27 settembre 2012

L'Occidente riscopre il dono

Torna l'attenzione per la pratica dello scambio gratuito che produce relazioni estranee alla logica mercantile
di Matteo Aria e Adriano Favole
Nel corso della sua esistenza, Marcel Mauss scrisse opere acute e pionieristiche tra cui, nei primi anni Venti del Nove­cento, il celebre Saggio sul dono (Einaudi). L'etnologo francese sco­pri che in molte società antiche e in alcu­ne società «primitive» gli scambi non avvenivano in base alla logica dell'interes­se individuale e alla legge della doman­da e dell'offerta. Intere culture infatti era­no vissute o continuavano a vivere nell'at­mosfera del dono, inteso come una pre­stazione di beni e servizi effettuata, sen­za garanzia di restituzione, al fine di crea­re, alimentare o ricreare il legame socia­le tra le persone, come dice Jacques Godbout, uno dei massimi studiosi del fe­nomeno (Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri). Mauss identificò la logica del dono e le sue tre «leggi» (dare, ricevere, ricambiare) nelle culture oceaniane, tra i melanesiani, i maori, i samoani, i tonga-ni. Nella società moderna il dono soprav­viveva in modo residuale, per esempio a Natale o in occasione delle cerimonie nu­ziali e nelle relazioni amicali e famigliari. Mauss era piuttosto pessimista sul desti­no del dono nella società contempora­nea: «L'uomo — scrive nel suo Saggio — è stato per lunghissimo tempo diverso, e solo da poco è diventato una macchina, anzi una macchina calcolatrice». Eppu­re, da socialista convinto e difensore dei valori della solidarietà, vedeva nel ritor­no alla logica del dono l'unica via di re­denzione di un mondo in cui andavano crescendo colossali diseguaglianze socia­li ed economiche. A lungo confinato nel ristretto circolo degli antropologi, il Saggio sul dono co­noscerà una rinnovata fortuna alla fine degli anni Settanta, in coincidenza con le prime avvisaglie della crisi economica e con l'indebolirsi delle grandi narrazio­ni (in primis marxismo e strutturali­smo), il dono, inteso come il totalmente altro dall'utile, perdita assoluta e incon­dizionata, affascinò filosofi come Jac­ques Derrida (Donner le temps, Galilée) ed Emmanuel Lévinas. Parallelamente, nonostante la trionfale ascesa dell'homo oeconomicus globalizzato, l'Occidente ha progressivamente riscoperto (o dato vita), ad alcune «isole» di dono protette dalle impetuose correnti del capitali­smo: dal volontariato alla donazione del sangue, dai gruppi di acquisto ai condo­mini solidali, dalle economie informali alla decrescita, fino alle varie forme del­lo sharing. In Francia, i «nipoti» di Mar­cel si sono uniti nel Mauss, acronimo del Movimento anti utilitarista nelle scienze sociali ed eponimo del fondatore, riven­dicando l'attualità dello spirito del dono nelle società contemporanee. Se l'Occidente ha ritrovato il dono, va detto che il peccato originale del suo pensiero — l'etnocentrismo — ha finito per oscurarne il destino in altre società, come se l'«altrove» globalizzato non avesse più nulla da dire. Che fine ha fatto il dono in Amazzonia, nell'America «nativa», in Melanesia e in Polinesia? Che fine hanno fatto i sontuosi riti potlatch dei Kwakiutl americani, i cui capi ri­valeggiavano in generosità fino a distrug­gere le ricchezze? E lo scambio kula de­gli abitanti delle isole Trobriand della Melanesia (Bronislaw Malinowski, Argo­nauti del Pacìfico occidentale, Bollati Boringhieri) che compivano lunghe naviga­zioni attraverso mari tempestosi per do­nare e ricevere collane di conchiglia (e rinsaldare nel contempo relazioni sociali e matrimoniali)? I polinesiani hanno rin­negato il dono adottando il denaro, le au­tomobili, la televisione e i social network? L'incontro con le società che ispiraro­no Mauss riserva anche oggi sorprese interessanti. Fin dall'esordio delle nostre ri­cerche in Oceania ci siamo accorti di quanto le atmosfere del dono fossero dif­fuse e, anzi, sembrassero rifiorire in mo­do creativo proprio in risposta all'affer­marsi della modernità capitalistica. L'ospitalità, i beni di prestigio come i ma­iali e le stoffe di corteccia, gran parte dei servizi alle persone (crescere, accudire, cucinare, curare) rientrano tuttora nella sfera del dono. In particolare, i prodotti della terra non possono essere comprati e venduti, perché essi, a differenza delle merci che arrivano dall'Occidente, sono intrisi della persona che li ha seminati, cresciuti e prodotti: donandoli, si dona qualcosa di sé (Mauss lo chiamò hau, uti­lizzando una parola maori), cosa che co­stringerà chi riceve a ricambiare, alimen­tando una spirale infinita di relazioni. Le culture del dono dunque esistono tuttora, ma la sua presenza non è esclusi­va come immaginava Mauss. Partecipi della storia e della globalizzazione in cor­so, gli oceaniani (e molti altri nativi) han­no difeso e mantenuto ampia la sfera del dono, facendola tuttavia convivere da un lato con le merci che il mercato globale vomita incessantemente sulle loro isole e con la razionalità utilitaristica; dall'al­tro con un insieme di beni che solo di recente hanno attratto l'interesse di an­tropologi ed economisti. La circolazione degli oggetti, attraverso il dono e lo scambio di mercato, è in effetti garantita dal fatto che vi sono cose che non posso­no e non devono circolare affatto. Laddo­ve il colonialismo non si è imposto con effetti troppo devastanti, la terra e l'ac­qua, forme di sapere come la danza e i racconti della tradizione orale, hanno mantenuto il loro status di beni inaliena­bili, come scoprì Annette Weiner, tor­nando a studiare negli anni Settanta i Trobriandesi di Malinowski (Inalienables possessions, University of California Press). Quelli che un tempo chiamava­mo primitivi ci insegnano dunque che solo un'accorta politica dei beni comuni garantisce la sostenibilità dell'economia di scambio. Le ricerche compiute in questi anni in Oceania e in altre parti di mondo, ci dico­no che non esistono — almeno nella contemporaneità — società interamente fondate sul dono, ma forme di conviven­za e complementarietà con il mercato. Tuttavia, sembra esserci una differenza piuttosto netta tra società ed epoche che sottomettono il sociale all'economico e altre che, attraverso il dono, compiono la scelta opposta. Diversamente dallo scambio basato sull'interesse egoistico dell'homo oeconomicus, il dono è un fat­tore di «domesticazione». Se il mercato per sua natura libera dai legami e crea differenza (di valore, di ricchezza, di sta­tus), il dono rafforza la somiglianza e «addomestica» l'altro: come dice la vol­pe al Piccolo principe, addomesticare «è una cosa da molto dimenticata. Vuol di­re "creare dei legami"...». Gli anni di benessere e crescita econo­mica senza precedenti del dopoguerra, hanno costruito e reso abnorme l'homo oeconomicus che è in noi. Gli anni di cri­si e decrescita che stiamo vivendo sem­brerebbero viceversa più propizi a raffor­zare il dono e la relazione. Forse, riflet­tendo sulle nuove esperienze del dono in Occidente e su quanto sta avvenendo nelle società in cui esso fu scoperto per la prima volta, possiamo concludere che non si tratta di uccidere l'homo oecono­micus, ma di pensare nuovi e più ampi spazi di convivenza tra mercato e dono, smettendo di vedere quest'ultimo come una chimera, un'utopia radicalmente an­titetica al mercato. Il dono continua per molti versi a esse­re un «enigma» (Maurice Godelier, L'enigme du don, Fayard) e la sua logica non è priva di ombre, ambiguità e avvele­namenti: il dono eccessivo distrugge ric­chezza, quello unilaterale e asimmetrico umilia chi lo riceve, creando clientele e corruzione. Nonostante ciò, il dono, se adottiamo una visione «slargata» del­l'umanità, appare alquanto tenace e per­sistente e, soprattutto, secondo la lezio­ne di Claude Lévi-Strauss, è il fondamen­to stesso della società. Come dice il tito­lo del festival di Pistoia: «Dono, dunque siamo».
 
