31 ottobre 2025

Francesco, voce che chiama anche nel nostro deserto

di Erri De Luca
Scrive Isaia (40,3): «Voce di chi chiama: nel deserto battete pista di D». Non è strada maestra, non è lastricata, non è lineare la pista in cerca della divinità. Nel deserto s’incammina incolonnato il popolo staccato di netto da secoli di servitù in Egitto.
Staccato da un’ora all’altra, separato, avviato al vagabondaggio della più lunga marcia, spiato da predoni. Non è un pellegrinaggio il cammino a zigzag verso la libertà che non è vacanza ma sistema di leggi fondato su uguaglianze.
Non è metafora il deserto, non ha un doppio fondo di significato. È spazio spalancato senza sapere dove. È labirinto crollato. I Greci ebbero l’edificio architettato da Dedalo, luogo di giravolte, di biforcazioni, disorientamenti a confondere l’uscita.
Gli scippati dall’egitto ebbero i bivacchi dentro il labirinto a cielo aperto, con le razioni di manna e la disciplina incisa su tavole di pietra. S’inoltrarono seguendo la segnaletica celeste. Di notte una colonna di fuoco marciava innanzi a loro. Di giorno una nuvola lunga e stretta a forma di colonna stendeva in terra un’ombra come un tappeto srotolato. Non è mare il deserto, da scrutare le stelle per la rotta. È terra sbriciolata dal vento e dalla siccità, dune da risalire e per approdo un’oasi.
La divinità si manifesta negli isolamenti. La sua voce esplode nell’udito dei destinatari sbigottiti, sillabe solo da loro percepite.
È bene che di mestiere siano pastori, avvezzi a solitudini, orecchie tese ai minimi segnali d’insidia per le greggi.
È andata così con Francesco. Dal tumulto delle armi, delle giostre, delle mischie all’isolamento di prigioniero. Improvvisa la cesura tra il chiasso di prima e il raccoglimento forzato di dopo. Ne esce rigirato come un guanto. Si spoglia, si disereda e inventa la povertà volontaria. Sceglie di essere un principiante di tutto. Si spalanca il deserto che non consente ritorni. Dietro di lui il tempo precedente si è chiuso a serratura come il Mar Rosso dopo il guado asciutto.
Non è rivolta, slancio che presto si esaurisce. È conversione, il più profondo rivolgimento personale. Comporta l’abiura di ogni momento della vita precedente, come per Paolo di Tarso diretto a Damasco. Cade, si acceca, resta in un’anticamera tra chi è stato finora e chi dovrà diventare: da persecutore a protettore, da spada a elemosina.
Enorme il compito di chi s’ispira a Cristo, all’impossibile imitazione.
Eppure: «E sarete santi poiché santo sono io» dice la divinità (Levitico 11,44). Non è un oplà, è il viaggio. Dentro quel futuro «e sarete» c’è la pista da battere di ognuno in un deserto.
Francesco stabilisce la sua regola, una tavola grezza, per abbigliamento un sacco, la dimora scarna. Più della dottrina conta l’esempio. E se intorno ci sono predatori come quelli di Amalek nel Sinai, niente schiere in battaglia ma il dono a loro del pane, per disarmare a mani aperte non a mani armate. Nutrire il lupo che spaventa Gubbio.
La nuova disciplina non si sovrappone al potere delle autorità, né vuole affiancarlo. Se ne vuole privare, rinunciare a qualunque forma di potere. Prima che i filosofi parlassero della volontà di potenza, Francesco praticò la volontà d’impotenza, secessione interiore da qualunque esercizio di autorità.
Perfino la reputazione di santo è una botola pronta sotto il piedistallo. Meglio essere disprezzato in pubblico per disintossicarsi dall’elogio.
Occasione di questo libro e di questa nota è la ricorrenza ultrasecolare dell’anno di morte.
Nel frattempo il corso delle vicende umane non ha intaccato nessuna delle sue parole scritte e delle opere aggiunte. Nel pendolo delle epoche avvengono fasi regressive, favorevoli a spaventapasseri e illusionisti. Dilaga la credulità al posto del credo. A chi soccorre un naufrago è sequestrata la barca.
E se tornasse Francesco? propone il titolo del libro. Ne ho visto tornare uno sul sedile di Pietro. Il suo primo esempio è stato un pellegrinaggio a Lampedusa. In questa tale e quale epoca è più sentita la necessità di chi pratica esempi di fraternità e di rettitudine.
Francesco è la voce di chi esclama: «Nel deserto battete pista di Dio».

Un viaggio reale e spirituale nel cuore del messaggio francescano: in vista dell’ottavo centenario, nel 2026, della morte del Santo di Assisi, Enzo Fortunato, giornalista, saggista e direttore della Comunicazione della Basilica Papale di San Pietro, torna in libreria con E se tornasse Francesco? (San Paolo). Il libro arriva dopo E se tornasse Gesù?, successo da oltre 15 mila copie uscito nel 2021 per lo stesso editore. Frate minore conventuale, padre Fortunato ha diretto la Sala Stampa del sacro Convento di Assisi. Nominato da papa Francesco, presiede il Pontificio Comitato per la Giornata mondiale dei bambini. È direttore editoriale della rivista «Piazza San Pietro».
«Corriere della sera» del 29 ottobre 2025

