La strage di Tolosa e gli stereotipi dilaganti del «politicamente corretto»
di Stefano Montefiori
Finkielkraut: è una forma di censura sul pensiero che rimuove la minaccia dell’integralismo islamico
Una giornata francese può cominciare, alle 7 e 15, con Z comme Zemmour alla radio, dove l’opinionista Eric Zemmour loda Putin perché, appoggiando il massacratore Assad in Siria, «protegge la minoranza cristiana»; si continua con Élisabeth Lévy che in un talk show difende «l’uomo bianco Dominique Strauss-Kahn», accusato di violenza sessuale dalla cameriera nera; la sera, a teatro Fabrice Luchini legge passi scelti di quel Philippe Muray che ridicolizzava la «sinistra morale» e la sua ossessione per i diritti dell’uomo. Non è che, anche in Francia, il politicamente scorretto si sia ormai «rovesciato in nuovo conformismo», come sospettava SandroModeo sulla «Lettura» del 17 giugno? Lo chiediamo a Alain Finkielkraut, il filosofo 63enne critico della modernità che, a partire dal Nuovo disordine amoroso scritto con Pascal Bruckner nel 1977, ha combattuto per tutta la vita contro le barriere imposte dalle mode e dal pensiero dominante. Se Zemmour è ormai diventato una starmediatica in virtù di provocazioni quotidiane, Finkielkraut è lo schivo intellettuale pioniere della lotta ai «benpensanti».
Non crede che la sua lunga battaglia contro il politicamente corretto sia ormai vinta? «Al contrario, oggi il politicamente corretto è più forte chemai, perché ci sono ancora realtà che è meglio non vedere, se non si vuole essere accusati di razzismo. L’antirazzismo è divenuto il principale veicolo del politicamente corretto e io stesso, mentre gliene parlo, ho paura di quel che dico».
Addirittura? «Ma certo. Quando l’ideologia dominante nel mondo intellettuale era il comunismo, potevi dirti anticomunista. La pagavi cara, certo, come l’ha pagata cara Albert Camus, ma era possibile. Al comunismo teorico si poteva opporre la realtà sinistra del mondo sovietico. Ma di fronte all’antirazzismo, io sono disarmato. Ho questo in comune con l’antirazzismo ideologico: per me il razzismo è abominevole. Però, di certe cose si dovrebbe poter parlare».
Lei fa un paragone con il comunismo, che ha commesso crimini spaventosi; francamente l’antirazzismo non sembra altrettanto nefasto. «Sì, ma dobbiamo anche prendere atto dei danni culturali che l’antirazzismo sta provocando. Per l’antirazzismo ideologico esiste una solidarietà di destino tra tutti i bersagli della discriminazione. Non è vero, l’antisemitismo per esempio oggi in Europa èmolto più diffuso tra gli arabo-musulmani che tra i cristiani. Ma non si può dire, perché questo smentirebbe in modo feroce l’ideologia dominante».
Se ne è avuta la prova con l’affare Merah? «Quello è un esempio perfetto, perché prima di tutto c’è stato questo riflesso automatico per cui il problema non è mai l’islamismo o il terrorismo, il problema siamo noi. Il dogma del politicamente corretto è “non abbiamo nemici, abbiamo dei demoni dentro di noi”. E infatti, ricordiamoci dei primi momenti del caso Merah (quattro adulti e tre bambini uccisi il marzo scorso a Tolosa e Montauban, ndr), della velocità quasi entusiasta con la quale l’estrema destra venne subito designata come responsabile. “Le Monde” se la prese con il governo di destra, con l’argomento che, a forza di alimentare “il sospetto dell’altro”, aveva preparato il terreno al passaggio all’atto. Peccato che l’autore degli attentati fosse invece un terrorista islamico, Mohamed Merah. Da quel momento in poi la grande preoccupazione — anche legittima — è stata di non fare generalizzazioni pericolose. Ma così non si è parlato del cuore della questione».
E cioè? Che cosa ci dicono i morti di Tolosa, secondo lei? «Dopo l’attentato sono arrivate le vere cattive notizie. Potevamo sperare che quell’assassino fosse un pazzo, un terrorista autoproclamato e isolato. Invece Merah è apparso come un eroe, un martire, agli occhi di tanti. Cito un caso: quel dottorando in fisica di 24 anni, figlio di un ingegnere e di una docente universitaria, che fracassa la mascella di un uomo “con la faccia da sionista”, davanti alla sua famiglia, aggiungendo che per lui “Merah è un resistente”. L’antisemitismo cresce e, se l’immigrazione continua così, si amplificherà ancora. È accettabile?».
