27 settembre 2025

La fatica non muore mai

Talvolta inutile, in realtà inevitabile: è la vita. Il racconto di Mario Calabresi
di Walter Veltroni
Mario Calabresi ha scelto un tema controverso, difficile da trattare, per il suo nuovo libro Alzarsi all’alba, edito da Mondadori. Attraverso quattordici storie e un’introduzione che ne contiene altre, Calabresi affronta la questione della fatica nel mondo contemporaneo. Tema contraddittorio, perché fin dalla rivolta di Spartaco l’uomo ha cercato, anche attraverso la rabbia sociale, di liberarsi dalle catene della fatica e, nel segno di questa emancipazione, si è definita buona parte del cammino umano.
La fatica è sempre stata dei più poveri, dei segregati, degli ultimi della terra. La fatica di «alzarsi all’alba» per governare i campi o le bestie, la fatica della catena di montaggio e del cottimo, la fatica degli schiavi sulle navi dei loro «padroni», la fatica delle donne nelle risaie. La fatica degli umani ha sempre consentito la creazione della ricchezza, ma non la rimozione della povertà. A quello avrebbe dovuto pensare non la macchina dell’accumulazione, ma la politica con le sue politiche redistributive, che sono mancate. La fatica proletaria è sudore, ore sottratte al sonno e alla famiglia, malattia, perdita del senso della vita.
Perché la fatica è socialmente mal distribuita. I poveri si alzano all’alba, i ricchi non sempre.
Dico non sempre perché la fatica, detto che ha un segno prevalentemente di classe, riguarda in fondo tutti. Gli studenti che si preparano a un esame, il chirurgo che opera per dieci ore consecutive, l’avvocato che studia faldoni per un’udienza importante, il commerciante che si alza all’alba, anche lui, per sollevare la saracinesca e sperare che quel luogo si riempia, perché ne va della sua vita.
Ma oggi il rifiuto diffuso della fatica non avviene tanto sotto il segno dell’emancipazione, sociale e culturale, da essa, quanto sembra appartenere al regno dei disvalori di questo tempo in cui tutto è semplice, veloce e gratuito. Ci siamo liberati da fatiche inutili, come ci ha consentito di fare la rete, portando non noi verso le cose, ma le cose verso di noi.
Tutto comodissimo, tutto rapido, ma il prezzo è stato la crescita della solitudine e un malessere sociale con indici di disagio e di inquietudine mai visti prima.
Il mondo digitale ha poi insegnato che basta poco per arricchirsi, talvolta l’intelligenza e la creatività, talaltra lo sfruttamento del proprio corpo, di quello di altri, o la manipolazione della verità. Si è teorizzato, veleno assoluto, che uno vale uno, che la competenza non serve più a nulla, che il mondo moderno è di chi se lo piglia, basta padroneggiare gli algoritmi.
La comodità, dice Calabresi, «è diventata un valore assoluto». Scrive: «Si è fatta strada l’idea che sia possibile raggiungere risultati, conquistare traguardi, compiere imprese senza fare fatica. Non è mai stato chiaro come fosse possibile, ma l’illusione ha preso piede ed è stata abbondantemente coltivata. Nonostante questa utopia, molta gente che non può permettersi di affrancarsi continua a viverla, la fatica. Ad alzarsi all’alba, a fare lavori ripetitivi e sfinenti, a non avere orari, a prendersi cura di un pezzo di mondo».
