Le chiusure derivano dal timore del contagio occidentale
di Vittorio Messori
Ma come? Invitano il sindaco e si lagnano perché, preso da un altro impegno, non viene e manda un'assessora a rappresentarlo? E poi, quando si consegna loro la lettera del cardinale - scritta per giunta, per cortesia, in arabo - il responsabile del raduno se la mette distrattamente in tasca, dice una parola di ringraziamento altrettanto distratta, ma non l'apre e neanche cita nel suo discorso introduttivo l'arcivescovo? Che logica c'è in quanto avvenuto all'Arena di Milano, tra i diecimila musulmani che festeggiavano la fine del Ramadan?
Beh, almeno nella prospettiva islamica una logica c'è e l'ha spiegata proprio quella sorta di «grande imam» che, nell'occasione, guidava l'assemblea: «Abbiamo invitato a dare un saluto solo le istituzioni pubbliche che rappresentano tutta la città e, dunque, anche noi che vi abitiamo e vi lavoriamo. Ma questa è una ricorrenza religiosa musulmana e dunque non è previsto che parlino i rappresentanti di altre confessioni religiose». E ha aggiunto: «Sarebbe come se noi volessimo salutare i cattolici che, in Duomo, si preparano a celebrare la messa di Natale».
Chi non conosce bene questa realtà, spesso si scandalizza, perché non mette in conto che l'Islam è un «blocco», è una unità impenetrabile che distingue, senza possibilità di relazione, tra un noi e un loro. C'è sì la distinzione tra una schiacciante maggioranza di sunniti e una minoranza (tra un 10 e un 15 per cento, a livello mondiale) di sciiti, una distinzione che tra l'altro non impedisce una sostanziale unità di credo. Ma, al di là di questo, non vi è traccia della pluralità cristiana, della sua diversità di confessioni e, all'interno di questa, di diversi carismi e di diversi impegni: dal cristiano fervente al praticante saltuario, dall'integrista al «cattolico adulto». Nell'Islam o si credono le stesse cose - e le si credono senza esitare, pronti sempre al martirio pur di non rinnegarle - o si è espulsi da una comunità che non accetta distinzioni nella dottrina e tiepidezze nella pratica. Il «blocco» è di tale compattezza che giunge a imporre come dovere religioso escludere, anche con reazioni violente, chi non ne faccia parte e cerchi di intrufolarsi: chi non fosse musulmano e fosse scoperto tra i pellegrini della Mecca passerebbe certamente guai pesanti. Ma avrebbe grossi problemi anche l'intruso in una qualunque moschea, alla preghiera del venerdì. Il mondo intero è distinto in due: la «terra dei credenti» e la «terra degli infedeli», e dovere di ogni credente è diminuire la superficie di quest'ultima.
Compattezza sociale e fermezza su una dottrina elementare (schematizzata in soli cinque precetti giuridici cui obbedire) sono state per più di mille anni la forza di questa religione, ma rischiano ora di costituirne la debolezza. Già verso la fine dell'Ottocento Ernest Renan, che conosceva l'arabo, che aveva soggiornato in Medio Oriente, che aveva letto e meditato ogni testo musulmano, non aveva dubbi: «L'islamismo può esistere solo come unica religione: e non come religione di Stato, bensì come Stato esso stesso. Quando l'Occidente lo costringerà a trasformarsi in religione libera, individuale, spirituale, vissuta famiglia per famiglia e non nel grande clan o nella folla della moschea, l'islamismo perirà».
Ovviamente, le previsioni degli «esperti» vanno prese non dimenticando mai che la Storia è l'imprevedibile per eccellenza. Ma è indubbio che la fede annunciata da Muhammad è chiamata proprio ora a raccogliere la sfida decisiva lanciata da Renan più di un secolo fa. L'attuale migrazione verso Occidente è rischiosa innanzitutto per «loro» e niente è più fallace dello scambiare come prova di forza e di vigore giovanile certa aggressività musulmana. È il timore, semmai, che spiega perché le folle forgiate dal Corano tendano a ritornare all'integrismo, all'intransigenza, in qualche caso al terrorismo. È l'inquietudine che spiega perché l'accusa di «modernismo», di «occidentalizzazione» costringa, come ora in Nord Africa e in Medio Oriente, intere caste politiche all'esilio, con l'avvento di maomettani puri e duri.
In fondo, anche la scortesia (o, in una lettura benevola, l'equivoco o la gaffe) di domenica all'Arena milanese si inquadra in questa preoccupazione di preservare la compattezza del «blocco», vivendo in una società che ne è l'esatto contrario, tanto da essere stata definita come «liquida». Come a dire: qui ci siamo «noi»; e noi non vogliamo voci di altri, ci basta che i politici ci confermino che in questa città possiamo stare e rafforzare tranquilli la nostra unità di fede e di costumi. Il dialogo? Che bisogno ce n'è, per noi che abbiamo l'ultima rivelazione, quella definitiva, quella che ha fatto di Mosè e di Gesù solo dei precursori e degli annunciatori di Muhammad, l'ultimo, insuperabile Profeta?
