20 settembre 2025

Senza un’emozione non c’è narrativa

Alessandra Sarchi ha chiesto a colleghe e colleghi scrittori che rapporto hanno con l’IA. Molti dubbi, prudenza e una certezza ...
di Alessandra Sarchi
Qualche anno fa mi ero appassionata a una serie televisiva intitolata Westworld. Dove tutto è concesso scritta e diretta da Jonathan Nolan e Lisa Joy a partire dall’omonimo film di Michael Crichton del 1973. Androidi sofisticatissimi e indistinguibili dagli umani interagiscono con questi in un parco a tema dove sesso e violenza regnano proprio perché agli androidi, non vivi né morti ma accesi o spenti, si può fare ciò che si vuole. L’automa lesionato può venire abbandonato o fatto risorgere, a discrezione di chi amministra il parco, salvo poi, come in ogni fantasticheria sugli automi, sviluppare una propria volontà e forse perfino una coscienza, a furia di esprimersi con citazioni da Shakespeare, da Hemingway o dalla Bibbia. Il fascino di questa narrazione estrema risiede nel fatto che ogni macchina, di qualunque tipo essa sia, ci consente di conoscere meglio ciò che siamo, ciò che definiamo come umano e la problematicità di nozioni come coscienza, anima, intelligenza.
Nel suo recente saggio, La pelle. Che cosa significa pensare nell’epoca dell’intelligenza artificiale (il Mulino, 2025) Maurizio Ferraris liquida giustamente la competizione fra IA e intelligenza umana, poiché le macchine con la loro sterminata capacità di accumulo e manipolazione di segni e dati eccederanno presto le nostre limitate risorse, per contro il pensare umano è situato in un corpo perituro, dunque mosso da bisogni, desideri, proiezioni e volontà di cui le macchine sono del tutto prive. Una distinzione di base che diventa cruciale, a mio parere, quando si accosta l’IA alla scrittura creativa, perché questa è intrinsecamente legata all’unicità del corpo di chi la produce, alla sua storia e alla sua singolarità, non meno che alla sua mortalità. Se non incontrassimo la morte in ogni istante della nostra vita, scriveremmo romanzi, poesie, saggi? L’IA, che non muore e non vive, al limite si spegne o si accende, può scrivere a tema, può migliorare una traduzione, può lavorare un testo dal punto di vista redazionale in modo efficace, può sviluppare con altrettanta efficacia un argomento se interrogata dal prompt adeguato, ma è un mezzo che interessa e stimola scrittrici e scrittori? È ciò che ho chiesto a colleghe e colleghi, perché nel frattempo qualche libro scritto con l’ausilio dell’IA è apparso sul mercato editoriale.
Valeria Parrella ed Helena Janeczek hanno dichiarato di non averla mai usata se non per scopo ludico, per trasformare una foto ad esempio, perché anche le immagini si deformano in base a schemi preconcetti acquisiti dall’IA. Anche Nicola Lagioia ne apprezza l’aspetto di gioco intellettuale e ha fatto diversi esperimenti con l’IA: «Non per scrivere ma per interpretare testi letterari — gliene affido altrui e miei e le chiedo di trovare collegamenti e significati nascosti, per vedere cosa viene fuori. A volte emergono cose interessanti, è come avere a disposizione uno sparring partner molto particolare, sarà anche un “pappagallo stocastico”, ma giocare con il linguaggio e i concetti in modo probabilistico può risultare spesso molto stimolante. Oppure (ancora più di frequente) le chiedo di interpretare l’attualità con lenti costruite ad hoc, per esempio: “Mi dai un’interpretazione della situazione politica internazionale come farebbe un pensatore capace di fondere la visione del mondo del Robert Graves de La Dea Bianca, del James Frazer del Ramo d’oro e del René Girard de La violenza e il sacro?”. In certi casi le risposte sono sorprendenti. In altri un po’ deludenti. L’IA ha i suoi pregiudizi e bias, ma non è detto che coincidano con i nostri. Credo che per ottenere risultati migliori dovrei metterci più impegno, ma non ho tutto questo tempo, e dopo una fiammata iniziale (mesi fa, ero sorpreso dall’evoluzione del modello) ho ridimensionato l’uso. In più, mentre in passato usavo ChatGPT, adesso sto cercando di capire quale sia il modello più adatto a questo tipo di esperimenti, e credo di non averlo ancora capito».