Forse, di nuovo, a liberarsi della fatica, stavolta grazie alle tecnologie, è chi può permetterselo. Calabresi racconta storie italiane di fatica, di perdita e di speranza: una ragazza che affronta una malattia invalidante con combattività e finisce col diventare un’atleta, chi lavora nel mercato ortofrutticolo, chi decide di darsi alla maratona per sentirsi più vicino alla figlia che non c’è più, chi ha studiato, venendo da lontano, per salvaguardare, restaurandolo, il patrimonio culturale e tante altre ancora. O chi, come la signora Marisa, 89 anni, si alza all’alba per il suo bar e per preparare torte pasqualine e focacce al formaggio. Una donna saggia che dice all’autore del libro: «I giovani hanno capito com’è la vita, è breve e poi finisce, e allora cercano di godersela un po’ di più. Di distinguere la vita dal lavoro. Io invece non l’ho capito. Io sono contenta quando lavoro. Qualche mese fa ho avuto un’infezione a un piede e sono rimasta bloccata a casa tre giorni, una cosa insopportabile».
Il segno di queste vicende personali è la fatica per il riscatto dal dolore o dalla povertà, è l’elogio del carattere, della determinazione, della consapevolezza che nessuno ti regala nulla e che, al tempo, stesso, nessuno ti ruba tutto per sempre.
Il tempo passato è stato segnato dalla fatica, anche da quelle inutili, dalle quali per fortuna ci siamo liberati. E non era un tempo migliore, come si tende a pensare, indulgendo al rimpianto della vita sfilata troppo rapidamente.
Però speravamo che la più grande rivoluzione della storia umana, quella digitale, ci avrebbe consentito di mettere in armonia la semplificazione con la coscienza della complessità delle cose, la velocità con la profondità, l’immagine e la ragione. Pensavamo, non dobbiamo smettere di farlo, che un uso delle tecnologie consapevole e ispirato da valori avrebbe migliorato la qualità della nostra vita. Per fare questo non basta rimuovere le fatiche inutili, ci vuole molto di più, ci vuole «l’intelligenza complessiva delle cose» cara al cardinale Carlo Maria Martini, che richiede, torniamo lì, sacrificio e pazienza. Altrimenti il rischio è di vivere senza fatiche superflue, ma infelici, con la convinzione che in fondo, a essere superflua, sia la vita.
Calabresi si muove con sapienza nel labirinto del valore della fatica come formazione e senso e, al tempo stesso, come coscienza della necessità di liberarsene per una vita migliore. Dice, come a guidare il percorso di questo viaggio: «Chiudo ogni incontro con i ragazzi con l’augurio di fare fatica, convinto che la fatica sia l’antidoto a un tempo in cui tutto è frammentato, in cui spesso è difficile trovare un senso e una direzione. Allora, sono convinto che la fatica, intesa non come sofferenza, di quella ne abbiamo già troppa, ma come determinazione, passione, costanza, sia un’ancora di salvezza. Ripenso a questo ogni volta che vedo un bambino piccolo incollato a un ipad o a un telefono per ore, durante un viaggio in treno, a tavola o perfino sul passeggino «così sta bravo e non disturba».
La verità è che in questo modo i genitori non devono fare la fatica di stare con lui, parlarci, inventarsi dei giochi, aiutarlo a disegnare, leggergli un libro. E lui non deve fare quella fatica preziosa di scoprire il mondo, guardarsi intorno, immaginare qualcosa per non annoiarsi».
In fondo era stato Leonardo da Vinci, nei suoi Pensieri, a scrivere: «Tu, o Iddio, ci vendi tutti li beni per prezzo di fatica».
«Corriere della Sera» del 13 settembre 2025