29 ottobre 2025

Più poveri, (anche) di relazioni

Oltre 9,3 milioni di italiani si sentono soli. Soprattutto gli over 65 non hanno legami: il ritiro sociale per la mancanza di sostegni
di Giulio Sensi
Il welfare di fronte a questa nuova sfida. La rivista Nessi: volontariato scuola di cura
Per alcuni italiani un po’ di solitudine è un desiderio, ma per molti, troppi, è una condanna. Perché amplifica le povertà e le difficoltà. La densità di relazioni sociali è in realtà un’apparenza, perché con la crescita dell’età media aumenta anche la solitudine che avvolge la vita delle persone, soprattutto anziane, di quelle con disabilità e immigrate. Ma nella spirale della solitudine scivolano anche i giovani. I dati statistici e le ricerche sulle persone sole di Eurostat e Istat parlano chiaro: nel nostro Paese in 9,3 milioni si sentono soli e quasi la metà ha più di 65 anni. Evidenze riprese e commentate da Percorsi di secondo welfare che ha dedicato al tema il primo numero della sua nuova rivista divulgativa «Nessi». «Fra le sfide sociali di cui spesso parliamo - spiega Franca Maino, direttrice scientifica di Percorsi di secondo welfare e docente all’università degli Studi di Milano - va aggiunta quella della solitudine, per come cambia la struttura familiare e per come è cambiata la società. Essere soli amplifica i rischi presenti e futuri. Significa essere più poveri: di relazioni, di contatti, avere meno possibilità di interazione con altri e questo tipo di povertà si aggiunge ad altre forme non solo materiali. Ma che toccano varie sfere della vita delle persone, alimentare, lavorativa, sanitaria, e dei legami sociali».
Le situazioni toccano la quotidianità di tanti. Chi si trova in emergenza per un problema sanitario, un lutto o la perdita del lavoro non sa a chi rivolgersi, come affrontarlo, come gestire le ansie generate e superarlo. Non avere relazioni su cui poter contare cronicizza i problemi e spinge a una sorta di ritiro sociale: ci chiudiamo in casa, si esce poco, non ci rivolgiamo a servizi e non condividiamo ciò che viviamo, amplificando la sensazione che quel problema sia insormontabile. «Invece, nel dialogo e nel confronto con gli altri - spiega Maino - non solo si possono trovare soluzioni, ma rendersi conto che altri sperimentano situazioni analoghe. E questo dà sollievo».
Un tempo i «legami forti» familiari e non solo - erano visti con sospetto, perché fautori di forme di nepotismo o familismo amorale, restringendo il desiderio di autonomia. Ma oggi possono produrre senso di appartenenza. «Sono anche quelli da cui ci si aspetta maggiormente solidarietà e sostegno in caso di bisogno. Per questo - sostiene la sociologa Chiara Saraceno, che ne ha scritto per Nessi - giocano un ruolo importante, anche se con diversa intensità, lungo tutto l’arco della vita. Possono essere più o meno numerosi e soprattutto più o meno differenziati per tipo di legame, che siano i familiari più prossimi o gli amici più vicini. La povertà di legami forti, quindi, non riguarda solo la mancanza di relazioni familiari significative, il sentirsi soli, incompresi, non amati in famiglia. Riguarda anche l’assenza di persone su cui si può contare anche fuori e talvolta in alternativa della famiglia».
Le trasformazioni sociali hanno ridotto la cerchia prossima familiare e parentale dei legami sociali, ma sono stati messi in discussione anche quelli di vicinato, amicali e i rapporti nelle comunità in cui viviamo. Tutto questo avrà un impatto anche dal punto di vista della capacità di reagire ai cambiamenti che ognuno ha nella vita: quando va tutto bene i problemi sono relativi ma, in un sistema in cui il welfare è sempre più fragile, non poter contare sul sostegno degli altri è un’ulteriore grande sfida.
Da questo punto di vista il futuro non è roseo: Istat ha stimato che nel 2043 gli anziani soli raggiungeranno 6,2 milioni, il 57,7 per cento dei 10,7 milioni di persone che si prevede vivranno sole. La solitudine e la povertà relazionale possono essere affrontate. «Si vive più a lungo - commenta ancora Maino - ed è una bella cosa, ma emergono nuove fragilità, che possono portare fino alla perdita dell’autonomia. Così si invecchia non necessariamente in buona salute e da soli. Ma la solitudine colpisce anche altre fasce della popolazione. Sempre più i giovani scontano una serie di fragilità, trovandosi senza legami che facilitano la loro capacità di affrontare le vulnerabilità. E questo si amplifica quando si hanno difficoltà economiche o disabilità». Non tutte le risposte possono arrivare dai professionisti della salute. Ma tante esperienze nel Paese dimostrano che per contrastare questa povertà dobbiamo semplicemente costruire più relazioni. Attingere a quella che è definita la «prescrizione sociale» di cui si parla sempre di più, ovvero il collegamento delle persone con attività sociali che generano benessere. E poi rafforzare le comunità, creando spazi di condivisione. Per i giovani è raccomandabile fare volontariato e sperimentare la responsabilità nei confronti degli altri. Questo impegno può consolidare la cultura della cura di cui tutti avremo, prima o poi, bisogno.
«Corriere della sera» del 29 ottobre 2025

26 ottobre 2025

Majorana fra bombe e dilemmi etici

di Vincenzo Barone

Non per caso La scomparsa di Majorana, il capolavoro di non-fiction di Leonardo Sciascia, uscì prima a puntate su «La Stampa», poi in volume presso Einaudi, tra il settembre e l’ottobre di cinquant’anni fa.

Erano passate poche settimane dopo il trentesimo anniversario della tragedia di Hiroshima e Nagasaki. Sciascia si era interessato già tre anni prima, alla fine del 1972, al caso del brillante scienziato catanese, allievo di Fermi, scomparso misteriosamente nel marzo del 1938, ma, dopo aver acquisito, tramite il fisico Erasmo Recami, le lettere di Ettore alla famiglia, e aver incontrato la sorella Maria, al momento di mettersi a scrivere aveva cambiato improvvisamente soggetto, componendo un altro romanzo, Todo modo.

Fu la ricorrenza del 1975 a riportare la sua attenzione su Majorana: in occasione di un programma televisivo incontrò Emilio Segrè – che aveva partecipato, assieme a Fermi, al progetto Manhattan per la costruzione della bomba atomica – e rimase colpito dalla sua serenità nel rievocare quell’impresa. Se, fino ad allora, Majorana gli era apparso come un giovane schiacciato dal peso del proprio genio e di un’esistenza tormentata, da quel momento il fisico siciliano divenne il simbolo dello scienziato che si rifiuta di perseguire una prospettiva mortale per l’umanità.

