L'intellettuale ebreo di origine polacca critica i disegni di Charlie Hebdo: ma il divieto non è la soluzione
di Stefano Montefiori
Nell'Islam la separazione tra religione e Stato è solo all'inizio. Le voci moderate ci sono, anche se fanno più rumore le altre. Bisogna insistere nel dialogo. È un cammino lungo Lo scrittore Halter parla delle vignette. «Sulle fedi c'è troppa suscettibilità»
Ha riso nel vedere le vignette di Charlie Hebdo? «Veramente la copertina l'ho trovata divertente, tutto sommato. Un ebreo ortodosso che porta in sedia a rotelle un musulmano con il titolo Intouchables 2, che fa il verso al film candidato agli Oscar («Quasi amici» in italiano): è vero, le religioni sono diventate intoccabili. Tutte le grande idee sono crollate, del comunismo, socialismo, liberismo non rimane più nulla o quasi, e le religioni tendono a riempire quel vuoto: c' è troppa suscettibilità intorno alla fede. Le vignette su Maometto all' interno del giornale, invece, mi sono sembrate pessime. Volgari, inopportune, incapaci di far ridere». Marek Halter, 76 anni, scrittore e intellettuale ebreo di origine polacca (l'ultimo libro è «Il cabalista di Praga», Newton Compton), è scampato da bambino al ghetto di Varsavia e poi all'Urss di Stalin. Ha fondato il movimento Sos Racisme (1984), ed è diventato amico fraterno di papa Wojtyla; nel 1992 si adoperò per organizzare i primi incontri segreti tra Yitzhak Rabin, Shimon Peres e Yasser Arafat che portarono agli accordi di Oslo, e da anni in Francia è protagonista del dialogo tra le comunità. Domenica scorsa, alla sua festa per il Capodanno ebraico, c' erano decine di invitati di ogni ambiente sociale, dal ministro dell' Interno Manuel Valls a Hassen Chalghoumi, imam di Drancy. La rabbia dei musulmani e la preoccupazione del governo francese sono giustificate? «Le posso capire, ma dico subito che la censura non è un'opzione. Perché non c' è nessuno che possa arrogarsi il diritto di censurare, di stabilire quel che si può dire e quel che è proibito. Chi crediamo di essere, dio? La censura poi è anche tecnicamente impossibile. Possiamo forse pensare di affrontare i prossimi anni pronti a bloccare ogni sciocchezza che viene prodotta nel mondo, e istantaneamente diffusa grazie a Twitter o Youtube? Sarebbe una battaglia persa». Le vignette di Charlie Hebdo sono state una provocazione? «Non lo so, ma il direttore del settimanale non è un politico, non gli si possono attribuire certe responsabilità». Non avrebbe potuto dar prova di maggiore sensibilità, visto il contesto internazionale? «Certamente, ma non vi era tenuto. Fossi stato in lui avrei giudicato che non era il momento di difendere la libertà di espressione proprio in quel modo. Charlie Hebdo ha usato con Maometto lo stesso trattamento che Charlie Chaplin riservò - con ben altri esiti artistici - a Hitler nel Dittatore. Chaplin fece bene, eravamo in guerra con il nazismo. Ma noi adesso siamo in guerra con l' Islam? Non mi pare, e comunque io non voglio. Le vignette insomma non mi piacciono e la trovo un' operazione discutibile. Ma la conseguenza non può essere la censura, e invito i miei amici musulmani a non cedere agli estremisti». Pensa che le reazioni siano eccessive? «Soprattutto, noto che i musulmani si lamentano spesso di essere vittime di generalizzazioni, di discriminazioni, non vogliono che un' intera civiltà venga stigmatizzata per l' opera di pochi fanatici o terroristi. Li comprendo, ma anche loro non commettano lo stesso errore con l' Occidente! Noi non siamo tutti produttori di film ignobili o di vignette che non fanno ridere. I musulmani che protestano non accettano che i governi occidentali permettano questo genere di libertà di espressione. Ritengono i governanti, e tutti i cittadini, responsabili per l' azione di pochi. Con questo criterio, che dovremmo dire noi dei Paesi arabi, dove i fanatici vengono lasciati liberi di assaltare le ambasciate fino a uccidere?». Crede che ci sia troppo silenzio da parte dei musulmani laici? «La separazione tra religione e Stato è all' inizio, nell' Islam. Le voci moderate ci sono, anche se fanno più rumore le altre. Bisogna insistere nel dialogo. È un cammino lungo».
«Corriere della Sera» del 21 settembre 2012
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