20 settembre 2025

Senza un’emozione non c’è narrativa

Alessandra Sarchi ha chiesto a colleghe e colleghi scrittori che rapporto hanno con l’IA. Molti dubbi, prudenza e una certezza ...
di Alessandra Sarchi
Qualche anno fa mi ero appassionata a una serie televisiva intitolata Westworld. Dove tutto è concesso scritta e diretta da Jonathan Nolan e Lisa Joy a partire dall’omonimo film di Michael Crichton del 1973. Androidi sofisticatissimi e indistinguibili dagli umani interagiscono con questi in un parco a tema dove sesso e violenza regnano proprio perché agli androidi, non vivi né morti ma accesi o spenti, si può fare ciò che si vuole. L’automa lesionato può venire abbandonato o fatto risorgere, a discrezione di chi amministra il parco, salvo poi, come in ogni fantasticheria sugli automi, sviluppare una propria volontà e forse perfino una coscienza, a furia di esprimersi con citazioni da Shakespeare, da Hemingway o dalla Bibbia. Il fascino di questa narrazione estrema risiede nel fatto che ogni macchina, di qualunque tipo essa sia, ci consente di conoscere meglio ciò che siamo, ciò che definiamo come umano e la problematicità di nozioni come coscienza, anima, intelligenza.
Nel suo recente saggio, La pelle. Che cosa significa pensare nell’epoca dell’intelligenza artificiale (il Mulino, 2025) Maurizio Ferraris liquida giustamente la competizione fra IA e intelligenza umana, poiché le macchine con la loro sterminata capacità di accumulo e manipolazione di segni e dati eccederanno presto le nostre limitate risorse, per contro il pensare umano è situato in un corpo perituro, dunque mosso da bisogni, desideri, proiezioni e volontà di cui le macchine sono del tutto prive. Una distinzione di base che diventa cruciale, a mio parere, quando si accosta l’IA alla scrittura creativa, perché questa è intrinsecamente legata all’unicità del corpo di chi la produce, alla sua storia e alla sua singolarità, non meno che alla sua mortalità. Se non incontrassimo la morte in ogni istante della nostra vita, scriveremmo romanzi, poesie, saggi? L’IA, che non muore e non vive, al limite si spegne o si accende, può scrivere a tema, può migliorare una traduzione, può lavorare un testo dal punto di vista redazionale in modo efficace, può sviluppare con altrettanta efficacia un argomento se interrogata dal prompt adeguato, ma è un mezzo che interessa e stimola scrittrici e scrittori? È ciò che ho chiesto a colleghe e colleghi, perché nel frattempo qualche libro scritto con l’ausilio dell’IA è apparso sul mercato editoriale.
Valeria Parrella ed Helena Janeczek hanno dichiarato di non averla mai usata se non per scopo ludico, per trasformare una foto ad esempio, perché anche le immagini si deformano in base a schemi preconcetti acquisiti dall’IA. Anche Nicola Lagioia ne apprezza l’aspetto di gioco intellettuale e ha fatto diversi esperimenti con l’IA: «Non per scrivere ma per interpretare testi letterari — gliene affido altrui e miei e le chiedo di trovare collegamenti e significati nascosti, per vedere cosa viene fuori. A volte emergono cose interessanti, è come avere a disposizione uno sparring partner molto particolare, sarà anche un “pappagallo stocastico”, ma giocare con il linguaggio e i concetti in modo probabilistico può risultare spesso molto stimolante. Oppure (ancora più di frequente) le chiedo di interpretare l’attualità con lenti costruite ad hoc, per esempio: “Mi dai un’interpretazione della situazione politica internazionale come farebbe un pensatore capace di fondere la visione del mondo del Robert Graves de La Dea Bianca, del James Frazer del Ramo d’oro e del René Girard de La violenza e il sacro?”. In certi casi le risposte sono sorprendenti. In altri un po’ deludenti. L’IA ha i suoi pregiudizi e bias, ma non è detto che coincidano con i nostri. Credo che per ottenere risultati migliori dovrei metterci più impegno, ma non ho tutto questo tempo, e dopo una fiammata iniziale (mesi fa, ero sorpreso dall’evoluzione del modello) ho ridimensionato l’uso. In più, mentre in passato usavo ChatGPT, adesso sto cercando di capire quale sia il modello più adatto a questo tipo di esperimenti, e credo di non averlo ancora capito».