Majorana – è la tesi della Scomparsa – aveva presagito la bomba atomica (o comunque la catastrofe cui avrebbe portato la fisica nucleare) e ne era rimasto sconvolto, decidendo di sparire per non prendere parte a quella «turpe cospirazione contro la vita». I suoi colleghi romani, invece, non avevano avuto, secondo Sciascia, gli stessi scrupoli, e alcuni di loro, anzi, si erano trovati in prima fila nella realizzazione della bomba. Una barriera morale separava, agli occhi dello scrittore di Racalmuto, Majorana da tutti gli altri; al suo fianco Sciascia poneva idealmente solo quel Werner Heisenberg che, messo a capo del progetto nucleare nazista, lo avrebbe di nascosto boicottato (secondo la versione diffusa da un celebre libro di Robert Jungk, Gli apprendisti stregoni, rivelatasi poi infondata).

A contestare tutta questa ricostruzione fu uno dei «ragazzi di via Panisperna», Edoardo Amaldi, il più autorevole fisico italiano dell’epoca, amico personale e biografo di Majorana. Amaldi non solo non aveva fatto la bomba, ma negli anni del conflitto aveva reindirizzato le ricerche del gruppo romano dai nuclei ai raggi cosmici, un ambito lontano da ogni possibilità di applicazione bellica, e nel dopoguerra era rimasto in Italia – rinunciando ad allettanti offerte d’oltreoceano – per contribuire alla ricostruzione scientifica del nostro paese.

Il libro di Sciascia gli appariva come un tentativo di riscrivere, distorcendolo, un importante capitolo della nostra storia culturale, e prese subito carta e penna per confutarne il contenuto. Il dibattito che ne seguì toccò varie questioni – dall’ipotetica premonizione della bomba all’atteggiamento dei fisici (alleati e tedeschi) durante la guerra – e, anche se non smosse i due contendenti dalle loro posizioni di partenza, suscitò una serie di interessanti riflessioni su temi scarsamente frequentati dal nostro mondo intellettuale.

In uno dei suoi interventi giornalistici, Sciascia disse che La scomparsa era il primo testo letterario in Italia ad affrontare la questione della responsabilità degli scienziati e del loro rapporto con il potere. Aveva ragione a rivendicare quel primato, ma sbagliava nel ritenere che gli scienziati fossero insensibili al problema. Proprio il suo interlocutore, Amaldi, rappresentava, al riguardo, il più lampante controesempio. Da sempre impegnato nel movimento internazionale per il disarmo, il fisico romano era stato protagonista, appena pochi mesi prima della pubblicazione de La scomparsa, di una dura battaglia per convincere i parlamentari italiani a ratificare il Trattato di non proliferazione nucleare, che alcuni ambienti politico-diplomatici avversavano nell’assurda presunzione che l’Italia potesse rafforzare il proprio prestigio internazionale con un arsenale di bombe atomiche. Se c’era un tema, dunque, su cui tra Sciascia e Amaldi si sarebbe potuto instaurare un dialogo costruttivo, era proprio quello della responsabilità individuale e sociale degli scienziati. Ma, per varie ragioni, il dialogo non ebbe luogo, e fu per tutti un’occasione mancata.

Paradossalmente, l’aspetto meno significativo del libro di Sciascia era quello che attirava di più l’attenzione: la sorte di Majorana. Nell’ultimo capitolo, lo scrittore immaginava che Ettore non si fosse tolto la vita nel tratto di mare tra Palermo e Napoli, ma avesse trovato rifugio in una certosa calabrese, dove si diceva fosse ospitato anche uno dei piloti di Hiroshima. «Rispondenti o no a fatti reali e verificabili – scriveva Sciascia – quei due fantasmi di fatti che convergevano su uno stesso luogo non potevano non avere un significato». Solo su questa ipotesi era disposto ad ammettere l’ombra del dubbio; il resto della sua costruzione, basato su un rigido schema etico, cui i fatti sottostavano a costo di non poche forzature, era per lui semplicemente vero. «La letteratura – dirà in seguito – per me, e ne ho avuto piena coscienza da quando ho finito di scrivere sulla scomparsa di Majorana, è la più assoluta forma che la verità possa assumere».

Uno dei primi e più entusiasti lettori del libro fu Pier Paolo Pasolini. Poche ore prima di essere barbaramente ucciso, a Furio Colombo che era andato a visitarlo disse: «È bello il Majorana di Sciascia… Perché non è un’indagine, ma la contemplazione di una cosa che non si potrà mai capire». La scomparsa di Majorana va letta proprio così: non come la verità storica sulla vicenda raccontata, né come la soluzione di un enigma, ma come la «contemplazione» di un mistero, che non smette di interrogare le nostre menti e le nostre coscienze.

Vincenzo Barone, Anatomia della «Scomparsa». Sciascia, Amaldi, Majorana, Bollati Boringhieri, pagg. 224, € 20

 

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 «Il Sole 24 ore - La Domenica» del 12 ottobre 2025