Lagioia ribadisce di non aver mai scritto un rigo con l’IA: «Ritengo che non sia ancora capace di scrivere come gli umani, a livello letterario, e forse non lo sarà mai, dunque non mi ci affido neanche per le virgole; ma a livello interpretativo è un bel gioco. Non mi sembrano modelli abbastanza evoluti da ragionare e immaginare come faccio io o come vedo fare agli umani. Sarebbe impossibile, ad esempio, per un’IA immaginare la struttura di Mentre morivo di William Faulkner, dunque è inutile giocare al ribasso».
Teresa Ciabatti evidenzia invece proprio il fattore temporale e la mortalità come scarto incommensurabile e irriproducibile: «Di sicuro l’intelligenza artificiale potrà scrivere romanzi, creare trame, riprodurre lo stile di un certo scrittore, ma quello che non potrà mai fare è restituire la crescita dello scrittore di opera in opera. L’IA replica uno scrittore in un preciso istante. Gli nega cioè sviluppo, evoluzione, deperimento. ChatGPT non permette allo scrittore di invecchiare. Ora: senza lo scorrere del tempo, senza la prospettiva della morte, c’è letteratura? Senza il ricasco dell’esperienza sulla scrittura, senza il materiale umano, quello che Italo Calvino diceva dei libri di Cesare Pavese “portano dentro tutto quello che l’autore ha imparato di nuovo della vita nell’intervallo tra un libro e l’altro”... Ecco, l’IA non registra l’intervallo - e no, non è una mancanza piccola».
Anche Mauro Covacich non la trova un mezzo adeguato: «Io non ho ancora provato l’IA semplicemente perché non fa al caso mio. Non ho nulla contro l’intelligenza artificiale se può risolvere problemi di scrittura a qualcuno, ma io scrivo proprio per il gusto di affrontare quei problemi da solo. Il processo della scrittura mi rivela spesso qualcosa che non sospettavo nemmeno di pensare. In altri termini, scrivo per scoprire qualcosa di me che ancora non so. Non ho altra ragione per scrivere. Ma ci sono anche persone che pensano alla scrittura come a un puro e semplice strumento di comunicazione e non dubito che per loro l’IA possa essere un ottimo aiutante. Tutto dipende dalla ragione per cui scrivi. Un po’ come con i cruciverba: da qualche parte c’è sempre una pagina con le risposte e quindi, volendo, potresti prenderle direttamente da lì e riempire tutte le caselle, ma svanirebbe l’unica ragione per cui fai i cruciverba, che è proprio quella di lambiccarti per trovare, da solo, le risposte esatte a quelle domande».
Per Emanuele Trevi non c’è partita proprio perché l’unica possibile si gioca su qualcosa di non ancora definito una volta per tutte come la coscienza: «Io non ho mai nutrito il benché minimo interesse per l’intelligenza artificiale, uso un po’ quella di Meta che hanno messo su WhatsApp ma le mie ultime domande sono del tipo - l’aloe è veramente efficace con le punture di zanzare? Quanto deve stare in forno un’orata di un paio di chili? Non intendo abbonarmi a versioni più efficaci e complesse, per il semplice motivo che non me ne frega nulla, anche nel caso che in vent’anni arrivi a eliminare del tutto gli scrittori: tanto meglio, ci sono quelli del passato. Non è che non ammiriamo più i mosaici bizantini perché nessuno li fa più. Da un punto di vista più filosofico, posso porre a chi è più esperto una questione forse ingenua: da Aristotele ai neuroscienziati, nessun pensatore al mondo ha definito in maniera soddisfacente la coscienza - ma se non sappiamo cos’è, come possiamo produrne una versione tecnologica? Ecco, il giorno in cui avremo una coscienza artificiale la partita sarà davvero finita».