Viaggi e ricerche nel Pacifico Gli autori di questo articolo, studiosi del dipartimento Culture, politica, società dell'Università di Torino, hanno compiuto vaste ricerche sul campo tra le popolazioni delle isole del Pacifico, note per la loro cultura del dono. Adriano Favole ha lavorato in Nuova Caledonia e nel territorio di Wallis e Futuna. Dalle sue indagini è scaturito il saggio - «Oceania. Isole di creatività culturale», edito da Laterza nel 2010. Matteo Aria ha svolto ricerche nelle Marchesi e nelle Isole della Società, su cui ha scritto il libro «Cercando nel vuoto. La memoria perduta e ritrovata nella Polinesia francese» (Pacini, 2007)
Il francese Marcel Mauss (1872-1950) è considerato uno del fondatori dell'antropologia. Nipote e allievo del grande sociologo Émile Durkheim, studioso delle pratiche magiche e religiose, è noto soprattutto per il suo «Saggio sul dono» del 1923 (edito in Italia da Einaudi), nel quale analizza a fondo i meccanismi della reciprocità. Altre opere importanti di Mauss sono «Manuale di etnografia» (Jaca Book), «Teoria generale della magia» (Einaudi), «Saggio sul sacrificio» (Morcelliana) All'insegnamento di Mauss si richiama il Mouvement anti-utilitariste en sciences sociales (in sigla appunto Mauss), che pubblica la «Revue du Mauss» e ha tra i suoi esponenti più noti Alain Caillé e il teorico della decrescita Serge Latouche
«Corriere della Sera – supplemento “la lettura”» del 20 maggio 2012

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