24 ottobre 2025

Democrazia: gli errori della sinistra

Realtà e ideologia
di Ernesto Galli della Loggia
Dopo l’accostamento fatto da Elly Schlein tra l’attentato a Sigfrido Ranucci e l’«estrema destra» al governo, con conseguente proclamazione della «democrazia a rischio», è forse giunto il momento che la sinistra italiana, i suoi politici e i suoi elettori, i suoi intellettuali e i suoi giornalisti, decidano una buona volta in che Paese pensano di abitare. Se nell’italia reale — e cioè in un Paese mediamente democratico, mediamente amante della pace; mediamente maschilista (ma pure femminista); mediamente interessato all’eguaglianza ma attaccato alle diseguaglianze che ci fanno comodo; in un Paese con un diffuso tasso di evasione fiscale e d’inosservanza delle regole (peraltro distribuito in egual misura tra i cittadini di destra e di sinistra) — oppure in un altro Paese, in un’altra Italia. Cioè nell’italia dei loro discorsi di oppositori duri e puri: un’infelice contrada dove per l’appunto la democrazia è a rischio, dove ai più, dunque, non importerebbe nulla della libertà, di pensare, dire, scrivere, leggere o vedere quello che gli pare, non interesserebbe molto continuare a votare per il partito che vogliono, o se invece preferiscono essere spiati e intercettati dal potere, essere governati da un governo di potenziali oppressori o di politici mediamente democratici.
È importante per la sinistra decidere in quale Paese vive, decidere che cosa è l’italia di oggi.
Infatti dalla risposta dipende una questione cruciale: la sua identità politica stessa, e di conseguenza anche la sua offerta elettorale. Dipende cioè se la sinistra si considera essenzialmente come la sola speranza rimasta della democrazia italiana, come il fulcro del nuovo necessario Cln all’insegna di una «nuova Resistenza», o se invece, più modestamente (realisticamente?) essa pensa di doversi dotare di un programma elettorale, diciamo così normale. Un programma, per capirci, tipo quale politica estera adottare e con quali alleanze, chi tassare e quanto, quali investimenti pubblici promuovere, cosa fare riguardo all’immigrazione o alla sicurezza e altre questioncelle del genere. E con tale programma invece di rischiare di andare a via Tasso andare alle urne.
È opportuno farsene una ragione: la democrazia obbliga tutti a una cosa sgradevolissima. Ad accettare l’idea che esistono gli «altri», i quali hanno quasi sempre il vizio di non pensarla come noi senza che ci sia verso di fargli cambiare idea. E per giunta non la pensano come noi anche se nessuno li obbliga, e magari non ci guadagnano niente. Eppure è così. Ma non è frutto della reazione alle porte: è il carattere misteriosamente multiforme dell’umanità. Sicché se si vuole arrivare a prendere tutti insieme una decisione non c’è che un’alternativa: o la guerra civile o contarsi. Cioè la democrazia: accettare l’esistenza degli altri e delle loro idee sperando, se si perde, nel prossimo giro e cercando di esserci con idee e proposte più convincenti di quelle dell’avversario.
È precisamente quest’idea competitiva della democrazia, di una gara dove i valori e i programmi più diversi sono tutti eguali ai nastri di partenza — nel senso che ciascuno ovviamente pensa che i propri siano i migliori ma in realtà non esiste alcuna misurazione oggettiva che possa comprovarlo —, è questa idea che la sinistra ha difficoltà ad accettare. Perché essa è convinta che, a differenza di quelli dei suoi concorrenti, i propri valori, le proprie proposte, solo essi sono dalla parte del giusto. Per una ragione che spazza via ogni dubbio: perché sono eticamente superiori, aspirano al bene, sono espressione del bene contro il male, come del resto essa stessa ama pensare di essere. Mentre agli avversari, si capisce, è riservata in ogni caso la sgradevole parte di rappresentanti del male.
L’eticizzazione della politica, la tendenza della sinistra a concepire la politica come lotta tra il bene e il male, è un’eredità della sua convinzione — mille volte smentita dai fatti ma che importa? — di essere dalla parte della storia, di marciare all’unisono coi tempi, di essere la rappresentante per antonomasia del progresso (ciò che ha anche il vantaggio di lasciare agli avversari lo scomodo ruolo di rappresentare, altrettanto per antonomasia, il regresso, la reazione, il buio delle tenebre contro il sol dell’avvenire).
Ma l’eticizzazione della politica se può servire benissimo quando si arriva agli estremi, quando il male c’è veramente e perciò serve commuovere le folle per portarle sulle barricate, quando invece si vivacchia nel tran tran democratico, come noi più o meno vivacchiamo, allora sortisce un solo effetto: di ridurre la politica a declamazione. Cioè di mettere il dire al posto del fare, la retorica al posto del ragionamento, le parole vuote al posto delle proposte concrete. Ma la retorica e il grido non hanno mai aperto la via del successo a nessuno. Sono una droga che molto spesso uccide.
«Corriere della Sera» del 14 ottobre 2025

