Un saggio di Verlyn Flieger analizza la filosofia del linguaggio nell’opera del grande autore inglese
di Marco Meschini
Per la maggioranza assoluta dei lettori, John Ronald Reuel Tolkien è l’autore de Il Signore degli Anelli. Ma quali sono le sue altre opere? E come si colloca quel capolavoro del XX secolo nella sua intera produzione?
Come a ogni classico che si rispetti, anche all’autore inglese accade di finire giustapposto all’opera di maggior successo, finendo con il ritenerla anche la sua maggiore in assoluto. Ciò è tanto più vero in un Paese come l’Italia, dove per oltre mezzo secolo il mondo fantastico di Tolkien è stato bollato con la squalificante etichetta di «genere fantasy», quasi fosse un Harry Potter o un Eragon qualunque.
In realtà, la ricerca - anche accademica - intorno al genio creativo del professore di Oxford continua a sfornare studi sempre più qualificati e illuminanti, capaci di collocare la sua impresa artistica nel panorama globale. È il caso del saggio Splintered light di Verlyn Flieger, la cui prima edizione è del 1983 mentre la seconda (2002) è stata ora tradotta in italiano con il titolo Schegge di luce. Si apre con questo saggio una nuova collana, voluta da Emmanuele Morandi e Claudio Antonio Testi, i cui confini sono chiari ma non ristretti: «Tolkien e dintorni», a indicare che il gruppo di ricercatori da loro riuniti insieme all’Istituto Filosofico di Studi Tomistici e all’editore Marietti 1820 mira a gettare un fascio di conoscenza sulle gesta creative di quel gruppo un po’ eccentrico e molto geniale che prese il nome di Inklings, letteralmente «imbrattatori d’inchiostro», animato dalle figure di Tolkien, C.S. Lewis, Ch. Williams e altri nel santuario oxoniense, per bere, fumare, discutere elevato e scrivere benissimo. Un’iniziativa egregia, che tien dietro al buon successo di un altro libro su Tolkien, La via per la Terra di Mezzo, di Tom Shippey.
Ebbene, questo primo volume della collana affronta di petto il problema sollevato in apertura. Per la Flieger non è possibile comprendere appieno Il Signore degli Anelli né, tantomeno, il suo autore, senza avventurarsi nel suo legendarium, ovvero l’intero complesso della sua opera, partorita in oltre cinquant’anni di vita all’interno di un limpido sistema linguistico e filosofico. Tutto, infatti, trae origine dagli studi filologici di Tolkien, capace di creare storie a non finire a partire dai fonemi, presto articolati in linguaggi creati da Tolkien stesso per portare alla vita - intesa di primo acchito come percezione dell’esistente, nominazione del creato e coscienza di sé - il suo mondo fantastico.
Questo impressionante disvelamento del potere biblico del lógos, della «parola», derivò a Tolkien - oltre che dai suoi talenti naturali - dall’incontro con un altro frequentatore degli Inklings: Owen Barfield, ideatore dell’«antroposofia». Per Barfield l’uomo si accorge progressivamente di se stesso e di ciò che lo circonda proprio distaccandosi gradualmente dal mondo e dal potere che ha dato avvio al tutto. L’individualizzazione che ne consegue, infine, conduce a una superiore unità con l’universo e il suo Creatore. E il linguaggio riflette questo processo: da un’unità remota si distaccano nuove forme e nuovi sensi, come le infinite rifrazioni di un raggio di luce attraverso un prisma. Luce e parola si trovano così, unite in essenza, nella polarità positiva che contrasta con l’ombra e il rumore, contraltare psicologico, esistenziale e artistico di tutta l’opera di Tolkien. Di scheggia in scheggia, Verlyn Flieger conduce il lettore nel vasto mondo del Silmarillion, il vero, grande opus magnum di Tolkien, alla fine del quale si potrà dire, con un’altra studiosa del grande autore, Simonne d’Ardenne: «Lei ha lacerato il velo e lo ha attraversato, non è vero?».
