Viviamo in un’epoca di «overload di conoscenza»
di Serena Danna
Sappiamo tutto, capiamo poco
«A cosa serve avere tanti libri e librerie se poi non basterebbe una vita intera per leggere solo i titoli?»: se lo chiedeva già nel V secolo a. C. il filosofo Socrate, che possiamo quindi considerare a buon titolo primo teorico dell’«overload informativo», l’eccesso di informazioni che affligge i nostri tempi. E Socrate fu solo il pioniere, anche il matematico e filosofo Leibniz denunciava l’«orrible massa di libri che continua a crescere», mentre Denis Diderot, padre dell’Enciclopedia, scriveva nel 1755: «Con il passare dei secoli, aumenterà il numero di libri, al punto che possiamo prevedere un tempo in cui imparare dai libri sarà difficile come studiare l’universo».
A ricordarci quanto antica sia la questione dell’iperproduzione di sapere è ora lo studioso americano David Weinberger, ricercatore del Berkman Center for Internet and Society di Harvard, nel suo libro, appena uscito negli Stati Uniti, Too big to know. Il titolo (letteralmente: troppo grande per conoscerlo) strizza l’occhio al bestseller sulla crisi finanziaria di Andrew Rosa Sorkin Too big to fail: intemet starebbe modificando non solo i meccanismi e i contenuti del sapere, ma il significato stesso di conoscenza.
Con la diffusione di massa dei personal computer è tramontata l’idea classica, legata alle biblioteche, di un sapere verticistico, in cui, calandosi dall’alto nello spazio di una o tremila pagine, solo «l’esperto», può colmare il vuoto di informazioni del lettore-studente.
Weinberger dichiara presto il suo debito con il sociologo Marshall McLuhan: «Trasformare il mezzo attraverso il quale si sviluppa, conserva e comunica conoscenza – scrive - significa trasformare la conoscenza». Così, il celebre slogan «il mezzo è il messaggio», ritorna di profonda attualità.
«Ogni blogger è un medium e ogni lettore è un editor», scrive Weinberger, che mostra come lo spettatore di una partita di calcio, grazie alla tecnologia, sia oggi in grado di vedere i replay in tempo reale e valutare errori e mosse vincenti sulle chat live prima dell’arbitro. Allo stesso modo le notizie che circolano sui sociali network troveranno centinaia di persone pronte a correggerle, contestarle, arricchirle.
La vecchia cultura del «bisogno di sapere» deve oggi farei conti con il «bisogno di condividere». Ma qual è il risultato? Weinberger delinea le caratteristiche della conoscenza 2.0: vasta, data la quantità abnorme di informazioni in circolo; senza argini: il web a differenza di una pagina non ha confini; populista perché terreno fertile per propaganda; e instabile perché il nuovo sapere non è frutto di un accordo tra gli esperti - memoria della sintesi aristotelica - ma nasce proprio dal disaccordo di chi partecipa alla discussione.
Secondo lo studioso americano sono le basi della conoscenza ad essere cambiate: i fatti. Fino al XVII secolo questi erano simboli di una teoria, manifestazione di un’idea universale, analogie tra il divino e l’umano. «Prima dell’Illuminismo il termine "fatto" - scrive - aveva il significato di cattiva azione: un omicidio era un fatto, non le Piramidi in Egitto», simboli di un mondo oltre quello terreno.
L’Illuminismo ne rivoluziona dunque il significato restituendo al fatto la natura dl fenomeno: è ciò che appare. «I fatti sono costituiti da particolari, non da universali - si legge in Too big to know - ma i nostri antenati disdegnavano il particolare in quanto oggetto della percezione sensoriale, un aspetto che ci accomuna agli animali». Il metodo scientifico prima e la scoperta della statistica poi daranno alla nozione di fatto un significato opposto: quello che si può vedere, dimostrare, contare. Gli uomini sviluppano così un metodo di gestione della conoscenza che porteranno avanti fino alla nascita di internet: la sottrazione. L’unico modo per orientarsi nel caos dei fenomeni è ridurli, affidando la selezione agli esperti che li scarteranno, analizzeranno e infine decideranno quali di essi possono essere offerti al pubblico.
