Il compito della scuola, la trasmissione del sapere e l’educazione, ma soprattutto i guasti provocati dalla contestazione di quasi 40 anni fa: nel testo inedito che qui pubblichiamo Aldo Agazzi, lo studioso scomparso nel 2000, sostiene che «il disastro che il Sessantotto ha arrecato alla scuola, alla educazione e alla cultura, è assolutamente inimmaginabile». Un attacco alla bellezza e alla cultura, ai cardini della trasmissione del sapere e della formazione .«Perfino un intellettuale comunista come Concetto Marchesi, autore di una tra le più belle storie della letteratura latina, ebbe il coraggio di dire che il giorno in cui non ci sarà più il latino nella cultura, saranno tenebre sul mondo Ma al movimento non importava. Il latino rappresentava la tradizione della cultura italiana e la lingua della Chiesa, e come tale andava combattuto, aspramente»
di Aldo Agazzi
Il disastro che il Sessantotto ha arrecato alla scuola, all'educazione e alla cultura, è assolutamente inimmaginabile. Altro che Apocalisse! I movimenti del Sessantotto non volevano più la cultura, contestavano i docenti, ingaggiarono la grande lotta contro il latino, che era poi la lotta contro la cultura classica e la lingua della Chiesa cattolica. Perfino un intellettuale comunista come Concetto Marchesi, autore di una tra le più belle storie della letteratura latina, ebbe il coraggio di dire che il giorno in cui non ci sarà più il latino nella cultura, saranno tenebre sul mondo... Ma al movimento ciò non importava. Il latino rappresentava la tradizione della cultura italiana e la lingua della Chiesa, e come tale andava combattuto, aspramente.
Università Cattolica a parte, dove si riusciva ancora a fare lezione, nel clima del '68 non si studiava più. I docenti erano in crisi. Ricordo i miei colleghi, tra i quali il professore di storia antica, Albino Garzetti. Era bravissimo, ma non resistette alla contestazione e diede le dimissioni. E ricordo un sacerdote rosminiano, professore di psicologia, la bontà incarnata: venne contestato violentemente, tanto che abbandonò l'aula e lo ritrovarono in lacrime nel corridoio. Dopo l'episodio, radunai gli studenti e, tra le tante osservazioni, dissi loro: ricordatevi bene, figlioli, che prima di farmi uscire piangente dall'aula, ce ne vorrà... Difatti, non è mai avvenuto.
Il '68 ha segnato la catastrofe, il baratro della cultura, che è stata compromessa per sempre. Nel '68 fu consumato il divorzio con il sapere. Penso solo ad uno dei tanti fatti, avvenuto alla Statale di Milano, dove il docente di letteratura italiana fu contestato perché continuava, o avrebbe voluto continuare, a spiegare Dante... Per non parlare delle improvvisazioni, delle autogestioni, e dei voti politici, per cui si dava anche il 30 a chi non sapeva assolutamente niente. Non ho mai dato né voti politici e né voti gratuiti. E non davo mai meno di 28, n el senso che volevo dai miei studenti la dimostrazione che essi effettivamente avevano studiato e si erano preparati. E dicevo loro: «Credo sia importante, per la vostra vita e per la vostra scelta universitaria, che voi conosciate la materia di studio. Dovete essere preparati non per fare un piacere a me, ma perché ciò riguarda voi stessi; non venitemi a chiedere di darvi il 18 politico. Non mi interessa il voto che vi scrivo sul libretto, mi interessa che tu, studente, sappia la pedagogia perché andrai ad insegnare a bambini, ragazzi e giovani, perché lo studio avrà importanza per il tuo futuro, per la tua personalità...». In questa logica, ho sempre dato pochissimi voti di medio valore; per me il voto normale era il 30, che spesso diventava 30 e lode.
Vedo che i tentativi di condizionare lo studio continuano. Le cosiddette autogestioni studentesche ogni tanto ritornano. Vedo che anche i ministri, di fronte a questi fenomeni, sulle prime mostrano i muscoli, poi si adeguano. Mi ricordo ancora le parole dell'ex ministro Berlinguer, che conosco da tempo, e con il quale ho avuto anche degli accesi dibattiti: appena insediato nella carica disse che ci voleva una scuola seria, dove si studiava; poi, quando gli studenti hanno protestato, queste belle intenzioni non sono state seguite dai fatti. Anche Berlinguer si è adeguato alle proteste studentesche, anche perché è più comodo.