Lagioia ribadisce di non aver mai scritto un rigo con l’IA: «Ritengo che non sia ancora capace di scrivere come gli umani, a livello letterario, e forse non lo sarà mai, dunque non mi ci affido neanche per le virgole; ma a livello interpretativo è un bel gioco. Non mi sembrano modelli abbastanza evoluti da ragionare e immaginare come faccio io o come vedo fare agli umani. Sarebbe impossibile, ad esempio, per un’IA immaginare la struttura di Mentre morivo di William Faulkner, dunque è inutile giocare al ribasso».
Teresa Ciabatti evidenzia invece proprio il fattore temporale e la mortalità come scarto incommensurabile e irriproducibile: «Di sicuro l’intelligenza artificiale potrà scrivere romanzi, creare trame, riprodurre lo stile di un certo scrittore, ma quello che non potrà mai fare è restituire la crescita dello scrittore di opera in opera. L’IA replica uno scrittore in un preciso istante. Gli nega cioè sviluppo, evoluzione, deperimento. ChatGPT non permette allo scrittore di invecchiare. Ora: senza lo scorrere del tempo, senza la prospettiva della morte, c’è letteratura? Senza il ricasco dell’esperienza sulla scrittura, senza il materiale umano, quello che Italo Calvino diceva dei libri di Cesare Pavese “portano dentro tutto quello che l’autore ha imparato di nuovo della vita nell’intervallo tra un libro e l’altro”... Ecco, l’IA non registra l’intervallo - e no, non è una mancanza piccola».
Anche Mauro Covacich non la trova un mezzo adeguato: «Io non ho ancora provato l’IA semplicemente perché non fa al caso mio. Non ho nulla contro l’intelligenza artificiale se può risolvere problemi di scrittura a qualcuno, ma io scrivo proprio per il gusto di affrontare quei problemi da solo. Il processo della scrittura mi rivela spesso qualcosa che non sospettavo nemmeno di pensare. In altri termini, scrivo per scoprire qualcosa di me che ancora non so. Non ho altra ragione per scrivere. Ma ci sono anche persone che pensano alla scrittura come a un puro e semplice strumento di comunicazione e non dubito che per loro l’IA possa essere un ottimo aiutante. Tutto dipende dalla ragione per cui scrivi. Un po’ come con i cruciverba: da qualche parte c’è sempre una pagina con le risposte e quindi, volendo, potresti prenderle direttamente da lì e riempire tutte le caselle, ma svanirebbe l’unica ragione per cui fai i cruciverba, che è proprio quella di lambiccarti per trovare, da solo, le risposte esatte a quelle domande».
Per Emanuele Trevi non c’è partita proprio perché l’unica possibile si gioca su qualcosa di non ancora definito una volta per tutte come la coscienza: «Io non ho mai nutrito il benché minimo interesse per l’intelligenza artificiale, uso un po’ quella di Meta che hanno messo su WhatsApp ma le mie ultime domande sono del tipo - l’aloe è veramente efficace con le punture di zanzare? Quanto deve stare in forno un’orata di un paio di chili? Non intendo abbonarmi a versioni più efficaci e complesse, per il semplice motivo che non me ne frega nulla, anche nel caso che in vent’anni arrivi a eliminare del tutto gli scrittori: tanto meglio, ci sono quelli del passato. Non è che non ammiriamo più i mosaici bizantini perché nessuno li fa più. Da un punto di vista più filosofico, posso porre a chi è più esperto una questione forse ingenua: da Aristotele ai neuroscienziati, nessun pensatore al mondo ha definito in maniera soddisfacente la coscienza - ma se non sappiamo cos’è, come possiamo produrne una versione tecnologica? Ecco, il giorno in cui avremo una coscienza artificiale la partita sarà davvero finita».