Beh, almeno nella prospettiva islamica una logica c'è e l'ha spiegata proprio quella sorta di «grande imam» che, nell'occasione, guidava l'assemblea: «Abbiamo invitato a dare un saluto solo le istituzioni pubbliche che rappresentano tutta la città e, dunque, anche noi che vi abitiamo e vi lavoriamo. Ma questa è una ricorrenza religiosa musulmana e dunque non è previsto che parlino i rappresentanti di altre confessioni religiose». E ha aggiunto: «Sarebbe come se noi volessimo salutare i cattolici che, in Duomo, si preparano a celebrare la messa di Natale».
Chi non conosce bene questa realtà, spesso si scandalizza, perché non mette in conto che l'Islam è un «blocco», è una unità impenetrabile che distingue, senza possibilità di relazione, tra un noi e un loro. C'è sì la distinzione tra una schiacciante maggioranza di sunniti e una minoranza (tra un 10 e un 15 per cento, a livello mondiale) di sciiti, una distinzione che tra l'altro non impedisce una sostanziale unità di credo. Ma, al di là di questo, non vi è traccia della pluralità cristiana, della sua diversità di confessioni e, all'interno di questa, di diversi carismi e di diversi impegni: dal cristiano fervente al praticante saltuario, dall'integrista al «cattolico adulto». Nell'Islam o si credono le stesse cose - e le si credono senza esitare, pronti sempre al martirio pur di non rinnegarle - o si è espulsi da una comunità che non accetta distinzioni nella dottrina e tiepidezze nella pratica. Il «blocco» è di tale compattezza che giunge a imporre come dovere religioso escludere, anche con reazioni violente, chi non ne faccia parte e cerchi di intrufolarsi: chi non fosse musulmano e fosse scoperto tra i pellegrini della Mecca passerebbe certamente guai pesanti. Ma avrebbe grossi problemi anche l'intruso in una qualunque moschea, alla preghiera del venerdì. Il mondo intero è distinto in due: la «terra dei credenti» e la «terra degli infedeli», e dovere di ogni credente è diminuire la superficie di quest'ultima.
Compattezza sociale e fermezza su una dottrina elementare (schematizzata in soli cinque precetti giuridici cui obbedire) sono state per più di mille anni la forza di questa religione, ma rischiano ora di costituirne la debolezza. Già verso la fine dell'Ottocento Ernest Renan, che conosceva l'arabo, che aveva soggiornato in Medio Oriente, che aveva letto e meditato ogni testo musulmano, non aveva dubbi: «L'islamismo può esistere solo come unica religione: e non come religione di Stato, bensì come Stato esso stesso. Quando l'Occidente lo costringerà a trasformarsi in religione libera, individuale, spirituale, vissuta famiglia per famiglia e non nel grande clan o nella folla della moschea, l'islamismo perirà».
Ovviamente, le previsioni degli «esperti» vanno prese non dimenticando mai che la Storia è l'imprevedibile per eccellenza. Ma è indubbio che la fede annunciata da Muhammad è chiamata proprio ora a raccogliere la sfida decisiva lanciata da Renan più di un secolo fa. L'attuale migrazione verso Occidente è rischiosa innanzitutto per «loro» e niente è più fallace dello scambiare come prova di forza e di vigore giovanile certa aggressività musulmana. È il timore, semmai, che spiega perché le folle forgiate dal Corano tendano a ritornare all'integrismo, all'intransigenza, in qualche caso al terrorismo. È l'inquietudine che spiega perché l'accusa di «modernismo», di «occidentalizzazione» costringa, come ora in Nord Africa e in Medio Oriente, intere caste politiche all'esilio, con l'avvento di maomettani puri e duri.
In fondo, anche la scortesia (o, in una lettura benevola, l'equivoco o la gaffe) di domenica all'Arena milanese si inquadra in questa preoccupazione di preservare la compattezza del «blocco», vivendo in una società che ne è l'esatto contrario, tanto da essere stata definita come «liquida». Come a dire: qui ci siamo «noi»; e noi non vogliamo voci di altri, ci basta che i politici ci confermino che in questa città possiamo stare e rafforzare tranquilli la nostra unità di fede e di costumi. Il dialogo? Che bisogno ce n'è, per noi che abbiamo l'ultima rivelazione, quella definitiva, quella che ha fatto di Mosè e di Gesù solo dei precursori e degli annunciatori di Muhammad, l'ultimo, insuperabile Profeta?
«Corriere della sera» di agosto 2012
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