Ma entra in scena il Web sociale, che ribalta la struttura: i fatti non sono più «unità isolate di conoscenza» ma parte di un network, «ed esistono grazie alla possibilità che hanno gli utenti di condividerli». Nel secolo scorso la tabella utilizzata per dimostrare, ad esempio, che il livello di criminalità in una città fosse diminuito, veniva solo menzionata all’interno di un articolo. Al lettore restavano due opzioni: fidarsi o non fidarsi dell’autore. Oggi quegli stessi dati sarebbero a disposizione di tutti gi utenti capaci, in questo modo, di verificare la bontà dell’informazione.
Il network è principio primo della nuova conoscenza e i fatti sono «condivisi, perché è l’infrastruttura stessa della conoscenza che lo richiede. La bontà del sapere prodotto online dipende dall’architettura che siamo in grado di costruire. Weinberger spiega: «Da quando la conoscenza è diventata un network, la persona più intelligente all’interno di una stanza non è quella che pontifica in piedi davanti a noi, né tanto meno l’intelligenza collettiva della stanza: la persona più intelligente della stanza è la stanza in sé; il network che connette persone e idee in quello spazio e le proietta all’esterno». Per il filosofo ne deriva un sapere «meno certo ma più umano, meno definito ma più trasparente, attendibile ma più inclusivo, meno solido ma più ricco».
È in atto una crisi del sapere che è, allo stesso tempo, esaltazione del sapere: mai c’è stata tanta informazione nel mondo accompagnata, per la prima volta, da un contenitore adatto ad accoglierla. Come gestire la nuova era? Il ricercatore di Harvard intravede due scenari: da un lato la Rete come contenitore di gossip, bugie, rancori e propaganda, capace di rendere più stupidi gli utenti. Il trionfo del «lato oscuro» di Internet temuto da attenti osservatori delle dinamiche online come il «nostro» Eugeny Morozov, gli scrittori Nicholas Carr e Gianni Riotta, il pioniere di Internet Jaron Lanier e il politologo Charles Kupchan, in cui il rischio è che a vincere sia chi urla di più. L’alternativa è lavorare per costruire una «stanza» migliore.
È stato un techno-entusiasta come Clay Shirky, docente alla New York University, a sostenere che la questione non riguarda «il sovraccarico di informazione ma il fallimento del filtro». Ed è qui che la teoria di Weinberger si fa più interessante. Il filosofo spiega che i filtri utilizzati per scremare la quantità di informazioni online hanno seguito fino a oggi due strade: l’aritmetica e il «sociale».
Da un lato algoritmi e formule che permettono a Google di indicizzare i risultati di una ricerca, di correggere in automatico gli errori di un testo o ancora di parlare via Skype con amici lontani. Dall’altra i consigli dei nostri amici sui social network (pensiamo agli «I like» di Facebook), ovvero la selezione operata dai «personal opinion leader» in base a gusti e preferenze.
Nel primo caso i rischi sono quelli paventati da Eli Pariser in The Filter Bubble: un sistema che indicizza le informazioni in modo che vadano a consolidare i nostri stereotipi, in cui la personalizzazione della ricerca porta gli utenti in un universo coerente, dove anche un neonazista o un cannibale troveranno online conferme delle loro teorie e della bontà delle loro pratiche.
Se ci affidiamo invece a un filtro «sociale» sarà il conformismo degli amici a prevalere e lo farà ad uso e consumo del marketing. I filtri sono contenuto. Lavorare per migliorare i meccanismi di selezione della notizia, è fondamentale per migliorare la produzione informativa.
Secondo Weinberger per risolvere il problema dell’overload informativo non bisogna ridurre le informazioni ma aumentarle. Il filosofo è convinto che la strada provata dalle istituzioni del sapere - dai governi ai giornali - di utilizzare la segretezza o il filtro del pagamento per gestire le informazioni sia sbagliata: un tentativo inutile di fermare il flusso della storia. La soluzione di Weinberger si chiama «metadata». Nell’architettura del nuovo sapere l’utente diventa esperto e, analogamente, rende esperto chi legge, quando è capace di fornire le informazioni, i dati, i diversi punti di vista che hanno reso possibile la costruzione della notizia. Un articolo pieno di link che rimandano alle fonti e di contributi audio-video è un modo per migliorare il sapere. Permettere che circoli in maniera pubblica e gratuita insieme a quello prodotto da fonti autorevoli (centri di ricerca, giornali, istituzioni) è la maniera per infondere le qualità del vecchio modo di produrre sapere nel nuovo. E accettare una volta per tutte che non è la sintonia il principio della conoscenza ma la dialettica. Anche stavolta Socrate c’era già arrivato: è nelle differenze, e nel dibattito maieutico tra le idee che germina il sapere.