Università Cattolica a parte, dove si riusciva ancora a fare lezione, nel clima del '68 non si studiava più. I docenti erano in crisi. Ricordo i miei colleghi, tra i quali il professore di storia antica, Albino Garzetti. Era bravissimo, ma non resistette alla contestazione e diede le dimissioni. E ricordo un sacerdote rosminiano, professore di psicologia, la bontà incarnata: venne contestato violentemente, tanto che abbandonò l'aula e lo ritrovarono in lacrime nel corridoio. Dopo l'episodio, radunai gli studenti e, tra le tante osservazioni, dissi loro: ricordatevi bene, figlioli, che prima di farmi uscire piangente dall'aula, ce ne vorrà... Difatti, non è mai avvenuto.
Il '68 ha segnato la catastrofe, il baratro della cultura, che è stata compromessa per sempre. Nel '68 fu consumato il divorzio con il sapere. Penso solo ad uno dei tanti fatti, avvenuto alla Statale di Milano, dove il docente di letteratura italiana fu contestato perché continuava, o avrebbe voluto continuare, a spiegare Dante... Per non parlare delle improvvisazioni, delle autogestioni, e dei voti politici, per cui si dava anche il 30 a chi non sapeva assolutamente niente. Non ho mai dato né voti politici e né voti gratuiti. E non davo mai meno di 28, n el senso che volevo dai miei studenti la dimostrazione che essi effettivamente avevano studiato e si erano preparati. E dicevo loro: «Credo sia importante, per la vostra vita e per la vostra scelta universitaria, che voi conosciate la materia di studio. Dovete essere preparati non per fare un piacere a me, ma perché ciò riguarda voi stessi; non venitemi a chiedere di darvi il 18 politico. Non mi interessa il voto che vi scrivo sul libretto, mi interessa che tu, studente, sappia la pedagogia perché andrai ad insegnare a bambini, ragazzi e giovani, perché lo studio avrà importanza per il tuo futuro, per la tua personalità...». In questa logica, ho sempre dato pochissimi voti di medio valore; per me il voto normale era il 30, che spesso diventava 30 e lode.
Vedo che i tentativi di condizionare lo studio continuano. Le cosiddette autogestioni studentesche ogni tanto ritornano. Vedo che anche i ministri, di fronte a questi fenomeni, sulle prime mostrano i muscoli, poi si adeguano. Mi ricordo ancora le parole dell'ex ministro Berlinguer, che conosco da tempo, e con il quale ho avuto anche degli accesi dibattiti: appena insediato nella carica disse che ci voleva una scuola seria, dove si studiava; poi, quando gli studenti hanno protestato, queste belle intenzioni non sono state seguite dai fatti. Anche Berlinguer si è adeguato alle proteste studentesche, anche perché è più comodo.
Purtroppo gli obiettivi del Sessantotto hanno centrato il bersaglio. Certe contestazioni sono state ampiamente condivise, nel senso che non vogliamo più gli esami, vogliamo il voto politico - vale a dire, un voto dato senza l'accertamento della propria cultura -, non vogliamo più i concorsi, non vogliamo più la selezione... Ricordo che a quell'epoca ebbi modo di rilevare il rischio in agguato per il nostro Paese, quello relativo a una Italia priva di educazione politica. Ed è poi quello che è successo, in tempi rapidissimi. Le università e le scuole hanno aperto le porte dell'insegnamento a persone laureate e diplomate con il voto politico, assunte senza concorsi, senza preparazione. Abbiamo visto l'ascesa di quelli che già allora venivano definiti «i somari in cattedra». E purtroppo i somarelli da essi formati, emetteranno dei ragli d'asino che non giungeranno in cielo... Sì, la chiamavano la «fantasia al potere», ma la fantasia è la creatività del genio; e dove non c'è il genio non ci può essere la fantasia. Sarebbe come uno spumante evaporato, senza bollicine.
L'«onnipotenza educativa» è uno dei concetti più tragici, oltre che assurdi, cari alla pedagogia marxista, o meglio alla pedagogia stalinista, che ha avuto pure un grande scrittore di questioni educative, Anton Semenovic Makarenko, autore di un corposo poema pedagogico, tradotto in italiano da Editori Riuniti, di cui avevo letto già una edizione francese.
