26 ottobre 2025

Majorana fra bombe e dilemmi etici

di Vincenzo Barone

Non per caso La scomparsa di Majorana, il capolavoro di non-fiction di Leonardo Sciascia, uscì prima a puntate su «La Stampa», poi in volume presso Einaudi, tra il settembre e l’ottobre di cinquant’anni fa.

Erano passate poche settimane dopo il trentesimo anniversario della tragedia di Hiroshima e Nagasaki. Sciascia si era interessato già tre anni prima, alla fine del 1972, al caso del brillante scienziato catanese, allievo di Fermi, scomparso misteriosamente nel marzo del 1938, ma, dopo aver acquisito, tramite il fisico Erasmo Recami, le lettere di Ettore alla famiglia, e aver incontrato la sorella Maria, al momento di mettersi a scrivere aveva cambiato improvvisamente soggetto, componendo un altro romanzo, Todo modo.

Fu la ricorrenza del 1975 a riportare la sua attenzione su Majorana: in occasione di un programma televisivo incontrò Emilio Segrè – che aveva partecipato, assieme a Fermi, al progetto Manhattan per la costruzione della bomba atomica – e rimase colpito dalla sua serenità nel rievocare quell’impresa. Se, fino ad allora, Majorana gli era apparso come un giovane schiacciato dal peso del proprio genio e di un’esistenza tormentata, da quel momento il fisico siciliano divenne il simbolo dello scienziato che si rifiuta di perseguire una prospettiva mortale per l’umanità.

Majorana – è la tesi della Scomparsa – aveva presagito la bomba atomica (o comunque la catastrofe cui avrebbe portato la fisica nucleare) e ne era rimasto sconvolto, decidendo di sparire per non prendere parte a quella «turpe cospirazione contro la vita». I suoi colleghi romani, invece, non avevano avuto, secondo Sciascia, gli stessi scrupoli, e alcuni di loro, anzi, si erano trovati in prima fila nella realizzazione della bomba. Una barriera morale separava, agli occhi dello scrittore di Racalmuto, Majorana da tutti gli altri; al suo fianco Sciascia poneva idealmente solo quel Werner Heisenberg che, messo a capo del progetto nucleare nazista, lo avrebbe di nascosto boicottato (secondo la versione diffusa da un celebre libro di Robert Jungk, Gli apprendisti stregoni, rivelatasi poi infondata).

A contestare tutta questa ricostruzione fu uno dei «ragazzi di via Panisperna», Edoardo Amaldi, il più autorevole fisico italiano dell’epoca, amico personale e biografo di Majorana. Amaldi non solo non aveva fatto la bomba, ma negli anni del conflitto aveva reindirizzato le ricerche del gruppo romano dai nuclei ai raggi cosmici, un ambito lontano da ogni possibilità di applicazione bellica, e nel dopoguerra era rimasto in Italia – rinunciando ad allettanti offerte d’oltreoceano – per contribuire alla ricostruzione scientifica del nostro paese.

Il libro di Sciascia gli appariva come un tentativo di riscrivere, distorcendolo, un importante capitolo della nostra storia culturale, e prese subito carta e penna per confutarne il contenuto. Il dibattito che ne seguì toccò varie questioni – dall’ipotetica premonizione della bomba all’atteggiamento dei fisici (alleati e tedeschi) durante la guerra – e, anche se non smosse i due contendenti dalle loro posizioni di partenza, suscitò una serie di interessanti riflessioni su temi scarsamente frequentati dal nostro mondo intellettuale.

In uno dei suoi interventi giornalistici, Sciascia disse che La scomparsa era il primo testo letterario in Italia ad affrontare la questione della responsabilità degli scienziati e del loro rapporto con il potere. Aveva ragione a rivendicare quel primato, ma sbagliava nel ritenere che gli scienziati fossero insensibili al problema. Proprio il suo interlocutore, Amaldi, rappresentava, al riguardo, il più lampante controesempio. Da sempre impegnato nel movimento internazionale per il disarmo, il fisico romano era stato protagonista, appena pochi mesi prima della pubblicazione de La scomparsa, di una dura battaglia per convincere i parlamentari italiani a ratificare il Trattato di non proliferazione nucleare, che alcuni ambienti politico-diplomatici avversavano nell’assurda presunzione che l’Italia potesse rafforzare il proprio prestigio internazionale con un arsenale di bombe atomiche. Se c’era un tema, dunque, su cui tra Sciascia e Amaldi si sarebbe potuto instaurare un dialogo costruttivo, era proprio quello della responsabilità individuale e sociale degli scienziati. Ma, per varie ragioni, il dialogo non ebbe luogo, e fu per tutti un’occasione mancata.

Paradossalmente, l’aspetto meno significativo del libro di Sciascia era quello che attirava di più l’attenzione: la sorte di Majorana. Nell’ultimo capitolo, lo scrittore immaginava che Ettore non si fosse tolto la vita nel tratto di mare tra Palermo e Napoli, ma avesse trovato rifugio in una certosa calabrese, dove si diceva fosse ospitato anche uno dei piloti di Hiroshima. «Rispondenti o no a fatti reali e verificabili – scriveva Sciascia – quei due fantasmi di fatti che convergevano su uno stesso luogo non potevano non avere un significato». Solo su questa ipotesi era disposto ad ammettere l’ombra del dubbio; il resto della sua costruzione, basato su un rigido schema etico, cui i fatti sottostavano a costo di non poche forzature, era per lui semplicemente vero. «La letteratura – dirà in seguito – per me, e ne ho avuto piena coscienza da quando ho finito di scrivere sulla scomparsa di Majorana, è la più assoluta forma che la verità possa assumere».

Uno dei primi e più entusiasti lettori del libro fu Pier Paolo Pasolini. Poche ore prima di essere barbaramente ucciso, a Furio Colombo che era andato a visitarlo disse: «È bello il Majorana di Sciascia… Perché non è un’indagine, ma la contemplazione di una cosa che non si potrà mai capire». La scomparsa di Majorana va letta proprio così: non come la verità storica sulla vicenda raccontata, né come la soluzione di un enigma, ma come la «contemplazione» di un mistero, che non smette di interrogare le nostre menti e le nostre coscienze.

Vincenzo Barone, Anatomia della «Scomparsa». Sciascia, Amaldi, Majorana, Bollati Boringhieri, pagg. 224, € 20

 

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 «Il Sole 24 ore - La Domenica» del 12 ottobre 2025

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