Caterina Bonvicini, sebbene disposta ad ammettere la possibilità che l’IA possa superarla, ricorda: «Ero in una scuola, un ragazzo ha alzato la mano: per quanto tempo pensa di poter fare ancora questo mestiere? Si riferiva ai social che prosciugano la concentrazione. E soprattutto all’intelligenza artificiale, che può sostituirci. Non era una domanda cattiva, era una domanda difficile. Anch’io non riesco più a leggere come prima, ho detto, me li sogno certi livelli di attenzione. Prendevo tempo. Poi mi sono ricordata che ero lì per parlare del Mediterraneo. Allora ho risposto: forse l’intelligenza artificiale può scrivere un libro più bello del mio, ma non può salvare la gente in mare. E non può sapere cosa si prova».
Vanni Santoni confida invece una certa delusione: «Quando sono comparse le IA generative mi sono divertito a sperimentare con quelle grafiche, tant’è che ho anche realizzato un fumetto che è uscito qui su “la Lettura”; finito l’effetto-novità mi sono venute a noia, anche prima che emergessero le loro criticità - consumo energetico e furto di opere altrui, per dire solo le principali. Per quanto riguarda invece ChatGPT, mi è sembrato da subito che scrivesse assai male, quindi non ha attirato il mio interesse. L’ho tuttavia usata per scrivere - dichiaratamente - una “stanza” del progetto poetico 999 rooms (da cui è stato tratto il libro Other rooms/Altre stanze), perché basandosi sull’intertestualità e sul mash-up di testi altrui, l’uso risultava lì appropriato. Il risultato è stato comunque molto sotto lo standard minimo che richiedo a me stesso. Da allora, mai più usata. Penso anzi che tra poco la bolla scoppierà: a conti fatti le IA non piacciono a nessuno, sono scarse e imprecise e vengono usate solo perché le ficcano ovunque».
Per Marcello Fois il problema è ancora a monte, nella definizione di ciò che chiamiamo intelligenza: «Non credo esista un’intelligenza, cioè una capacità di mettere in relazione informazioni, “naturale”. Quella di cui mi servo è artificiale da sempre, sono vocabolari, glossari, biblioteche, archivi, motori di ricerca. Invito a non confondere mai l’atto di elaborare un patrimonio con la capacità di archiviarlo. Abbiamo pensato diversi dispositivi perché non andassero disperse le sostanze, tecniche, scientifiche, artistiche, filosofiche, matematiche, figurative, che via via andavamo accumulando. La capacità di coordinare fra loro gli elementi di questo capitale farà sempre la differenza».
Un veterano dell’insegnamento della scrittura, nonché scrittore di lungo corso come Giulio Mozzi, dice: «Ho usato ChatGPT, come tutti, come strumento preliminare per ricerche (che ho poi sempre verificato per altre vie). La uso spesso per tradurre da lingue che non conosco: è nel complesso meno affidabile di altri strumenti, ma ha il pregio di spiegarti — su richiesta - perché ha tradotto in quel modo, parola per parola; e questo permette di vedere anche i suoi svarioni. Ho usato un paio di volte ChatGPT per gioco, per produrre due post in Facebook a proposito dell’utilità (il primo) e della pericolosità (il secondo) dell’uso delle LLM (Large Language Model) per la produzione di testi narrativi. La sto usando per analizzare testi: le propongo solo testi che ho già letto, perché il mio scopo per ora è capire le sue possibilità e i suoi limiti. L’analisi retorica è di solito discreta (benché sempre incompleta), quella stilistica insomma; nella ricostruzione di una trama la vedo spesso in difficoltà».
Fra qualche anno sarà interessante rileggere queste posizioni che non sono né apocalittiche né integrate, piuttosto: prudenti. Molto, se non tutto, di ciò che chiamiamo cultura e umanità è frutto del tentativo di dare senso al vivere terreno, sapendo che è limitato ed effimero. Sotto questa luce non ha ragione di esistere nessuna forma di competizione o di paura delle macchine e il giorno in cui potessimo pensarci al di là della morte probabilmente noi umani non avremmo più bisogno della letteratura. Ma anche questa lungi dall’essere una certezza è piuttosto una prudente ipotesi.
«Corriere della Sera» del 7 settembre 2025

