L’indagine di Christoph Türcke sulle sensazioni forti. Con qualche limite
di Guido Vitiello
Piercing, reality, stragi, slogan. Vivere è un continuo check-up emotivo. Lo scopo: assicurarsi di esserci e superare la paura di non provare nulla
Un nuovo Flaubert che volesse censire i luoghi comuni del nostro tempo dovrebbe far caso a una domanda che ricorre come un ritornello in televisione, sui giornali, ovunque: «Che cosa prova in questo momento?». La si rivolge indifferentemente al superstite di un disastro navale e alla reginetta neocoronata di un concorso di bellezza, alla madre cui hanno ucciso il figlio un’ora prima e alla concorrente cacciata da un reality. La risposta, per lo più, è: «Un’emozione fortissima». E allora, come in un rito spiritico, dietro il tendaggio delle immagini televisive fa capolino il fantasma dell’autenticità: le lacrime, le grida, il cuore in gola stanno a garanzia che qualcosa è accaduto di vero e di vivo. Ai moralisti nostri contemporanei questo botta e risposta offre un’occasione di più per biasimare un giornalismo frivolo o sciacallesco. Ma un antropologo catapultato da Marte penserebbe più prosaicamente che i popoli della Terra hanno lo strano bisogno di sottoporsi a un continuo check-up emotivo per assicurarsi di essere vivi.
Christoph Türcke non viene da Marte, più banalmente dalla Bassa Sassonia, ma il suo libro La società eccitata (Bollati Boringhieri) ha il merito di porsi domande che si porrebbe qualunque marziano di buon senso. Perché leggerlao in Italia? Perché la sovraeccitazione è il filo che lega eventi tragici e farseschi. La telefonata che sta ipnotizzando in questi giorni il nostro Paese tra il capitano tallone della nave Costa - semi-affondata a pochi metri dall’isola del Giglio - e il comandante modello, come la telefonata-scherzo che, nel 1990, annunciava a Sandra Milo che il figlio era in fin di vita all’ospedale («Ciro!» urlò lei disperata, in diretta). Nelle prime pagine Türcke cita una freddura che circolava negli anni Sessanta a proposito di un rotocalco avido di sangue e sciagure: «Bild è stato il primo a parlare con il cadavere». Se oggi la battuta ci fa meno ridere, è perché il sensazionalismo non è più affare di gazzettini scandalistici, detta legge a tutto il sistema dei media: è l’unica via per penetrare «nel sensorio ipersaturo di stimoli dei contemporanei». Neppure è un’esclusiva dell’informazione: la ricerca dello shock, dell’emozione violenta, in una parola della «sensazione», Türcke la vede all’opera nella pubblicità e nell’intrattenimento, nella pratica del piercing e nelle stragi più insensate, tra i tossicomani e i fondamentalisti. Non si salvano neppure gli intellettuali, che per trapassare la corazza protetta di un pubblico assuefatto procedono a colpi di slogan e aforismi puntuti.
La società moderna vive uno stato di eccitazione perpetua, febbrile, s’intossica di stimoli senza curarsi di dar loro un senso. Il tema non nuovo, ma oggi è inaggirabile. Vent’anni fa il sociologo Gerhard Schulze aveva scritto, Die Erlebnisgesellschaft, su una «società dell’esperienza» in cerca della sensazione forte fine a sé stessa, e ben prima c’erano state le pagine di Georg Simmel sul bombardamento sensoriale della metropoli e quelle di Walter Benjamin sullo shock come forma dell’esperienza moderna. Certo, c’è tedesco e tedesco. A differenza di Benjamin e delle sue folgorazioni aforistiche, Türcke tende più al tipo del filosofo sistematico, che se si trova per le mani una buona intuizione non si contenta di svolgerla nella forma lieve dell’essai: prima scava nelle profondità abissali della sua idea per dissotterrarne il fondamento primordiale (quel genere di cose che il tedesco esprime con l’intraducibile parolina Ur); poi, sul terreno così dissodato, innalza un imponente grattacielo concettuale - i piloni portanti sono, in questo caso, Marx, Freud, Benjamin e il situazionista Guy Debord - con il rischio di intimidire il lettore profano. Che però, in questo caso, farà bene a non scoraggiarsi: la favola parla di lui, e dei suoi antenati che vissero all’alba della modernità.