05 ottobre 2025

Manzoni ha un animo rivoluzionario

L’inquietudine fu il motore della sua scrittura. Non grigio e severo, ma controcorrente Due volumi usciti da Carocci e dal Centro studi dell’autore entrano nel suo laboratorio
di Paolo Di Stefano
«Manzoni nacque rivoluzionario. Andò sempre all’opposto della corrente di moda». Così scrisse lo scrittore scapigliato Carlo Dossi nelle sue Note azzurre. Suonerà strano a chi si porta dietro l’untuosa visione scolastica dell’autore dei Promessi sposi, ma è così. Dietro quell’aspetto grigio e severo, Manzoni è un rivoluzionario, e già lo stesso Dossi lamentava il paradosso che don Lisander passasse per il contrario: un reazionario. Introducendo Grammatica del buio (appena pubblicato dal Centro Nazionale Studi Manzoniani), la storica della lingua Mariarosa Bricchi lo spiega bene: Manzoni fu talmente inquieto e sperimentale da non accontentarsi mai di nulla, «sconfessando la legittimità dei suoi stessi scritti, indifferente al seguito che avevano generato, ma tormentato dalla loro inadeguatezza». Non fece altro che dissociarsi dalle sue proprie parole: «Chiosava, ritrattava, argomentava. Aggiungeva e correggeva. La sua intera opera è, anche, una negazione: percorsa dall’incompiutezza; dal silenzio; dal demone dell’autogiudizio». L’aspetto ancora più sorprendente è che questa scontentezza sia diventata il motore della sua scrittura, una scrittura che Bricchi definisce «di una specie ostile a se stessa». Guardata nelle specifiche e minime «strategie testuali», la sua prosa saggistica appare una lotta contro il buio — della storia, della morale, dell’ingiustizia, del disordine —, una battaglia combattuta con le armi logico-argomentative e dunque linguistiche, anzi più precisamente con le armi della grammatica, della sintassi e soprattutto della tessitura testuale. Bricchi infatti si concentra sugli snodi, sui giunti, sui passaggi (congiunzioni, pronomi, punteggiatura, ripetizioni, anafore, antitesi) posti in opera da uno scrittore che mira all’inclusione, all’assimilazione, alla connessione. A illustrare questa prospettiva, gli esempi sono numerosi: dal doppio gioco di separazione e di legame svolto in alcuni casi dal segno dei due punti agli effetti di pluridiscorsività presenti in saggi dimostrativi in cui Manzoni riesce a far convivere, dentro lo stesso noi polemico, posizioni ideologiche diverse. Il tutto allo scopo di aumentare al massimo grado l’efficacia della propria argomentazione.
Tra dialogo e assoluto riserbo oscilla il modo di procedere di Manzoni. È quanto si desume dal recente libro di Giulia Raboni (Come lavorava Manzoni, Carocci), prima proposta (con il volume di Paola Italia su Gadda) di una collana che intende entrare dentro i laboratori dei grandi scrittori con gli strumenti della filologia d’autore che studia il percorso delle varianti da redazione a redazione. Non solo il romanzo è già molto studiato da questo punto di vista, ma anche le altre opere manzoniane, poesie e tragedie comprese. Eppure parecchio rimane da fare, a cominciare dalla catalogazione (digitale?) delle carte il cui nucleo centrale giace alla Braidense, consegnato dagli eredi, ma che in parte si trovano disperse. Manzoni lavora in tensione tra l’obiettivo etico (orientato in senso evangelico dopo la conversione) e la ricerca sperimentale degli strumenti di stile e di forma con cui conseguire quell’obiettivo. Anche Giulia Raboni sottolinea come il tratto comune delle opere di Manzoni sia quella «retorica intimamente dialogica nella quale si può dire si placano e consumano nella conquista di una apparente semplicità le antitesi più profonde della sua psicologia e della sua formazione culturale». Niente più dell’ossessione del confronto, con se stesso e con gli altri (amici e autori vicini e lontani), produce insoddisfazione, correzioni, rifacimenti, scartafacci e varianti.
L’aspetto più affascinante (anche per il filologo), nel modo di lavorare di Manzoni, è il suo farsi nel momento stesso in cui la scrittura si compone: non esistono scalette, schemi, tracce di dialoghi o di spunti; esistono invece, oltre alle riflessioni teoriche preliminari o contemporanee consegnate anche alle lettere agli amici, le trascrizioni di documenti, dati, fonti. Un modo opposto rispetto a quello condotto da Leopardi, il quale, fa notare Raboni, si muove dalla sensazione all’astrazione «azzerando il più possibile il processo meditativo e razionale». Ne deriva, in Manzoni, un andamento a singhiozzo delle stesure, in cui gli approfondimenti e i ripensamenti, ricostruibili per lo più grazie agli epistolari, si intrecciano con la scrittura e ne determinano le svolte, i cambiamenti, gli abbandoni provvisori, le revisioni, le contraddizioni, i «punti di crisi», dando luogo a carte che sovrappongono magmaticamente momenti diversi di rielaborazione: percorsi accidentati che mettono a dura prova l’intelligenza dello studioso. Ciò vale non solo per le diverse fasi del romanzo, dal Fermo e Lucia agli Sposi promessi alla prima edizione (1827) e infine alla cosiddetta Quarantana seguita al famoso risciacquo in Arno: con ulteriori complicazioni dovute agli obblighi della censura, alla circolazione di manoscritti non sempre autorizzata, al lavoro imperfetto degli amanuensi, alle ostinate riletture d’autore sulle bozze, alla diffusione di stampe pirata. Senza dimenticare che il passaggio dall’una all’altra fase di elaborazione comporta un nuovo movimento del pensiero, dello stile, della lingua, come accade, per esempio, nei vari passaggi del Conte di Carmagnola, concepito in prospettiva «familiar-popolare» e riscritto in chiave militare.
I capitoli centrali del libro di Giulia Raboni affrontano gli aspetti materiali del lavoro. Se nel momento della progettazione lo scrittore si mostra disponibile alla discussione e allo scambio di vedute, i particolari sulla genesi delle opere rimangono materia di rimuginio intimo di cui poco si saprebbe se non si studiassero le carte. Qualcosa in più sappiamo dell’organizzazione quotidiana in via Morone, dove Alessandro si trasferì nel 1813: lavorava nello studio a pianterreno, di fronte al quale si trovavano le stanze in cui fino al 1837 alloggiò l’amico e sodale Tommaso Grossi. Lo studio guardava sul giardino interno; nei cassetti della scrivania Manzoni conservava i manoscritti delle opere in lavorazione; la scrivania era circondata da librerie e protetta da una nicchia nel muro; il camino, sempre acceso a fuoco alto, era il suo vanto. A Brusuglio, nella villa di campagna, Manzoni lavorava d’estate in un ambiente che riproduceva il più possibile quello cittadino. Difficilmente si recava di persona in biblioteca per le sue ricerche: i libri e i documenti rari che chiedeva in prestito gli venivano per lo più consegnati a casa. Negli ultimi anni di vita, svegliandosi tra le cinque e le sei e provvedendo personalmente a prepararsi la cioccolata per colazione, don Lisander riceveva generosamente (fin troppo?) gli ospiti in salotto anche a costo di rinunciare alla concentrazione del lavoro: che per lo più veniva dislocato nelle ore mattutine prima della passeggiata, cui si dedicava dalle due alle quattro del pomeriggio. La serata, dalle otto alle undici, veniva consacrata agli amici più intimi. Il tema degli eccessivi indugi e della lentezza del procedere è presente nell’epistolario manzoniano e in quello dei familiari: ma va precisato che la possibile pigrizia giovanile diventa con gli anni inattività dovuta a malesseri nervosi che impediscono allo scrittore di portare a termine i lavori intrapresi. All’amico francese Fauriel, Manzoni confessa che dopo quattro o cinque ore di lavoro mattutino passa «il resto della giornata in uno stato di spossatezza tale da impedirgli di pensare». Un’«inerzia totale» che probabilmente coincide con la progettazione e la gestazione silenziosa: nessun blocco della scrittura, che scorreva invece fluida, rapida e naturale, come mostrano gli autografi, forse favorita dalla presa di tabacco cui si allude nel Fermo e Lucia: «a quel modo che uno scrittore, nelle stesse angustie, ricorre alla scatola, piglia una presa in furia, la porta al naso, chiude la scatola, la riapre, e ricomincia lo stesso giuoco».
«Corriere della sera» del 1° ottobre 2017

