La crisi, economica e spirituale: a lezione da Edith Stein
di Pier Luigi Fornari
Nei timori di guerra economica che affliggono questo nuovo agosto di crisi per l’economia e l’Europa, rischia di passare quasi inosservato agli occhi della stragrande parte della opinione pubblica il 70° anniversario della morte di Edith Stein, vittima del nazismo ad Auschwitz il 9 agosto del 1942, santa che Giovanni Paolo II volle compatrona del Vecchio Continente appena un anno dopo la sua canonizzazione. Eppure oggi questa ricorrenza, per il messaggio che reca con sé, si rivela davvero provvidenziale.
Edith, che sempre si è sentita profondamente tedesca, grazie anche alle sue origini ebraiche ci attualizza l’immagine di una "Germania grande" per cultura e civiltà, allontanando il fantasma della "grande Germania" che inopportunamente ha ricominciato a condizionare il tempo che viviamo e a turbare il nostro immaginario collettivo. La Germania di quelli che, come lei (e si può ricordare, tra l’altro, la sua straordinaria lettera a Pio XI) e come il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer, si opposero con coraggio al nazismo. La Germania che, mezzo secolo più tardi, con la caduta del muro di Berlino è diventata l’emblema della vittoria della libertà sul totalitarismo.
La volontà espressa di santa Edith Stein-Teresa Benedetta della Croce di offrire, come seguace di Gesù, la sua vita per il popolo delle sue origini, è un’ulteriore testimonianza di quanto profondamente la storia europea sia segnata dalla tradizione giudeo-cristiana. L’aver omesso questo riferimento nella Costituzione europea è dannoso, non solo per aver alimentato un egoismo interno (Stato membro contro Stato membro), ma soprattutto perché ha fatto smarrire il senso della missione universale dell’Europa. Si può parlare di grande filosofia nel caso di Stein, che fu allieva ed assistente di Edmund Husserl, non solo perché ella argomentò con vigore contro la psicologia senza anima del suo secolo, ma anche perché (facendo tesoro della lezione del suo maestro e amico Adolf Reinach) fece emergere vanità e rischiosità di un diritto e una teoria dello Stato incapaci di cogliere la dimensione spirituale presente nelle relazioni sociali. Oggi, infatti, dobbiamo ammettere che, se non siamo in grado di percepire lo spirito presente nel "noi" che costruiamo nelle relazioni con il nostro prossimo, non abbiamo scampo. Se non siamo capaci di vedere tale dimensione spirituale con la stessa evidenza dell’albero di ciliegie che sta nel mezzo del giardino, siamo inevitabilmente condannati ad appoggiarci su un fondamento che tale non è: il denaro. O per usare il gergo dei tecnici: la volatilità dei mercati finanziari.
Qualche mese fa, in un bell’editoriale su Repubblica il filosofo Giorgio Agamben poneva molto lucidamente in connessione la nostra «scarsa fede», la nostra «malafede», con la crisi del credito, e aggiungeva: «Finché dura questa situazione, finché la nostra società che si crede laica resterà asservita alla più oscura e irrazionale delle religioni, sarà bene che ciascuno si riprenda il suo credito e il suo futuro dalle mani di questi tetri, screditati pseudosacerdoti, banchieri professori e funzionari delle agenzie di rating». In positivo si può aggiungere, seguendo l’insegnamento di filosofi come la Stein e Reinach, che alla base del diritto c’è una fondamentale relazione umana: la promessa, e l’accoglienza di tale promessa. La crisi economica, che ha portato il credito a livelli sempre più distanti dalle relazioni umane, non nasce forse dalla progressiva svalutazione dell’importanza dell’impegno reciproco di tali soggetti fondamentali, singoli o collettivi che siano?