16 settembre 2025

La prima pagina del mio romanzo storico sulla vita del poeta Giovan Battista Marino (1659-1625)
di Francesco Maria Toscano
Non so se oggi il nome del Cavaliere Giovan Battista Marino dica ancora qualcosa ai giovani che inseguono le mode, né se qualcuno, fra questi nuovi letterati dalla penna spuntata, abbia mai aperto il suo Adone, così come si apre un ventaglio dimenticato in un cassetto.

Ma io lo conobbi. Lo conobbi davvero. Lo vidi in carne e raso, con il colletto di pizzo e lo sguardo più tagliente della spada che non portava mai. L’ho visto essere acclamato e insultato, imprigionato e celebrato, ascoltato dai re e temuto dai poeti.

Non scrivo per difenderlo. Né per condannarlo. Scrivo perché nessuno ha raccontato ciò che stava dietro il suo sorriso, tra le righe delle sue lettere, sotto le maschere dorate del suo verso.

Mi chiamo Cesare C. Sebbene io abbia solo servito il cavaliere come copista, amico e qualche volta complice, ciò che so può bastare a ricostruire un uomo. O almeno la sua ombra.

Incomincerò da Napoli, naturalmente. Era l’anno del Signore 1596 e la città era un braciere: povera e sontuosa, musicale e violenta.

Ed è lì che il fuoco prese, e il ragazzo divenne fiamma.

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Postato il 16 settembre 2025

13 settembre 2025

Come rivalutare il petrarchismo

Cambi di paradigma. Una comunità di studiosi, intorno a progetti precisi, ha scardinato le viete consuetudini critiche sul tema. E, per una volta, non sembra solo una cosa accademica
di Stefano Jossa
Il petrarchismo è stato a lungo considerato, e lo è ancora in gran parte dei manuali di scuola e di università, il fenomeno più negativo della storia della letteratura italiana. «La posterità ha dimenticato i petrarchisti», scriveva Francesco De Sanctis, che in loro vedeva solo un fenomeno imitativo caratterizzato dal culto della bella forma, senza vitalità e vigore. Arturo Graf andava oltre, accusando il petrarchismo di essere «la malattia cronica della letteratura italiana», dovuta all’incapacità creativa, all’ingegno mediocre e alla cortigiania frivola della maggioranza dei letterati italiani.
Eppure i petrarchisti hanno segnato un percorso di storia culturale e poetica che non si può ridurre all’idolatria di Petrarca, come volevano i loro critici romantici: contrapponendo l’omologazione dei poeti classicisti, di cui i petrarchisti sono l’esempio supremo, all’emergere dell’individualità nella poesia moderna, questi critici tracciavano un confine tra un male, l’imitazione passiva e acritica, e un bene, l’invenzione geniale e appassionata.
È probabilmente arrivato il momento di capovolgere il paradigma, se molti studi recenti si sono rivolti a valorizzare l’aspetto comunitario della poesia petrarchista: non cambiano le coordinate storiografiche (i molti anonimi di contro ai pochi che si distinguono), ma cambia il sistema dei valori (poesia che crea legami rispetto alla poesia che isola eccellenze). Su questa linea si è mosso il gruppo di lavoro “Petrarchan Worlds”, coordinato da Bernhard Huss della Freie Universität di Berlino, all’interno del più largo progetto “Temporal Communities. Doing Literature in a global perspective”, che c’invita ora a rileggere il petrarchismo all’insegna dei conflitti fra sistemi culturali anziché secondo vecchie categorie ormai superate.