A ricordarci quanto antica sia la questione dell’iperproduzione di sapere è ora lo studioso americano David Weinberger, ricercatore del Berkman Center for Internet and Society di Harvard, nel suo libro, appena uscito negli Stati Uniti, Too big to know. Il titolo (letteralmente: troppo grande per conoscerlo) strizza l’occhio al bestseller sulla crisi finanziaria di Andrew Rosa Sorkin Too big to fail: intemet starebbe modificando non solo i meccanismi e i contenuti del sapere, ma il significato stesso di conoscenza.
Con la diffusione di massa dei personal computer è tramontata l’idea classica, legata alle biblioteche, di un sapere verticistico, in cui, calandosi dall’alto nello spazio di una o tremila pagine, solo «l’esperto», può colmare il vuoto di informazioni del lettore-studente.
Weinberger dichiara presto il suo debito con il sociologo Marshall McLuhan: «Trasformare il mezzo attraverso il quale si sviluppa, conserva e comunica conoscenza – scrive - significa trasformare la conoscenza». Così, il celebre slogan «il mezzo è il messaggio», ritorna di profonda attualità.
«Ogni blogger è un medium e ogni lettore è un editor», scrive Weinberger, che mostra come lo spettatore di una partita di calcio, grazie alla tecnologia, sia oggi in grado di vedere i replay in tempo reale e valutare errori e mosse vincenti sulle chat live prima dell’arbitro. Allo stesso modo le notizie che circolano sui sociali network troveranno centinaia di persone pronte a correggerle, contestarle, arricchirle.
La vecchia cultura del «bisogno di sapere» deve oggi farei conti con il «bisogno di condividere». Ma qual è il risultato? Weinberger delinea le caratteristiche della conoscenza 2.0: vasta, data la quantità abnorme di informazioni in circolo; senza argini: il web a differenza di una pagina non ha confini; populista perché terreno fertile per propaganda; e instabile perché il nuovo sapere non è frutto di un accordo tra gli esperti - memoria della sintesi aristotelica - ma nasce proprio dal disaccordo di chi partecipa alla discussione.
Secondo lo studioso americano sono le basi della conoscenza ad essere cambiate: i fatti. Fino al XVII secolo questi erano simboli di una teoria, manifestazione di un’idea universale, analogie tra il divino e l’umano. «Prima dell’Illuminismo il termine "fatto" - scrive - aveva il significato di cattiva azione: un omicidio era un fatto, non le Piramidi in Egitto», simboli di un mondo oltre quello terreno.
L’Illuminismo ne rivoluziona dunque il significato restituendo al fatto la natura dl fenomeno: è ciò che appare. «I fatti sono costituiti da particolari, non da universali - si legge in Too big to know - ma i nostri antenati disdegnavano il particolare in quanto oggetto della percezione sensoriale, un aspetto che ci accomuna agli animali». Il metodo scientifico prima e la scoperta della statistica poi daranno alla nozione di fatto un significato opposto: quello che si può vedere, dimostrare, contare. Gli uomini sviluppano così un metodo di gestione della conoscenza che porteranno avanti fino alla nascita di internet: la sottrazione. L’unico modo per orientarsi nel caos dei fenomeni è ridurli, affidando la selezione agli esperti che li scarteranno, analizzeranno e infine decideranno quali di essi possono essere offerti al pubblico.
Ma entra in scena il Web sociale, che ribalta la struttura: i fatti non sono più «unità isolate di conoscenza» ma parte di un network, «ed esistono grazie alla possibilità che hanno gli utenti di condividerli». Nel secolo scorso la tabella utilizzata per dimostrare, ad esempio, che il livello di criminalità in una città fosse diminuito, veniva solo menzionata all’interno di un articolo. Al lettore restavano due opzioni: fidarsi o non fidarsi dell’autore. Oggi quegli stessi dati sarebbero a disposizione di tutti gi utenti capaci, in questo modo, di verificare la bontà dell’informazione.