Come a ogni classico che si rispetti, anche all’autore inglese accade di finire giustapposto all’opera di maggior successo, finendo con il ritenerla anche la sua maggiore in assoluto. Ciò è tanto più vero in un Paese come l’Italia, dove per oltre mezzo secolo il mondo fantastico di Tolkien è stato bollato con la squalificante etichetta di «genere fantasy», quasi fosse un Harry Potter o un Eragon qualunque.
In realtà, la ricerca - anche accademica - intorno al genio creativo del professore di Oxford continua a sfornare studi sempre più qualificati e illuminanti, capaci di collocare la sua impresa artistica nel panorama globale. È il caso del saggio Splintered light di Verlyn Flieger, la cui prima edizione è del 1983 mentre la seconda (2002) è stata ora tradotta in italiano con il titolo Schegge di luce. Si apre con questo saggio una nuova collana, voluta da Emmanuele Morandi e Claudio Antonio Testi, i cui confini sono chiari ma non ristretti: «Tolkien e dintorni», a indicare che il gruppo di ricercatori da loro riuniti insieme all’Istituto Filosofico di Studi Tomistici e all’editore Marietti 1820 mira a gettare un fascio di conoscenza sulle gesta creative di quel gruppo un po’ eccentrico e molto geniale che prese il nome di Inklings, letteralmente «imbrattatori d’inchiostro», animato dalle figure di Tolkien, C.S. Lewis, Ch. Williams e altri nel santuario oxoniense, per bere, fumare, discutere elevato e scrivere benissimo. Un’iniziativa egregia, che tien dietro al buon successo di un altro libro su Tolkien, La via per la Terra di Mezzo, di Tom Shippey.
Ebbene, questo primo volume della collana affronta di petto il problema sollevato in apertura. Per la Flieger non è possibile comprendere appieno Il Signore degli Anelli né, tantomeno, il suo autore, senza avventurarsi nel suo legendarium, ovvero l’intero complesso della sua opera, partorita in oltre cinquant’anni di vita all’interno di un limpido sistema linguistico e filosofico. Tutto, infatti, trae origine dagli studi filologici di Tolkien, capace di creare storie a non finire a partire dai fonemi, presto articolati in linguaggi creati da Tolkien stesso per portare alla vita - intesa di primo acchito come percezione dell’esistente, nominazione del creato e coscienza di sé - il suo mondo fantastico.
Questo impressionante disvelamento del potere biblico del lógos, della «parola», derivò a Tolkien - oltre che dai suoi talenti naturali - dall’incontro con un altro frequentatore degli Inklings: Owen Barfield, ideatore dell’«antroposofia». Per Barfield l’uomo si accorge progressivamente di se stesso e di ciò che lo circonda proprio distaccandosi gradualmente dal mondo e dal potere che ha dato avvio al tutto. L’individualizzazione che ne consegue, infine, conduce a una superiore unità con l’universo e il suo Creatore. E il linguaggio riflette questo processo: da un’unità remota si distaccano nuove forme e nuovi sensi, come le infinite rifrazioni di un raggio di luce attraverso un prisma. Luce e parola si trovano così, unite in essenza, nella polarità positiva che contrasta con l’ombra e il rumore, contraltare psicologico, esistenziale e artistico di tutta l’opera di Tolkien. Di scheggia in scheggia, Verlyn Flieger conduce il lettore nel vasto mondo del Silmarillion, il vero, grande opus magnum di Tolkien, alla fine del quale si potrà dire, con un’altra studiosa del grande autore, Simonne d’Ardenne: «Lei ha lacerato il velo e lo ha attraversato, non è vero?».
Verlyn Flieger, Schegge di luce. Logos e linguaggio nel mondo di Tolkien (Marietti 1820, pagg. 294, euro 25).
«Il Giornale» del 6 maggio 2007
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