È uno dei pochi casi, va detto, in cui un progetto accademico non serve a creare isole di fittizia eccellenza, come accade regolarmente col sistema delle grants, che per lo più non generano cultura diffusa e restano esperienze separate, ma prova davvero a entrare in sintonia con il contenuto, realizzando una comunità di studiosi intorno all’oggetto comunitario di cui si occupano. Nonostante il rischio sempre presente di creare microesperti di minuzie, l’esplorazione a tutto campo (in Italia, Francia, Spagna, Olanda e Germania, a cui andranno aggiunti il Portogallo, la Gran Bretagna, i paesi scandinavi e la Russia) porta all’indispensabile presa di coscienza che le scelte letterarie rispondono a principi ideologici: concentrarsi su un modello unico consentiva di creare una grammatica poetica comune, che garantiva il dialogo e lo scambio, anziché chiudersi nello spazio egocentrato dell’esperienza individuale.
Il primato della forma sulla vita consentiva l’allargamento dell’orizzonte comunicativo, la possibilità di una partecipazione più diffusa e la costruzione di un codice di riferimento per la società letteraria. Altro che narcisisticamente ripiegato su sé stesso, come ancora a volte vuole la critica: Petrarca, dice Huss nell’introduzione, si è rivelato talmente aperto e complesso da generare fenomeni transnazionali e transtemporali come l’umanesimo e il Rinascimento, fino a diventare il padre di una lunga durata della poesia europea perché ha fornito, per generazioni, gli strumenti di un’elaborazione collettiva che ha attraversato le lingue, i generi, i mezzi e le arti. Fu il sistema-Petrarca, infatti, dal Canzoniere ai Trionfi alle opere storiche, morali e spirituali in latino, ad affermarsi, anziché il solo poeta lirico.
La questione, insomma, non è solo poetica, ma morale: dentro Petrarca c’è un’etica, fatta di consapevolezza storica, ricerca identitaria, collocazione sociale e competenza espressiva, che ne fa il vero modello, come diceva Amedeo Quondam, del gentiluomo europeo.
L’etica è a sua volta un’economia, perché non c’è dubbio che la società petrarchesca, con meno individualità di spicco e più senso della partecipazione, costituisce un’alternativa potente a quel modello culturale, romantico e capitalista, che spinge verso la creazione di eccellenze individuali in modo da generare rendite di posizione, inseguimenti e competizione: è così che l’aristocratico Pietro Bembo, fondatore, tanto in poesia quanto in grammatica, del petrarchismo, si sposta sempre di più, dal nostro punto di vista, sul versante di una democrazia partecipativa di cui oggi sentiamo drammaticamente la mancanza.
Community-building è un po’ un mantra dei progetti accademici del nostro tempo, come se l’accademia riuscisse a darsi senso solo attraverso una funzione riflessiva rispetto alla politica; ma quando la parola d’ordine si traduce in un’indagine sui meccanismi effettivi di condivisione e coinvolgimento la ricostruzione storica può uscire dalle aule e diventare ipotesi per un agire futuro.

