansia di raccontarsi per come si è, per far sì che gli altri ci vedano come vogliamo noi e non a lente deformata, è il nuovo logorio della vita contemporanea: un po’ lo stesso meccanismo che sta dietro all’orgia di autoscatti su Instagram, dove ognuno segue il mantra «Mi racconto io, senza filtri», con una narrazione personale e continua.
Due pulsioni, parallele e sostanzialmente endemiche della società contemporanea, quella che porta a distinguersi, a differenziarsi e quella che invece porta a immergersi annegando nel mainstream della comunicazione.
«E la pubblicità è brava a pigiare alternativamente un pulsante o l’altro» dice il sociologo Domenico De Masi. Quello che i pubblicitari invece sanno fare meno bene, secondo il sociologo, è il loro mestiere specifico di creativi: «Anzi constato la loro incapacità. Si autodefiniscono creativi, come io o lei potremmo mettere “simpatici” sul nostro biglietto da visita. Ma che cosa stanno inventando di nuovo? Dopo Benetton e Oliviero Toscani proprio nulla. È tutto un ripetersi ebete di miliardi di spot analoghi».
Sicuramente è così sul piano creativo, ma intanto Internet sta cambiando le nostre vite e il nostro mondo interiore e i più furbi a capirlo sono stati proprio i grandi prodotti trasversali di massa. Aspettatevi una cascata di imitatori.
«Corriere della Sera» del 13 ottobre 2013

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