Questo testo pedagogico, a leggerlo, ci appare esteticamente brillante, bello, sembra che descriva il paradiso in terra. Invece è la traduzione del peggiore stalinismo in campo educativo. Si ha una idea di come avevano impostato i sistemi educativi e di come erano stati ridotti scuola e scolari. Dire che erano marionette, è dire niente. Erano come argilla da modellare e forgiare distruggendone la personalità. Uno dei cardini dello stalinismo educativo - se si può adoperare questa parola - è il concetto, spaventoso e terribile, di rieducazione. Coloro che, a giudizio del regime, deviavano dai sistemi e dalle leggi stalinisti, dovevano essere internati nei lager per essere rieducati, ossia venivano annientati nella propria personalità fino ad assumerne un'altra, gradita al regime... Davvero assurdo e tragico questo concetto staliniano dell'«onnipotenza dell'educazione».
Ancora oggi un pedagogista italiano, Roberto Maragliano, riprendendo le tesi di Jean Claude Adrien Helvetius - che ai tempi dell'Illuminismo scrisse un testo sull'«onnipotenza dell'educazione» - sostiene che con l'educazione si può fare, rifare, forgiare, plagiare... Il con cetto dominante di tale teoria è riassunto in una massima scritta nientemeno che da Edmondo De Amicis nella sua ultima opera, rimasta incompiuta, Lotte civili, un testo di divulgazione di idee socialiste diremmo alla Andrea Costa, alla Treves, alla Saragat, insomma idee di una socialdemocrazia di stampo umanitario, improntata alla condivisibile promozione della povera gente, alla questione operaia.
In quell'opera, il De Amicis scrive che gli uomini sono come i liquidi e perdono la forma del recipiente in cui sono versati. La stessa frase l'ho trovata anche in un romanzo, Delitto e castigo di Dostoevskij - un altro dei miei autori preferiti - quando il giudice sottopone a un estenuante interrogatorio il protagonista, Raskol'nikov, il quale resistendo alle pressioni dice appunto che gli uomini sono come i liquidi: prendono la forma dei recipienti in cui sono versati. Ed anche così è lo stalinismo, ossia forgia gli individui distruggendoli come individualità, come personalità. E tutto ciò è l'anti-personalismo.
Nella psicologia dell'infanzia e dell'età evolutiva questo è un punto cruciale. Per millenni il bambino è stato visto - giusto per adoperare un'immagine di cui mi sono tante volte servito - con le lenti di un binocolo rovesciato, che mostra tutto rimpicciolito. Ma il bambino, come hanno detto anche molti psicologi, non è un nano, ossia un adulto visto in dimensioni minori. Ma il bambino è già essere umano, è già persona a tutti gli effetti; pur essendo diverso «in essenza» rispetto all'adulto, egli ha un suo modo di essere, di pensare, di immaginare, di costruirsi l'immagine del mondo.
Sì, il bambino è il piccolo dell'uomo, non un uomo in piccolo. Per dirla con un'altra espressione, il bambino è l'uomo nella sua età infantile. Perché il «piccolo dell'uomo» è completo, ha le proprie forme di pensare, di immaginare, di avere il senso del giusto, dell'ingiusto. Al pari dell'adulto, nel bambino esistono tutte le facoltà, ma esse sono espresse in una maniera sos tanzialmente diversa.
Tutto ciò ha poi una grande importanza in applicazioni educative concrete. Non dimentichiamo che uno dei grandi disastri storici della pedagogia è stato l'adultismo, ossia credere di poter parlare al bambino negli stessi termini con i quali pensa l'adulto. Per non parlare del precocismo, ossia il voler dare delle nozioni per le quali non c'è ancora la maturità. E qui si può cadere in un facile equivoco: ritenere che la ripetizione meccanica di concetti o nozioni, significhi il raggiungimento di una maturità.
L'«onnipotenza educativa» è uno dei concetti più tragici, oltre che assurdi, cari alla pedagogia marxista, o meglio alla pedagogia stalinista, che ha avuto pure un grande scrittore di questioni educative, Anton Semenovic Makarenko, autore di un corposo poema pedagogico, tradotto in italiano da Editori Riuniti, di cui avevo letto già una edizione francese.
Questo testo pedagogico, a leggerlo, ci appare esteticamente brillante, bello, sembra che descriva il paradiso in terra. Invece è la traduzione del peggiore stalinismo in campo educativo. Si ha una idea di come avevano impostato i sistemi educativi e di come erano stati ridotti scuola e scolari. Dire che erano marionette, è dire niente. Erano come argilla da modellare e forgiare distruggendone la personalità. Uno dei cardini dello stalinismo educativo - se si può adoperare questa parola - è il concetto, spaventoso e terribile, di rieducazione. Coloro che, a giudizio del regime, deviavano dai sistemi e dalle leggi stalinisti, dovevano essere internati nei lager per essere rieducati, ossia venivano annientati nella propria personalità fino ad assumerne un'altra, gradita al regime... Davvero assurdo e tragico questo concetto staliniano dell'«onnipotenza dell'educazione».