03 ottobre 2025

Classici da tramandare in un’epoca complicata che ormai cancella

Un saggio di Braccini racconta come testi dell’antichità siano sopravvissuti a traversie di ogni tipo. Per arrivare a un oggi che ne mette in discussione l’attualità
di Roberto Righetto
Uno dei volti più preoccupanti della cosiddetta cultura della cancellazione riguarda i classici e si è manifestato soprattutto nelle università americane, con episodi sgradevoli che hanno riguardato i grandi autori dell’Antichità, da Omero a Ovidio, che molti docenti e studenti hanno chiesto di non insegnare e studiare più, o quantomeno di censurare in quei passi ritenuti offensivi per la sensibilità odierna. Chi scrive preferisce ricordare quanto scriveva il grande poeta francese Charles Péguy: «Omero è nuovo stamattina, e niente è forse tanto vecchio quanto il giornale di oggi». In altra occasione annotava: «I Greci non hanno avuto gli dèi che si meritavano». Basta prendersi in mano l’opera di Simone Weil I greci e le intuizioni precristiane per rendersi conto del valore straordinario dell’Iliade, che per la filosofa francese rappresenta il poema della forza e della sventura. I personaggi di Omero, sia vincitori che vinti, sono tutti vittime della violenza della sorte: «Il poeta dell’Iliade ha sufficientemente amato Dio per avere questa capacità. È questo il significato implicito del poema e l’unica fonte della sua bellezza. Ma non lo si è affatto capito». Il cantore cieco ci ha tramandato un’opera attualissima, quasi un commento alle nostre vicende anche secondo Sylvain Tesson, basti pensare al mondo di oggi dilaniato dai conflitti o alle catastrofi naturali che ci spaventano: «Ogni evento contemporaneo trova eco nei suoi versi». Ed è un peccato che lo studio del mondo greco e latino abbia subito una pesante battuta d’arresto negli ultimi decenni: «Un manipolo di ideologi – commenta il giornalista e scrittore – incaricato di riformare la scuola, è riuscito a dissanguare gli studi classici. Per loro le “lingue morte” sono un prodotto di nicchia». Dimenticando che dal mare nostrum è sgorgata una delle sorgenti della nostra Europa, figlia tanto di Atene quanto di Gerusalemme. Ma Omero è ancor più attuale perché ci parla dell’uomo, delle sue bramosie e lotte per il potere, così come della pietà e dell’ospitalità: si pensi all’incontro tra Achille e Priamo o allo sbarco di Ulisse tra i Feaci. Come dice Hannah Arendt, ciascuno degli eroi di Omero assurge a simbolo di una virtù particolare. Sarà poi il cristianesimo ad offrire una chance di consolazione dinanzi all’angoscia della morte, una speranza aperta anche ai deboli, alle vittime, ai non eroi.
Anche Tommaso Braccini nel suo recente volume Avventure e disavventure dei classici (Carocci, pagine 176, euro 17,00), se la prende nelle prime pagine contro la tendenza da parte di «censure e ideologie aberranti» di «imbavagliare alcuni autori». E aggiunge: «Proprio le vicende travagliate dei classici ci devono far riflettere sulla necessità di salvaguardarli, proteggerli e assicurarsi che anche chi verrà dopo di noi possa godere della straordinaria opportunità di confrontarsi con gli “antiqui huomini” (per dirla con Machiavelli) che hanno ancora tanto da dire. Non ci si deve nemmeno adagiare nella falsa sicurezza data dal digitale, dalle risorse della rete e dalla possibilità di stoccare su eteree nuvole milioni e milioni di byte: basta un blackout e tutte queste opere rischiano di diventare mute e inaccessibili. E lo saranno comunque, se nessuno le studia. L’unico modo per proteggere i classici è amarli, farli conoscere, farli circolare, far capire quanto sono belli e quanto hanno da dirci e da ispirarci, dando loro la parola e rendendoli sempre più accessibili».
Se è vero che habent sua fata libelli, e che moltissimi testi degli autori antichi sono andati perduti definitivamente, fortunatamente molti si sono salvati, spesso in modo rocambolesco, in tanti casi grazie all’opera dei monaci amanuensi del Medioevo. Uno dei casi più emblematici è la cosiddetta Ilias picta, una sorta di album di figurine realizzato nel XII secolo da un manipolo di bizantini nella Calabria normanna, stravolgendo ma preservando in qualche modo un codice alessandrino del 500 che conteneva tutto il poema di Omero ed era costellato da bellissime miniature. Il manoscritto giunse dall’Egitto prima in Sicilia e poi a Reggio: era in greco tutto maiuscolo, com’era usanza nel mondo antico, senza segni d’interpunzione, accenti o spiriti. Solo nel Medioevo questi testi venivano trascritti in minuscolo. Qualcuno pensò bene di ritagliare le miniature e di incollarle su un quaderno di carta aggiungendovi a fianco i riassunti dei canti omerici e delle storie mitologiche pertinenti. Un’operazione di collage che suscita un po’ di indignazione ma il cui scopo era evidentemente di salvare il salvabile della cultura greca. «Quello che ne venne fuori – spiega Braccini – fu una sorta di libretto molto simile ai coloratissimi volumi dedicati alla mitologia classica che ai nostri giorni si trovano tra gli scaffali delle librerie per ragazzi». L’Iliade dipinta subì ancora varie peripezie, fra cui un naufragio vicino ad Ancona, per finire miracolosamente a Napoli, nella biblioteca di Cosmo Pinelli, venendo alfine acquistata per oltre 3.000 scudi d’oro dal cardinale Federigo Borromeo nel ‘600. Tant’è vero che oggi è conservata alla Biblioteca Ambrosiana.
Il volume ripercorre poi le vicende di altri personaggi sensazionali come l’umanista Pletone o il metropolita Michele Coniata, raccontando come numerosi manoscritti del mondo greco-romano siano giunti fino a noi in maniera insperata: come l’Inno a Demetra, il cui manoscritto fu copiato agli inizi del ‘400 dall’ecclesiastico bizantino Giovanni Eugenico, arrivando a Mosca e oggi a Leida, in Olanda. O il frammento dei primi versi della prima Pitica di Pindaro, che Athanasius Kircher nel Seicento dichiarò di aver rinvenuto nella biblioteca del monastero di San Salvatore presso Messina e che trascrisse; fu definito «il più grande elogio della musica mai scritto», ma per molti studiosi non è autentico, anzi sarebbe opera proprio del gesuita tedesco. Poi si arriva attraverso Platone e Aristotele fino ad Archimede e ai suoi trattati di matematica, alcuni dei quali pervenuti al monastero di San Saba nel deserto di Giudea. Braccini si diverte nel ricostruire il percorso accidentato di opere come le commedie di Plauto, giunte alla famosa raccolta del monastero di San Colombano a Bobbio, nel Piacentino, o di Apuleio, il cui Asino d’oro – unico caso di conversione nel mondo antico secondo il patrologo Gustave Bardy - finì chissà come all’abbazia di Montecassino, annotando poi come i monaci medievali o gli umanisti non si siano fatti scrupolo di ricopiare testi il cui contenuto poteva essere ritenuto riprovevole dal punto di vista morale. Persino l’ultima opera presa in esame, il poema De reditu di Rutilio Namaziano, scritto dopo il sacco di Roma da parte di Alarico del 410 e non certamente favorevole alla nuova religione che si stava imponendo nell’impero romano, è stato messo in salvo a Bobbio!
«Avvenire» del 27 settembre 2025

