La complementarietà uomo-donna
di Francesco D'Agostino
Ben due manifestazioni di donne si sono svolte a Tunisi, nei giorni scorsi, per protestare contro la proposta di introdurre nella nuova Costituzione tunisina, che potrebbe entrare in vigore subito dopo l’estate, un nuovo articolo – il 28 – che dopo aver ribadito che lo Stato si fa carico della protezione dei diritti delle donne, ne individuerebbe il fondamento «nel principio di complementarietà [della donna] con l’uomo in seno alla famiglia». Questo articolo, sostengono i suoi critici, farebbe fare un grosso passo indietro alla parità tra i sessi, perché non farebbe menzione del principio di eguaglianza e ricondurrebbe l’identità femminile a un esclusivo ruolo «familiare».
Sono fondate queste critiche? Forse sì, ma solo se riferite a un contesto islamico oscurantista (che non sembrerebbe essere quello tunisino). Sappiamo, infatti, che lo statuto giuridico della donna in diversi Paesi a maggioranza musulmana è gravato di molte ambiguità, peraltro per la maggior parte di natura non religiosa, ma storico–culturale. Parlare di complementarietà uomo–donna merita indubbiamente un’esplicita condanna, se attraverso questa espressione si vuole subdolamente veicolare l’idea che la donna, nel contesto sociale e in quello familiare, è e deve essere subordinata all’uomo: un’idea non solo storicamente superata, ma antropologicamente indifendibile. Se però prendiamo le distanze da questo contesto e riflettiamo sulla valenza antropologica generale di questa contestata espressione «complementarietà», vediamo come essa meriti una lettura più ariosa e molto più interessante. Basta infatti rilevare come la complementarietà, ogni complementarietà, sia sempre reciproca. Infatti, se la donna è complementare all’uomo, l’uomo non può che essere a sua volta complementare alla donna e ciò comporta che solo nel rapporto tra i due, e non nelle loro singole individualità sia pur coniugali, si rivela pienamente il significato e il valore della differenza sessuale.
Nella tradizione ebraico-cristiana e nell’antropologia che su questa tradizione si fonda su questo punto non è possibile aver alcun dubbio: nella Genesi, 2.24, si allude alla complementarietà come a un vero e proprio mistero, attraverso la famosissima espressione: «L’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne», espressione che è ripresa con forza da Gesù (Mt19,6). Ma anche in una prospettiva di mera antropologia culturale l’unione coniugale uomo–donna appare imprescindibile, perché simbolicamente fondante l’ordine sociale, sia pure attraverso mille varianti. Il tentativo, tutto moderno, di ridurre ai minimi termini la valenza del rapporto coniugale (se non addirittura di rimuoverlo) è quindi un segnale antropologicamente preoccupante, perché è solo nella famiglia e grazie alla famiglia, in cui uomo e donna si realizzano come «complementari» (cioè alla famiglia fondata sul matrimonio), che si garantisce l’ordine delle generazioni, l’educazione e l’inserimento sociale dei giovani, la cura dei malati, l’assistenza agli anziani. Che l’uso dell’espressione «complementarietà» crei tanta irritazione nelle donne tunisine può quindi avere le sue ragioni, ma si tratta di ragioni per così dire “localizzate”, che non possono essere “esportate”. Meno che mai dovremmo prendere lo spunto dal dibattito tunisino sul ruolo della donna per rivendicare un’ottusa concezione individualistica dei suoi diritti e della sua dignità (e reciprocamente dei diritti e della dignità degli uomini).
Dovremmo ormai aver definitivamente capito che i diritti umani non vanno mai rivendicati come individuali, ma sempre come relazionali. Dovremmo quindi convincerci che soprattutto nelle società occidentali avanzate il tema della complementarietà uomo–donna va rivitalizzato e riproposto come la chiave essenziale per tornare a tematizzare in modo sensato gli equilibri interni dell’esperienza familiare. In un momento storico come quello attuale in cui, quando si parla di famiglia, sembra che non si sappia più esattamente di cosa si parla, l’idea di complementarietà potrebbe tornare a rivelarsi particolarmente preziosa.
Sono fondate queste critiche? Forse sì, ma solo se riferite a un contesto islamico oscurantista (che non sembrerebbe essere quello tunisino). Sappiamo, infatti, che lo statuto giuridico della donna in diversi Paesi a maggioranza musulmana è gravato di molte ambiguità, peraltro per la maggior parte di natura non religiosa, ma storico–culturale. Parlare di complementarietà uomo–donna merita indubbiamente un’esplicita condanna, se attraverso questa espressione si vuole subdolamente veicolare l’idea che la donna, nel contesto sociale e in quello familiare, è e deve essere subordinata all’uomo: un’idea non solo storicamente superata, ma antropologicamente indifendibile. Se però prendiamo le distanze da questo contesto e riflettiamo sulla valenza antropologica generale di questa contestata espressione «complementarietà», vediamo come essa meriti una lettura più ariosa e molto più interessante. Basta infatti rilevare come la complementarietà, ogni complementarietà, sia sempre reciproca. Infatti, se la donna è complementare all’uomo, l’uomo non può che essere a sua volta complementare alla donna e ciò comporta che solo nel rapporto tra i due, e non nelle loro singole individualità sia pur coniugali, si rivela pienamente il significato e il valore della differenza sessuale.
Nella tradizione ebraico-cristiana e nell’antropologia che su questa tradizione si fonda su questo punto non è possibile aver alcun dubbio: nella Genesi, 2.24, si allude alla complementarietà come a un vero e proprio mistero, attraverso la famosissima espressione: «L’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne», espressione che è ripresa con forza da Gesù (Mt19,6). Ma anche in una prospettiva di mera antropologia culturale l’unione coniugale uomo–donna appare imprescindibile, perché simbolicamente fondante l’ordine sociale, sia pure attraverso mille varianti. Il tentativo, tutto moderno, di ridurre ai minimi termini la valenza del rapporto coniugale (se non addirittura di rimuoverlo) è quindi un segnale antropologicamente preoccupante, perché è solo nella famiglia e grazie alla famiglia, in cui uomo e donna si realizzano come «complementari» (cioè alla famiglia fondata sul matrimonio), che si garantisce l’ordine delle generazioni, l’educazione e l’inserimento sociale dei giovani, la cura dei malati, l’assistenza agli anziani. Che l’uso dell’espressione «complementarietà» crei tanta irritazione nelle donne tunisine può quindi avere le sue ragioni, ma si tratta di ragioni per così dire “localizzate”, che non possono essere “esportate”. Meno che mai dovremmo prendere lo spunto dal dibattito tunisino sul ruolo della donna per rivendicare un’ottusa concezione individualistica dei suoi diritti e della sua dignità (e reciprocamente dei diritti e della dignità degli uomini).
Dovremmo ormai aver definitivamente capito che i diritti umani non vanno mai rivendicati come individuali, ma sempre come relazionali. Dovremmo quindi convincerci che soprattutto nelle società occidentali avanzate il tema della complementarietà uomo–donna va rivitalizzato e riproposto come la chiave essenziale per tornare a tematizzare in modo sensato gli equilibri interni dell’esperienza familiare. In un momento storico come quello attuale in cui, quando si parla di famiglia, sembra che non si sappia più esattamente di cosa si parla, l’idea di complementarietà potrebbe tornare a rivelarsi particolarmente preziosa.
«Avvenire» del 19 agosto 2012
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