La promessa che un creditore fa a un debitore è relazione umana, non è una previsione, né una scommessa su un caotico gioco di bussolotti, sul quale magari influire violentemente con una cinica avidità di denaro, come avviene spesso con i futures. La tedesca Stein scriveva, citando lo spagnolo san Giovanni della Croce, che il più grave danno che si può recare all’anima è «porre il proprio cuore, con la sua essenza più interiore (mit seinem innersten Wesen), nel denaro, invece di porlo come si deve in Dio. Porre il proprio cuore nel denaro, come se non vi fosse altro Dio».
Edith, che sempre si è sentita profondamente tedesca, grazie anche alle sue origini ebraiche ci attualizza l’immagine di una "Germania grande" per cultura e civiltà, allontanando il fantasma della "grande Germania" che inopportunamente ha ricominciato a condizionare il tempo che viviamo e a turbare il nostro immaginario collettivo. La Germania di quelli che, come lei (e si può ricordare, tra l’altro, la sua straordinaria lettera a Pio XI) e come il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer, si opposero con coraggio al nazismo. La Germania che, mezzo secolo più tardi, con la caduta del muro di Berlino è diventata l’emblema della vittoria della libertà sul totalitarismo.
La volontà espressa di santa Edith Stein-Teresa Benedetta della Croce di offrire, come seguace di Gesù, la sua vita per il popolo delle sue origini, è un’ulteriore testimonianza di quanto profondamente la storia europea sia segnata dalla tradizione giudeo-cristiana. L’aver omesso questo riferimento nella Costituzione europea è dannoso, non solo per aver alimentato un egoismo interno (Stato membro contro Stato membro), ma soprattutto perché ha fatto smarrire il senso della missione universale dell’Europa. Si può parlare di grande filosofia nel caso di Stein, che fu allieva ed assistente di Edmund Husserl, non solo perché ella argomentò con vigore contro la psicologia senza anima del suo secolo, ma anche perché (facendo tesoro della lezione del suo maestro e amico Adolf Reinach) fece emergere vanità e rischiosità di un diritto e una teoria dello Stato incapaci di cogliere la dimensione spirituale presente nelle relazioni sociali. Oggi, infatti, dobbiamo ammettere che, se non siamo in grado di percepire lo spirito presente nel "noi" che costruiamo nelle relazioni con il nostro prossimo, non abbiamo scampo. Se non siamo capaci di vedere tale dimensione spirituale con la stessa evidenza dell’albero di ciliegie che sta nel mezzo del giardino, siamo inevitabilmente condannati ad appoggiarci su un fondamento che tale non è: il denaro. O per usare il gergo dei tecnici: la volatilità dei mercati finanziari.
Qualche mese fa, in un bell’editoriale su Repubblica il filosofo Giorgio Agamben poneva molto lucidamente in connessione la nostra «scarsa fede», la nostra «malafede», con la crisi del credito, e aggiungeva: «Finché dura questa situazione, finché la nostra società che si crede laica resterà asservita alla più oscura e irrazionale delle religioni, sarà bene che ciascuno si riprenda il suo credito e il suo futuro dalle mani di questi tetri, screditati pseudosacerdoti, banchieri professori e funzionari delle agenzie di rating». In positivo si può aggiungere, seguendo l’insegnamento di filosofi come la Stein e Reinach, che alla base del diritto c’è una fondamentale relazione umana: la promessa, e l’accoglienza di tale promessa. La crisi economica, che ha portato il credito a livelli sempre più distanti dalle relazioni umane, non nasce forse dalla progressiva svalutazione dell’importanza dell’impegno reciproco di tali soggetti fondamentali, singoli o collettivi che siano?
La promessa che un creditore fa a un debitore è relazione umana, non è una previsione, né una scommessa su un caotico gioco di bussolotti, sul quale magari influire violentemente con una cinica avidità di denaro, come avviene spesso con i futures. La tedesca Stein scriveva, citando lo spagnolo san Giovanni della Croce, che il più grave danno che si può recare all’anima è «porre il proprio cuore, con la sua essenza più interiore (mit seinem innersten Wesen), nel denaro, invece di porlo come si deve in Dio. Porre il proprio cuore nel denaro, come se non vi fosse altro Dio».
«Avvenire» del 9 agosto 2012
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