02 ottobre 2025

Il 43% degli italiani non versa un euro di Irpef

Brambilla: è credibile che quasi la metà dei cittadini viva con 10 mila euro?
di Valentina Iorio
In Italia i cittadini che versano almeno un euro di Irpef sono 33,5 milioni, vale a dire circa il 57% della popolazione complessiva (58,9 milioni). Il restante 43% degli italiani non ha redditi o non li dichiara e di conseguenza vive a carico di qualcun altro. Per quel che riguarda la ripartizione del carico fiscale, su 42,6 milioni di cittadini che presentano la dichiarazione dei redditi, il 76,87% dell’intera Irpef è pagato da circa 11,6 milioni di contribuenti, mentre i restanti 31 milioni ne pagano solo il 23,13%. È quanto emerge dalla dodicesima edizione dell’osservatorio sulle entrate fiscali, a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, presentata ieri pomeriggio alla Camera dei Deputati insieme a Cida – Confederazione italiana dirigenti e alte professionalità.
Nel dettaglio, chi ha un reddito tra 0 e 7.500 euro lordi, vale a dire 7,2 milioni di italiani (il 12% della popolazione), paga in media 26 euro di Irpef l’anno ed è « a carico dell’intera collettività», evidenzia il rapporto. Nella fascia subito superiore, quella tra i 7.500 e i 15 mila euro lordi l’anno, in cui rientrano 7,6 milioni di persone, l’irpef media annua pagata per contribuente è di 296 euro. L’insieme di queste fasce versa solo 1,19% del totale Irpef. Sommando tutte le fasce di reddito fino a 29 mila euro, risulta che il 72,59% dei contribuenti italiani versa soltanto il 23,13% di tutta l’irpef.
A pagare gran parte dell’irpef complessiva sono quei poco più di 7 milioni di contribuenti con redditi superiori ai 35 mila euro. Le imposte pagate da un lavoratore dipendente con un reddito tra 35 e 55 mila euro, in media oltre 10 mila euro l’anno, sono 34 volte quelle di un reddito tra 7.500 e 15 mila euro. «È davvero credibile che quasi la metà degli italiani viva con circa di 10 mila euro lordi l’anno?», chiede il professor Alberto Brambilla, presidente di Itinerari previdenziali. «Giusto aiutare chi ha bisogno, così come garantire a tutti diritti primari ma, al tempo stesso, non si può trascurare quanto queste cifre siano verosimilmente gonfiate da economia sommersa ed evasione fiscale», sottolinea. «Quasi un cittadino su due non versa nemmeno un euro di Irpef, e così poco più di un quarto dei contribuenti si fa carico da solo di quasi l’80% dell’imposta. È come in una squadra di calcio: se solo tre giocatori corrono e gli altri otto guardano, non si vince nessuna partita», aggiunge il presidente di Cida Stefano Cuzzilla. Il viceministro dell’economia Maurizio Leo, intervenuto in videocollegamento, ha confermato l’intenzione del governo di ridurre dal 35% al 33% l’aliquota che oggi grava sui redditi compresi tra i 28 mila e i 50 mila euro, precisando subito: «Bisognerà vedere, se le risorse ce lo consentiranno». Non ha fatto invece riferimento alla possibilità di estendere la riduzione ai redditi fino a 60 mila euro. Anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha ammesso che c’è un disequilibrio nella ripartizione del carico fiscale e ha aggiunto: «Vanno detassati gli straordinari, i premi di produzione e penso anche le tredicesime».
«Corriere della Sera» del 1° ottobre 2025