A quell’epoca, la «mobilitazione totale» del sistema nervoso suonava ancora come una promessa: era il segno di un mondo nascente. Ma tutto quel dimenarsi, che nell’industrioso Ottocento pareva diretto a un fine, da qualche decennio è un meccanismo che vortica a vuoto, generando una frenesia senza scopo. Torna alla mente uno dei dipinti newyorkesi di Mondrian, Broadway Boogie-Woogie (1943), un reticolo pulsante di lineette e quadratini gialli, rossi, blu, capace di evocare insieme i ritmi sincopati del jazz, il codice morse dei telegrafi e la veduta aerea di una metropoli illuminata: lo spirito della modernità in compendio. Eppure, a rivederlo bene, notiamo che quelle linee e quelle luci compongono un circuito chiuso, autoreferenziale, una misteriosa e indecifrabile segnaletica primitiva. «Il rivoluzionamento ipertecnologico lascia trasparire chiari segni di una regressione all’arcaico», suggerisce Türcke, persuaso che l’umanità stia tornando a una fase primordiale della percezione.
Non siamo abbastanza tedeschi per seguirlo in questa scampagnata ancestrale, né abbastanza filosofi per apprezzare la sua archeologia del concetto di «sensazione». Ma c’è una parola più comune che abbiamo cercato invano scorrendo le sue pagine: noia. Possibile che la grandinata di stimoli sotto cui viviamo non abbia nulla a che fare con la noia? Türcke avrebbe fatto bene a rileggere un vecchio saggio di George Steiner che s’intitolava appunto The Great attui. Vi era descritta la «grande noia» del letterati ottocenteschi, saturi di letture e di chimere, divorati dai demoni del vuoto mentre tutt’intorno regnava l’ottimismo affaccendato dei positivisti e dei liberali. Quel senso di paralisi interiore culminò nel grido profetico di Théophile Gautier: «Meglio la barbarie della noia!». I poeti si misero allora a coltivare fantasie di catastrofe, si tuffarono nelle antichità più orgiastiche, si volsero all’oppio e all’assenzio. Che la moderna ricerca della «sensazione» sia figlia di un ennui altrettanto grande?
Come le rane degli esperimenti di Galvani, siamo percorsi di continuo da spasmi e contrazioni, e tutto il nostro mondo tecnologico sta lì a somministrarci scosse elettriche. Ma quelle rane, per quanto agitassero convulsamente le zampe, erano già stecchite e sezionate. Chissà che non fossero morte di noia.
Christoph Türcke non viene da Marte, più banalmente dalla Bassa Sassonia, ma il suo libro La società eccitata (Bollati Boringhieri) ha il merito di porsi domande che si porrebbe qualunque marziano di buon senso. Perché leggerlao in Italia? Perché la sovraeccitazione è il filo che lega eventi tragici e farseschi. La telefonata che sta ipnotizzando in questi giorni il nostro Paese tra il capitano tallone della nave Costa - semi-affondata a pochi metri dall’isola del Giglio - e il comandante modello, come la telefonata-scherzo che, nel 1990, annunciava a Sandra Milo che il figlio era in fin di vita all’ospedale («Ciro!» urlò lei disperata, in diretta). Nelle prime pagine Türcke cita una freddura che circolava negli anni Sessanta a proposito di un rotocalco avido di sangue e sciagure: «Bild è stato il primo a parlare con il cadavere». Se oggi la battuta ci fa meno ridere, è perché il sensazionalismo non è più affare di gazzettini scandalistici, detta legge a tutto il sistema dei media: è l’unica via per penetrare «nel sensorio ipersaturo di stimoli dei contemporanei». Neppure è un’esclusiva dell’informazione: la ricerca dello shock, dell’emozione violenta, in una parola della «sensazione», Türcke la vede all’opera nella pubblicità e nell’intrattenimento, nella pratica del piercing e nelle stragi più insensate, tra i tossicomani e i fondamentalisti. Non si salvano neppure gli intellettuali, che per trapassare la corazza protetta di un pubblico assuefatto procedono a colpi di slogan e aforismi puntuti.