Il network è principio primo della nuova conoscenza e i fatti sono «condivisi, perché è l’infrastruttura stessa della conoscenza che lo richiede. La bontà del sapere prodotto online dipende dall’architettura che siamo in grado di costruire. Weinberger spiega: «Da quando la conoscenza è diventata un network, la persona più intelligente all’interno di una stanza non è quella che pontifica in piedi davanti a noi, né tanto meno l’intelligenza collettiva della stanza: la persona più intelligente della stanza è la stanza in sé; il network che connette persone e idee in quello spazio e le proietta all’esterno». Per il filosofo ne deriva un sapere «meno certo ma più umano, meno definito ma più trasparente, attendibile ma più inclusivo, meno solido ma più ricco».
È in atto una crisi del sapere che è, allo stesso tempo, esaltazione del sapere: mai c’è stata tanta informazione nel mondo accompagnata, per la prima volta, da un contenitore adatto ad accoglierla. Come gestire la nuova era? Il ricercatore di Harvard intravede due scenari: da un lato la Rete come contenitore di gossip, bugie, rancori e propaganda, capace di rendere più stupidi gli utenti. Il trionfo del «lato oscuro» di Internet temuto da attenti osservatori delle dinamiche online come il «nostro» Eugeny Morozov, gli scrittori Nicholas Carr e Gianni Riotta, il pioniere di Internet Jaron Lanier e il politologo Charles Kupchan, in cui il rischio è che a vincere sia chi urla di più. L’alternativa è lavorare per costruire una «stanza» migliore.
È stato un techno-entusiasta come Clay Shirky, docente alla New York University, a sostenere che la questione non riguarda «il sovraccarico di informazione ma il fallimento del filtro». Ed è qui che la teoria di Weinberger si fa più interessante. Il filosofo spiega che i filtri utilizzati per scremare la quantità di informazioni online hanno seguito fino a oggi due strade: l’aritmetica e il «sociale».
Da un lato algoritmi e formule che permettono a Google di indicizzare i risultati di una ricerca, di correggere in automatico gli errori di un testo o ancora di parlare via Skype con amici lontani. Dall’altra i consigli dei nostri amici sui social network (pensiamo agli «I like» di Facebook), ovvero la selezione operata dai «personal opinion leader» in base a gusti e preferenze.
Nel primo caso i rischi sono quelli paventati da Eli Pariser in The Filter Bubble: un sistema che indicizza le informazioni in modo che vadano a consolidare i nostri stereotipi, in cui la personalizzazione della ricerca porta gli utenti in un universo coerente, dove anche un neonazista o un cannibale troveranno online conferme delle loro teorie e della bontà delle loro pratiche.
Se ci affidiamo invece a un filtro «sociale» sarà il conformismo degli amici a prevalere e lo farà ad uso e consumo del marketing. I filtri sono contenuto. Lavorare per migliorare i meccanismi di selezione della notizia, è fondamentale per migliorare la produzione informativa.
Secondo Weinberger per risolvere il problema dell’overload informativo non bisogna ridurre le informazioni ma aumentarle. Il filosofo è convinto che la strada provata dalle istituzioni del sapere - dai governi ai giornali - di utilizzare la segretezza o il filtro del pagamento per gestire le informazioni sia sbagliata: un tentativo inutile di fermare il flusso della storia. La soluzione di Weinberger si chiama «metadata». Nell’architettura del nuovo sapere l’utente diventa esperto e, analogamente, rende esperto chi legge, quando è capace di fornire le informazioni, i dati, i diversi punti di vista che hanno reso possibile la costruzione della notizia. Un articolo pieno di link che rimandano alle fonti e di contributi audio-video è un modo per migliorare il sapere. Permettere che circoli in maniera pubblica e gratuita insieme a quello prodotto da fonti autorevoli (centri di ricerca, giornali, istituzioni) è la maniera per infondere le qualità del vecchio modo di produrre sapere nel nuovo. E accettare una volta per tutte che non è la sintonia il principio della conoscenza ma la dialettica. Anche stavolta Socrate c’era già arrivato: è nelle differenze, e nel dibattito maieutico tra le idee che germina il sapere.
«Corriere della Sera» - Supplemento "La lettura" del 22 gennaio 2012
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