01 ottobre 2025

La guerra ibrida rimossa

Il problema della sicurezza informatica genera per i nostri sistemi di governo un dilemma: come garantirla senza che ciò, nel medio-lungo termine, finisca per limitare, almeno in parte, le libertà personali
di Angelo Panebianco
Guerra ibrida e libertà. La preoccupazione generale per i continui sconfinamenti russi nei cieli dei Paesi Nato ha distolto l’attenzione dell’opinione pubblica da quello che è stato sicuramente un atto di guerra contro l’europa, un atto di guerra che è anche una possibile anticipazione del futuro che ci aspetta: l’attacco informatico che ha gettato nella disorganizzazione e nella paralisi per due giorni gli aeroporti di Berlino, Bruxelles, Londra. Giustamente, abbiamo paura che ci arrivi addosso una guerra condotta con armi convenzionali (sullo sfondo c’è anche lo spettro della guerra nucleare). Ma gli attacchi agli aeroporti, la manifestazione fin qui più spettacolare e più grave della cyber war che viene ormai condotta contro i Paesi europei da anni (con una intensificazione dall’invasione dell’ucraina in poi) dovrebbero avere dimostrato a tutti che le guerre ora non si fanno solo con le armi da fuoco e i soldati sul terreno. Dovrebbero rendere l’opinione pubblica edotta del fatto che l’uno o l’altro Paese in un prossimo futuro potrebbe essere gettato nel caos e anche ridotto alla disperazione e alla fame senza bisogno di missili, droni e carri armati. E che pertanto occorre mettere in atto le contromisure per impedire che ciò un giorno avvenga.
Lo sviluppo tecnologico ha sempre avuto due facce, una luminosa e una oscura. Da un lato, migliora, e ha sempre migliorato, la condizione umana.
Dall’altro, mette a disposizione di chi vuole servirsene mezzi sempre più efficaci per distruggere comunità e per assoggettare le persone. Chi vorrebbe arrestarlo è un folle, non capisce quanti benefici esso generi (non ne vede la faccia luminosa). È però un imprudente chi non si preoccupi degli aspetti negativi (la faccia oscura). Tra gli aspetti negativi c’è quello di avere eroso il confine fra lo stato di guerra e lo stato di pace. È arrivato il tempo di una forma assai sofisticata di guerra ibrida. Le guerre convenzionali,come in Ucraina, continuano ad esserci. Ma adesso i mezzi di guerra che lo sviluppo tecnologico mette a disposizione di chi vuole servirsene consentono di attaccare anche in altri modi. Modi così subdoli che le persone possono credere di vivere in pace mentre invece sono i bersagli di una guerra non dichiarata e che non si manifesta attraverso la violenza fisica.
Le democrazie europee, sia pure con difficoltà e forse con troppe lentezze, stanno reagendo, cercano di approntare le necessarie contromisure. Certi Paesi scandinavi sembrano più avanti di altri. La Gran Bretagna ha adottato da qualche anno una nuova dottrina militare nella quale la sicurezza informatica ha, quanto meno sulla carta, un grande spazio. E anche gli altri Paesi, ivi compreso il nostro, cercano più o meno faticosamente, di attrezzarsi. Però può essere difficile per una democrazia approntare le misure adeguate a garantirsi la sicurezza se l’opinione pubblica non è sufficientemente consapevole della minaccia.
Peraltro, il problema della sicurezza informatica genera per le democrazie un dilemma: come garantirla senza che ciò, nel medio-lungo termine, finisca per contrarre, almeno in parte, le libertà personali?
Le democrazie occidentali, come tutti vedono, sono oggi in affanno. Minacciate dall’esterno e dall’interno. Quelle europee sono minacciate da potenze autoritarie mentre il loro storico protettore, gli Stati Uniti, non sembra più disposto a difenderle. Le democrazie sono inoltre minacciate da movimenti politici ostili alla libertà individuale (si pensi agli strappi costituzionali di Trump o a cosa sia Alternative für Deutschland che oggi, nei sondaggi, è il primo partito in Germania), fautori di una trasformazione in senso illiberale dei nostri regimi politici.
Tra le molte minacce c’è anche l’erosione, per effetto dello sviluppo tecnologico, dei confini fra stato di guerra e stato di pace. Fin quando quel confine era chiaro e netto era possibile mantenere separate sfera civile e sfera militare, l’organizzazione della vita di pace di ogni giorno e gli apparati preposti alla difesa in caso di guerra. Ma nel momento in cui entra in gioco la sicurezza informatica tutto cambia. Se imprese private, enti pubblici, sistema dei trasporti, sistema finanziario, sistema energetico, sistema della comunicazione, diventano potenziali target di attacchi, sorge l’esigenza di una difesa integrata (che è esattamente quanto oggi si tenta di predisporre). Ma una difesa integrata — indispensabile per la sicurezza — implica anche, o potrebbe implicare in futuro, una sorta di militarizzazione strisciante di ampi aspetti della vita civile. Con effetti, tutti ancora da valutare, sulla libertà di azione dei cittadini. Non c’è da fasciarsi la testa prima di essersela rotta. C’è però da riflettere su come le nuove condizioni di «non guerra/non pace» potranno essere conciliate con il mantenimento di regimi fondati sulla valorizzazione delle libertà individuali. Chi le apprezza ha sempre temuto le guerre non solo (come tutti) per le distruzioni e le sofferenze che provocano ma anche per i loro effetti negativi sulla libertà.
Sappiamo cosa comporti, da questo punto di vista, la guerra per una democrazia. La obbliga, per tutto il tempo che la guerra dura, a comprimere le libertà e a subordinare ogni aspetto della vita sociale all’esigenza della difesa. Ma solo finché dura la guerra. Possiamo facilmente prevedere che nello stesso momento in cui le armi finalmente taceranno in Ucraina (non sappiamo quando ma un giorno avverrà), riesploderanno subito in quel Paese i contrasti e i conflitti fra i partiti e le persone esigeranno — come è giusto che sia — una libertà che la guerra ha negato loro.
Ma che dire dell’erosione del confine fra guerra e pace per effetto degli sviluppi tecnologici in corso? Quali conseguenze può avere per le nostre libertà? È un terreno largamente inesplorato. Conviene occuparsene.
«Corriere della Sera» del 1° ottobre 2025