Nella trasmissione «Répliques», che conduce da 25 anni su France Inter, lei si è lamentato anche del clima che accompagna il matrimonio tra omosessuali. «Tutti dicono “La Francia è in ritardo”, “siamo in ritardo”. Ma ritardo rispetto a chi, a che cosa? Alexis de Tocqueville dice “la democrazia è il progresso continuo dell’uguaglianza delle condizioni”. Ma se la democrazia si riduce a questo movimento inarrestabile, allora non ha più niente di democratico, perché siamo condannati a seguire l’onda. Al contrario, sul matrimonio degli omosessuali, mi piacerebbe che ci fosse una vera discussione, che non opponesse per forza progressisti e retrogradi. Tutte le sensibilità dovrebbero potersi esprimere, senza che sia deciso prima chi sta all’interno della democrazia e chi ne è fuori».
Lei è un reazionario? «Non mi riconosco in questa espressione, ma detesto chi la usa per criminalizzare la nostalgia. Dopo tutto, la nostalgia dovrebbe avere diritto di cittadinanza. Ci sono cose che è lecito rimpiangere».
Per esempio? «I nomi. Ho il gusto dei nomi banali. Mi chiamo Alain. Ogni tanto esclamo “quanto è bello il mio nome”, e mia moglie mi prende per pazzo. Io sono figlio di ebrei polacchi e mia moglie, di origine bulgara, si chiama Sylvie. Una volta si davano nomi comuni, e francesi, ai bambini, perché si era in Francia. Questa mania dei francesi di denazionalizzare i nomi, e questo modo che hanno tanti immigrati di dare nomi del Paese d’origine ai loro bambini non mi piace. Quando sento che Mohamed è il nome proprio più frequente nella regione parigina mi allarmo, e quando sento l’ex alto commissario del governo Martin Hirsch dire in tv che l’integrazione sarà completa il giorno in cui dei genitori cattolici chiameranno il loro figlio Mohamed, mi dico che a forza di politicamente corretto la Francia cammina con le gambe per aria».
Che cosa pensa, quindi, della nuova Francia di François Hollande? «Non sfrutterà qualche buona idea del governo precedente, come il dibattito sull’identità nazionale, anche se venne organizzato in modo maldestro. Io credo che una riflessione collettiva su quel che siamo sarebbe necessaria, magari non sotto il patrocinio del governo. Ma gli intellettuali non sono messi meglio dei politici, basta vedere le reazioni di molti storici al progetto, insieme innocente e necessario, di un museo della storia di Francia».
E l’Europa? «Appena uno prova a dire che la civiltà europea e la civiltà turca non sono uguali, viene accusato di razzismo, e si sente rispondere che l’Europa non è un club cristiano. L’Europa non vuole porsi come civiltà, preferisce parlare di euro e procedure. Ma credo sia tempo di prendere atto dell’esistenza di un’identità europea. Dopo tutto è la grande lezione dei dissidenti dell’Europa centro-orientale. Di fronte all’oppressione totalitaria venuta dalla Russia, Kundera difendeva l’identità europea. Dobbiamo essere coscienti di questo patrimonio e rivendicarlo. Senza vanità, e senza la vergogna imposta dal politicamente corretto».
Non crede che la sua lunga battaglia contro il politicamente corretto sia ormai vinta? «Al contrario, oggi il politicamente corretto è più forte chemai, perché ci sono ancora realtà che è meglio non vedere, se non si vuole essere accusati di razzismo. L’antirazzismo è divenuto il principale veicolo del politicamente corretto e io stesso, mentre gliene parlo, ho paura di quel che dico».
Addirittura? «Ma certo. Quando l’ideologia dominante nel mondo intellettuale era il comunismo, potevi dirti anticomunista. La pagavi cara, certo, come l’ha pagata cara Albert Camus, ma era possibile. Al comunismo teorico si poteva opporre la realtà sinistra del mondo sovietico. Ma di fronte all’antirazzismo, io sono disarmato. Ho questo in comune con l’antirazzismo ideologico: per me il razzismo è abominevole. Però, di certe cose si dovrebbe poter parlare».
Lei fa un paragone con il comunismo, che ha commesso crimini spaventosi; francamente l’antirazzismo non sembra altrettanto nefasto. «Sì, ma dobbiamo anche prendere atto dei danni culturali che l’antirazzismo sta provocando. Per l’antirazzismo ideologico esiste una solidarietà di destino tra tutti i bersagli della discriminazione. Non è vero, l’antisemitismo per esempio oggi in Europa èmolto più diffuso tra gli arabo-musulmani che tra i cristiani. Ma non si può dire, perché questo smentirebbe in modo feroce l’ideologia dominante».