Bernhard Huss (Ed.), Petrarchism: Competing Models for Early Modern Community Building (1400-1700), Universitätsverlag Winter Heidelberg, pagg. 172, €33
««Il Sole 24 ore – supplemento La domenica» del 31 agosto 2025

04 settembre 2025

Calo dei lettori? Meno calcoli e maggiore qualità

E se anche nella cultura fossimo nella stessa situazione che viviamo con il mondo della politica, di graduale disamoramento? Se ci fossero libri validi, tornerebbero a esserci anche i lettori?
di Eugenio Giannetta
Non nelle sedi opportune, ma davanti a un fresco e informale bicchiere di birra, sciatta variante contemporanea degli antichi salotti dove un tempo si discuteva animatamente dei destini cui andava incontro il mondo culturale, qualche sera fa con un amico si discuteva – appunto – delle (non) progettualità future in ambito culturale di una città, Torino, la cui vocazione artistica e musicale, in questi ultimi anni, ha perduto non poco di interesse. Dopo aver tracciato con agile faciloneria la parabola del percorso di decadimento di questa, ci siamo poi intrattenuti su alcuni temi che hanno acceso non poco il dibattito della bolla, nelle ultime settimane. Da una parte un post Facebook della scrittrice Grazia Verasani in cui «lamenta il fatto che le presentazioni di libri sono uno sforzo notevole per chi scrive e per chi le organizza ma forse servono sempre meno», dall’altra un post critico nei confronti della scuola Holden in cui un’ex allieva si chiede se la frequentazione della scuola sia stata davvero utile ad apprendere le tecniche di scrittura o serva «invece a conferire uno status e a favorire delle relazioni sociali».
Il virgolettato nasce dal fatto che con questo amico ne abbiamo parlato a partire da una riflessione uscita su “Il Tascabile” a firma Christian Raimo, intitolata La polemica si risolve con la politica. L’articolo di Raimo apre alcuni spunti, individuando un nervo scoperto che ha a che fare con la sostenibilità dell’editoria, la formazione degli autori e il declino della lettura in Italia. Raimo infatti riporta anche alcuni dati: «Nelle prime 24 settimane del 2025 sono stati comprati due milioni netti di libri in meno, un calo di fatturato di 31 milioni: un dato che equivale al 5% di lettori persi, uno su venti. Le statistiche sul lettorato del 2024 ci davano già conto di una condizione rovinosa. L’Istat rilevava che solo il 40% legge almeno un libro l’anno. Altre statistiche – Eurostat – mostravano che l’Italia è il Paese in Europa dove si legge meno dopo Cipro e la Romania. La percentuale di chi legge almeno un libro l’anno, secondo Eurostat, è del 35%, a confronto di una media europea del 53%. Nel Nord Europa si arriva almeno al 70%, in Francia, Germania e Spagna siamo abbondantemente sopra il 50». Quello di Raimo è, in definitiva, anche un richiamo all’impegno civico ed educativo, ma per noi è pure motivo di frustrazione nel constatare una situazione così grigia, una diagnosi così nefasta. Capita poi che qualche settimana dopo questo pezzo di Raimo, sempre sul “Tascabile” ne esca un altro, in risposta, a firma di Stefano Jorio, intitolato Coscienza politica, letteratura e industria, come in un vero e proprio dibattito culturale a distanza d’altri tempi. Nella sua riflessione Jorio evidenzia con chiarezza ciò che considera una tensione nel ragionamento di Raimo: identificare troppo ciecamente la letteratura con l’industria editoriale, fino a parlare di filiera e crisi economica come se un calo nelle vendite fosse la misura ultima del valore culturale, quando invece «chi conosce le pratiche dell’industria editoriale – scrive Jorio – sa bene quanto poco abbiano a che fare con la letteratura: ci sono agenti che discutono preventivamente la trama con gli autori, redattori che premono per eliminare passi potenzialmente scoraggianti, amministratori delegati che approdando all’editoria dichiarano di voler mettere la propria esperienza al servizio della promozione del brand».
Il dibattito mette per cui in luce una sorta di inconciliabilità tra il mondo “aziendale” della scrittura, con storytelling pensati come prodotto («per un pubblico di massa»), e una visione più umanistica. Da qui la riflessione da bar con il mio amico: e se anche nel mondo della cultura fossimo nella stessa situazione che viviamo con il mondo della politica? Ovvero un graduale disamoramento che ha portato all’astensione dal voto perché “non ci sono valide alternative, mi turo il naso e voto Tizio, oppure Caio”? Quindi, il problema a questo punto sarebbe a monte, di «fiducia» nel prodotto: se ci fossero libri validi, tornerebbero a esserci anche i lettori? Domanda aperta. Non ci sono risposte giuste o sbagliate. Non c’è proprio possibilità di avere risposte, ma è importante sottolineare un aspetto, per non generalizzare con luoghi comuni. La verità è che i libri validi ci sarebbero anche, il problema semmai è che spesso forse tendono a perdersi nel marasma di titoli che escono ogni giorno, hanno vita breve, a volte brevissima, e qualche volta alle presentazioni di cui sopra magari arrivano già belli che trapassati. Insomma, che ci sia un calo di lettori in termini quantitativi (meno copie vendute, meno pubblico), e che questo calo si possa attribuire a una crisi multipla che comprende fattori vari quali il potere d’acquisto, il ruolo della scuola, i social, la concorrenza di un mondo altro in digitale, è un fatto. Che la qualità e la forza dell’offerta culturale vada rivista anche in termini di investimenti dall’alto è un altro fatto, perché se la cultura è assoggettata alla calcolatrice, allora sarà sempre prodotta al ribasso: «Il calo di vendite – scrive Jorio – indica una crisi di sovrapproduzione alla quale l’industria reagisce abbassando il prezzo della merce e contestualmente, se possibile, il costo della forza-lavoro necessaria a produrla». Nel dubbio continueremo a discuterne davanti a un bicchiere, che forse non risolverà la crisi in atto, ma aiuterà a mandar giù un po’ di amarezza.
«Avvenire» di martedì 2 settembre 2025