Ancora oggi un pedagogista italiano, Roberto Maragliano, riprendendo le tesi di Jean Claude Adrien Helvetius - che ai tempi dell'Illuminismo scrisse un testo sull'«onnipotenza dell'educazione» - sostiene che con l'educazione si può fare, rifare, forgiare, plagiare... Il con cetto dominante di tale teoria è riassunto in una massima scritta nientemeno che da Edmondo De Amicis nella sua ultima opera, rimasta incompiuta, Lotte civili, un testo di divulgazione di idee socialiste diremmo alla Andrea Costa, alla Treves, alla Saragat, insomma idee di una socialdemocrazia di stampo umanitario, improntata alla condivisibile promozione della povera gente, alla questione operaia.
In quell'opera, il De Amicis scrive che gli uomini sono come i liquidi e perdono la forma del recipiente in cui sono versati. La stessa frase l'ho trovata anche in un romanzo, Delitto e castigo di Dostoevskij - un altro dei miei autori preferiti - quando il giudice sottopone a un estenuante interrogatorio il protagonista, Raskol'nikov, il quale resistendo alle pressioni dice appunto che gli uomini sono come i liquidi: prendono la forma dei recipienti in cui sono versati. Ed anche così è lo stalinismo, ossia forgia gli individui distruggendoli come individualità, come personalità. E tutto ciò è l'anti-personalismo.
Nella psicologia dell'infanzia e dell'età evolutiva questo è un punto cruciale. Per millenni il bambino è stato visto - giusto per adoperare un'immagine di cui mi sono tante volte servito - con le lenti di un binocolo rovesciato, che mostra tutto rimpicciolito. Ma il bambino, come hanno detto anche molti psicologi, non è un nano, ossia un adulto visto in dimensioni minori. Ma il bambino è già essere umano, è già persona a tutti gli effetti; pur essendo diverso «in essenza» rispetto all'adulto, egli ha un suo modo di essere, di pensare, di immaginare, di costruirsi l'immagine del mondo.
Sì, il bambino è il piccolo dell'uomo, non un uomo in piccolo. Per dirla con un'altra espressione, il bambino è l'uomo nella sua età infantile. Perché il «piccolo dell'uomo» è completo, ha le proprie forme di pensare, di immaginare, di avere il senso del giusto, dell'ingiusto. Al pari dell'adulto, nel bambino esistono tutte le facoltà, ma esse sono espresse in una maniera sos tanzialmente diversa.
Tutto ciò ha poi una grande importanza in applicazioni educative concrete. Non dimentichiamo che uno dei grandi disastri storici della pedagogia è stato l'adultismo, ossia credere di poter parlare al bambino negli stessi termini con i quali pensa l'adulto. Per non parlare del precocismo, ossia il voler dare delle nozioni per le quali non c'è ancora la maturità. E qui si può cadere in un facile equivoco: ritenere che la ripetizione meccanica di concetti o nozioni, significhi il raggiungimento di una maturità.
L'anticipazionismo, secondo me, è un crimine per diversi motivi. Innanzitutto si dànno delle nozioni per le quali non c'è ancora la maturazione per la comprensione; si dànno delle nozioni incomprensibili. Il bambino non è privo di memoria, di capacità di ricordare. Può arrivare a ripetere anche le formule più complesse della matematica o delle leggi della fisica. Le ripeterà senza capire. Quindi, l'esigenza della comprensione, atto dell'intelletto, viene trasformata in un esercizio di memoria. E qui entra in gioco una legge primaria della didattica dell'educazione, quella che io ho chiamato la legge dell'esercizio, che fa il paio, con una formulazione del Pfliegler contenuta in un saggio, Il giusto momento, che avevo pubblicato nella collana Meridiani dell'educazione.