La società moderna vive uno stato di eccitazione perpetua, febbrile, s’intossica di stimoli senza curarsi di dar loro un senso. Il tema non nuovo, ma oggi è inaggirabile. Vent’anni fa il sociologo Gerhard Schulze aveva scritto, Die Erlebnisgesellschaft, su una «società dell’esperienza» in cerca della sensazione forte fine a sé stessa, e ben prima c’erano state le pagine di Georg Simmel sul bombardamento sensoriale della metropoli e quelle di Walter Benjamin sullo shock come forma dell’esperienza moderna. Certo, c’è tedesco e tedesco. A differenza di Benjamin e delle sue folgorazioni aforistiche, Türcke tende più al tipo del filosofo sistematico, che se si trova per le mani una buona intuizione non si contenta di svolgerla nella forma lieve dell’essai: prima scava nelle profondità abissali della sua idea per dissotterrarne il fondamento primordiale (quel genere di cose che il tedesco esprime con l’intraducibile parolina Ur); poi, sul terreno così dissodato, innalza un imponente grattacielo concettuale - i piloni portanti sono, in questo caso, Marx, Freud, Benjamin e il situazionista Guy Debord - con il rischio di intimidire il lettore profano. Che però, in questo caso, farà bene a non scoraggiarsi: la favola parla di lui, e dei suoi antenati che vissero all’alba della modernità.
A quell’epoca, la «mobilitazione totale» del sistema nervoso suonava ancora come una promessa: era il segno di un mondo nascente. Ma tutto quel dimenarsi, che nell’industrioso Ottocento pareva diretto a un fine, da qualche decennio è un meccanismo che vortica a vuoto, generando una frenesia senza scopo. Torna alla mente uno dei dipinti newyorkesi di Mondrian, Broadway Boogie-Woogie (1943), un reticolo pulsante di lineette e quadratini gialli, rossi, blu, capace di evocare insieme i ritmi sincopati del jazz, il codice morse dei telegrafi e la veduta aerea di una metropoli illuminata: lo spirito della modernità in compendio. Eppure, a rivederlo bene, notiamo che quelle linee e quelle luci compongono un circuito chiuso, autoreferenziale, una misteriosa e indecifrabile segnaletica primitiva. «Il rivoluzionamento ipertecnologico lascia trasparire chiari segni di una regressione all’arcaico», suggerisce Türcke, persuaso che l’umanità stia tornando a una fase primordiale della percezione.
Non siamo abbastanza tedeschi per seguirlo in questa scampagnata ancestrale, né abbastanza filosofi per apprezzare la sua archeologia del concetto di «sensazione». Ma c’è una parola più comune che abbiamo cercato invano scorrendo le sue pagine: noia. Possibile che la grandinata di stimoli sotto cui viviamo non abbia nulla a che fare con la noia? Türcke avrebbe fatto bene a rileggere un vecchio saggio di George Steiner che s’intitolava appunto The Great attui. Vi era descritta la «grande noia» del letterati ottocenteschi, saturi di letture e di chimere, divorati dai demoni del vuoto mentre tutt’intorno regnava l’ottimismo affaccendato dei positivisti e dei liberali. Quel senso di paralisi interiore culminò nel grido profetico di Théophile Gautier: «Meglio la barbarie della noia!». I poeti si misero allora a coltivare fantasie di catastrofe, si tuffarono nelle antichità più orgiastiche, si volsero all’oppio e all’assenzio. Che la moderna ricerca della «sensazione» sia figlia di un ennui altrettanto grande?
Come le rane degli esperimenti di Galvani, siamo percorsi di continuo da spasmi e contrazioni, e tutto il nostro mondo tecnologico sta lì a somministrarci scosse elettriche. Ma quelle rane, per quanto agitassero convulsamente le zampe, erano già stecchite e sezionate. Chissà che non fossero morte di noia.
«Corriere della Sera» - Supplemento "La lettura" del 22 gennaio 2012
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