Caterina Bonvicini, sebbene disposta ad ammettere la possibilità che l’IA possa superarla, ricorda: «Ero in una scuola, un ragazzo ha alzato la mano: per quanto tempo pensa di poter fare ancora questo mestiere? Si riferiva ai social che prosciugano la concentrazione. E soprattutto all’intelligenza artificiale, che può sostituirci. Non era una domanda cattiva, era una domanda difficile. Anch’io non riesco più a leggere come prima, ho detto, me li sogno certi livelli di attenzione. Prendevo tempo. Poi mi sono ricordata che ero lì per parlare del Mediterraneo. Allora ho risposto: forse l’intelligenza artificiale può scrivere un libro più bello del mio, ma non può salvare la gente in mare. E non può sapere cosa si prova».
Vanni Santoni confida invece una certa delusione: «Quando sono comparse le IA generative mi sono divertito a sperimentare con quelle grafiche, tant’è che ho anche realizzato un fumetto che è uscito qui su “la Lettura”; finito l’effetto-novità mi sono venute a noia, anche prima che emergessero le loro criticità - consumo energetico e furto di opere altrui, per dire solo le principali. Per quanto riguarda invece ChatGPT, mi è sembrato da subito che scrivesse assai male, quindi non ha attirato il mio interesse. L’ho tuttavia usata per scrivere - dichiaratamente - una “stanza” del progetto poetico 999 rooms (da cui è stato tratto il libro Other rooms/Altre stanze), perché basandosi sull’intertestualità e sul mash-up di testi altrui, l’uso risultava lì appropriato. Il risultato è stato comunque molto sotto lo standard minimo che richiedo a me stesso. Da allora, mai più usata. Penso anzi che tra poco la bolla scoppierà: a conti fatti le IA non piacciono a nessuno, sono scarse e imprecise e vengono usate solo perché le ficcano ovunque».
Per Marcello Fois il problema è ancora a monte, nella definizione di ciò che chiamiamo intelligenza: «Non credo esista un’intelligenza, cioè una capacità di mettere in relazione informazioni, “naturale”. Quella di cui mi servo è artificiale da sempre, sono vocabolari, glossari, biblioteche, archivi, motori di ricerca. Invito a non confondere mai l’atto di elaborare un patrimonio con la capacità di archiviarlo. Abbiamo pensato diversi dispositivi perché non andassero disperse le sostanze, tecniche, scientifiche, artistiche, filosofiche, matematiche, figurative, che via via andavamo accumulando. La capacità di coordinare fra loro gli elementi di questo capitale farà sempre la differenza».
Un veterano dell’insegnamento della scrittura, nonché scrittore di lungo corso come Giulio Mozzi, dice: «Ho usato ChatGPT, come tutti, come strumento preliminare per ricerche (che ho poi sempre verificato per altre vie). La uso spesso per tradurre da lingue che non conosco: è nel complesso meno affidabile di altri strumenti, ma ha il pregio di spiegarti — su richiesta - perché ha tradotto in quel modo, parola per parola; e questo permette di vedere anche i suoi svarioni. Ho usato un paio di volte ChatGPT per gioco, per produrre due post in Facebook a proposito dell’utilità (il primo) e della pericolosità (il secondo) dell’uso delle LLM (Large Language Model) per la produzione di testi narrativi. La sto usando per analizzare testi: le propongo solo testi che ho già letto, perché il mio scopo per ora è capire le sue possibilità e i suoi limiti. L’analisi retorica è di solito discreta (benché sempre incompleta), quella stilistica insomma; nella ricostruzione di una trama la vedo spesso in difficoltà».
Fra qualche anno sarà interessante rileggere queste posizioni che non sono né apocalittiche né integrate, piuttosto: prudenti. Molto, se non tutto, di ciò che chiamiamo cultura e umanità è frutto del tentativo di dare senso al vivere terreno, sapendo che è limitato ed effimero. Sotto questa luce non ha ragione di esistere nessuna forma di competizione o di paura delle macchine e il giorno in cui potessimo pensarci al di là della morte probabilmente noi umani non avremmo più bisogno della letteratura. Ma anche questa lungi dall’essere una certezza è piuttosto una prudente ipotesi.
«Corriere della Sera» del 7 settembre 2025

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