Se ne è avuta la prova con l’affare Merah? «Quello è un esempio perfetto, perché prima di tutto c’è stato questo riflesso automatico per cui il problema non è mai l’islamismo o il terrorismo, il problema siamo noi. Il dogma del politicamente corretto è “non abbiamo nemici, abbiamo dei demoni dentro di noi”. E infatti, ricordiamoci dei primi momenti del caso Merah (quattro adulti e tre bambini uccisi il marzo scorso a Tolosa e Montauban, ndr), della velocità quasi entusiasta con la quale l’estrema destra venne subito designata come responsabile. “Le Monde” se la prese con il governo di destra, con l’argomento che, a forza di alimentare “il sospetto dell’altro”, aveva preparato il terreno al passaggio all’atto. Peccato che l’autore degli attentati fosse invece un terrorista islamico, Mohamed Merah. Da quel momento in poi la grande preoccupazione — anche legittima — è stata di non fare generalizzazioni pericolose. Ma così non si è parlato del cuore della questione».
E cioè? Che cosa ci dicono i morti di Tolosa, secondo lei? «Dopo l’attentato sono arrivate le vere cattive notizie. Potevamo sperare che quell’assassino fosse un pazzo, un terrorista autoproclamato e isolato. Invece Merah è apparso come un eroe, un martire, agli occhi di tanti. Cito un caso: quel dottorando in fisica di 24 anni, figlio di un ingegnere e di una docente universitaria, che fracassa la mascella di un uomo “con la faccia da sionista”, davanti alla sua famiglia, aggiungendo che per lui “Merah è un resistente”. L’antisemitismo cresce e, se l’immigrazione continua così, si amplificherà ancora. È accettabile?».
Nella trasmissione «Répliques», che conduce da 25 anni su France Inter, lei si è lamentato anche del clima che accompagna il matrimonio tra omosessuali. «Tutti dicono “La Francia è in ritardo”, “siamo in ritardo”. Ma ritardo rispetto a chi, a che cosa? Alexis de Tocqueville dice “la democrazia è il progresso continuo dell’uguaglianza delle condizioni”. Ma se la democrazia si riduce a questo movimento inarrestabile, allora non ha più niente di democratico, perché siamo condannati a seguire l’onda. Al contrario, sul matrimonio degli omosessuali, mi piacerebbe che ci fosse una vera discussione, che non opponesse per forza progressisti e retrogradi. Tutte le sensibilità dovrebbero potersi esprimere, senza che sia deciso prima chi sta all’interno della democrazia e chi ne è fuori».
Lei è un reazionario? «Non mi riconosco in questa espressione, ma detesto chi la usa per criminalizzare la nostalgia. Dopo tutto, la nostalgia dovrebbe avere diritto di cittadinanza. Ci sono cose che è lecito rimpiangere».
Per esempio? «I nomi. Ho il gusto dei nomi banali. Mi chiamo Alain. Ogni tanto esclamo “quanto è bello il mio nome”, e mia moglie mi prende per pazzo. Io sono figlio di ebrei polacchi e mia moglie, di origine bulgara, si chiama Sylvie. Una volta si davano nomi comuni, e francesi, ai bambini, perché si era in Francia. Questa mania dei francesi di denazionalizzare i nomi, e questo modo che hanno tanti immigrati di dare nomi del Paese d’origine ai loro bambini non mi piace. Quando sento che Mohamed è il nome proprio più frequente nella regione parigina mi allarmo, e quando sento l’ex alto commissario del governo Martin Hirsch dire in tv che l’integrazione sarà completa il giorno in cui dei genitori cattolici chiameranno il loro figlio Mohamed, mi dico che a forza di politicamente corretto la Francia cammina con le gambe per aria».
Che cosa pensa, quindi, della nuova Francia di François Hollande? «Non sfrutterà qualche buona idea del governo precedente, come il dibattito sull’identità nazionale, anche se venne organizzato in modo maldestro. Io credo che una riflessione collettiva su quel che siamo sarebbe necessaria, magari non sotto il patrocinio del governo. Ma gli intellettuali non sono messi meglio dei politici, basta vedere le reazioni di molti storici al progetto, insieme innocente e necessario, di un museo della storia di Francia».
E l’Europa? «Appena uno prova a dire che la civiltà europea e la civiltà turca non sono uguali, viene accusato di razzismo, e si sente rispondere che l’Europa non è un club cristiano. L’Europa non vuole porsi come civiltà, preferisce parlare di euro e procedure. Ma credo sia tempo di prendere atto dell’esistenza di un’identità europea. Dopo tutto è la grande lezione dei dissidenti dell’Europa centro-orientale. Di fronte all’oppressione totalitaria venuta dalla Russia, Kundera difendeva l’identità europea. Dobbiamo essere coscienti di questo patrimonio e rivendicarlo. Senza vanità, e senza la vergogna imposta dal politicamente corretto».
«Corriere della Sera - suppl. La lettura» del 22 luglio 2012
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