Il concetto è questo: l'insegnamento va impartito al momento giusto, non prima; occorre intervenire quando il bambino, il fanciullo o l'adolescente, sono arrivati a tale momento con le proprie forze. Mi ricordo in proposito che - giocando un po' con le parole - dicevo alle educatrici d'infanzia, alle maestre: meglio cent'anni dopo che un minuto prima. Infatti, cent'anni dopo c'è tutto il tempo per capire, ma un minuto prima si corre il rischio di trasformare le capacità dell'intelletto in mnemonismo. E si sa che le leggi della psicologia agiscono tanto se io opero bene come se mi comporto male. Se osservo la legge del giusto momento compio l'esercizio della mente, ma se cado nel mnemonismo non esercito l'intelletto, ma la memoria meccanica. Non dimentichiamoci che c'è anche la memoria consapevole: tanto più si fa dell'adultismo, tanto più si uccide e si impedisce lo sviluppo dell'intelletto. Più si esercita la memoria meccanica, più si farà il... pappagallo a qualunque età.
L'educazione è il motore della perennità e della trasmissione di ciò che le generazioni vanno via via elaborando, con l'apporto del genio e del lavoro, anche collettivo. Ebbene, tutti i risultati raggiunti e prodotti da chi ci ha preceduto nella storia andrebbero perduti se con l'educazione non fossero trasmessi alla generazione successiva, la quale è fatta di intelletti, di teste pensanti, che a loro volta prendono ciò che è già stato fatto, lo accrescono, lo migliorano, lasciandolo in eredità alla generazione successiva. Purtroppo, il rischio presente è quello di interrompere questo processo di trasmissione.
Avevamo una cultura che l'educazione trasmetteva alle nuove generazioni. Ma se si tronca una generazione - ossia, se una generazione perde la sua capacità di trasmettere i risultati da essa prodotti - si tronca la tradizione. Non c'è più il presente e non ci sarà avvenire.
Il concetto è questo: l'insegnamento va impartito al momento giusto, non prima; occorre intervenire quando il bambino, il fanciullo o l'adolescente, sono arrivati a tale momento con le proprie forze. Mi ricordo in proposito che - giocando un po' con le parole - dicevo alle educatrici d'infanzia, alle maestre: meglio cent'anni dopo che un minuto prima. Infatti, cent'anni dopo c'è tutto il tempo per capire, ma un minuto prima si corre il rischio di trasformare le capacità dell'intelletto in mnemonismo. E si sa che le leggi della psicologia agiscono tanto se io opero bene come se mi comporto male. Se osservo la legge del giusto momento compio l'esercizio della mente, ma se cado nel mnemonismo non esercito l'intelletto, ma la memoria meccanica. Non dimentichiamoci che c'è anche la memoria consapevole: tanto più si fa dell'adultismo, tanto più si uccide e si impedisce lo sviluppo dell'intelletto. Più si esercita la memoria meccanica, più si farà il... pappagallo a qualunque età.
L'educazione è il motore della perennità e della trasmissione di ciò che le generazioni vanno via via elaborando, con l'apporto del genio e del lavoro, anche collettivo. Ebbene, tutti i risultati raggiunti e prodotti da chi ci ha preceduto nella storia andrebbero perduti se con l'educazione non fossero trasmessi alla generazione successiva, la quale è fatta di intelletti, di teste pensanti, che a loro volta prendono ciò che è già stato fatto, lo accrescono, lo migliorano, lasciandolo in eredità alla generazione successiva. Purtroppo, il rischio presente è quello di interrompere questo processo di trasmissione.
Avevamo una cultura che l'educazione trasmetteva alle nuove generazioni. Ma se si tronca una generazione - ossia, se una generazione perde la sua capacità di trasmettere i risultati da essa prodotti - si tronca la tradizione. Non c'è più il presente e non ci sarà avvenire.
Non c'è fase storica, non c'è civiltà che, nel proprio progresso, non abbia vissuto contrapposizioni e contrasti; l'educazione è al centro di tutto questo processo, ne è al di sopra, è l'anima stessa delle generazioni, è l'anima stessa del popolo... Il popolo! Ma il popolo non è un dato numerico, il popolo è una comunità storica formata da tante personalità individuali, ciascuna delle quali è se stesso, è un valore irripetibile, non c'è una persona che sia uguale ad un'altra. È in questa diversità che scorre il grande flusso del fiume delle generazioni, con i contrasti, con le sue spinte opposte, si va avanti e qualche volta si indietreggia... Nella storia c'è anche il regresso, non c'è soltanto il progresso. Dobbiamo essere realisti: non sempre la storia ha portato progresso. Abb iamo avuto epoche di assoluto regresso.
«Avvenire» del 6 maggio 2007
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