Talvolta inutile, in realtà inevitabile: è la vita. Il racconto di Mario Calabresi
di Walter Veltroni
Mario Calabresi ha scelto un tema controverso, difficile da trattare, per il suo nuovo libro Alzarsi all’alba, edito da Mondadori. Attraverso quattordici storie e un’introduzione che ne contiene altre, Calabresi affronta la questione della fatica nel mondo contemporaneo. Tema contraddittorio, perché fin dalla rivolta di Spartaco l’uomo ha cercato, anche attraverso la rabbia sociale, di liberarsi dalle catene della fatica e, nel segno di questa emancipazione, si è definita buona parte del cammino umano.
La fatica è sempre stata dei più poveri, dei segregati, degli ultimi della terra. La fatica di «alzarsi all’alba» per governare i campi o le bestie, la fatica della catena di montaggio e del cottimo, la fatica degli schiavi sulle navi dei loro «padroni», la fatica delle donne nelle risaie. La fatica degli umani ha sempre consentito la creazione della ricchezza, ma non la rimozione della povertà. A quello avrebbe dovuto pensare non la macchina dell’accumulazione, ma la politica con le sue politiche redistributive, che sono mancate. La fatica proletaria è sudore, ore sottratte al sonno e alla famiglia, malattia, perdita del senso della vita.
Perché la fatica è socialmente mal distribuita. I poveri si alzano all’alba, i ricchi non sempre.
Dico non sempre perché la fatica, detto che ha un segno prevalentemente di classe, riguarda in fondo tutti. Gli studenti che si preparano a un esame, il chirurgo che opera per dieci ore consecutive, l’avvocato che studia faldoni per un’udienza importante, il commerciante che si alza all’alba, anche lui, per sollevare la saracinesca e sperare che quel luogo si riempia, perché ne va della sua vita.
Ma oggi il rifiuto diffuso della fatica non avviene tanto sotto il segno dell’emancipazione, sociale e culturale, da essa, quanto sembra appartenere al regno dei disvalori di questo tempo in cui tutto è semplice, veloce e gratuito. Ci siamo liberati da fatiche inutili, come ci ha consentito di fare la rete, portando non noi verso le cose, ma le cose verso di noi.
Tutto comodissimo, tutto rapido, ma il prezzo è stato la crescita della solitudine e un malessere sociale con indici di disagio e di inquietudine mai visti prima.
Il mondo digitale ha poi insegnato che basta poco per arricchirsi, talvolta l’intelligenza e la creatività, talaltra lo sfruttamento del proprio corpo, di quello di altri, o la manipolazione della verità. Si è teorizzato, veleno assoluto, che uno vale uno, che la competenza non serve più a nulla, che il mondo moderno è di chi se lo piglia, basta padroneggiare gli algoritmi.
La comodità, dice Calabresi, «è diventata un valore assoluto». Scrive: «Si è fatta strada l’idea che sia possibile raggiungere risultati, conquistare traguardi, compiere imprese senza fare fatica. Non è mai stato chiaro come fosse possibile, ma l’illusione ha preso piede ed è stata abbondantemente coltivata. Nonostante questa utopia, molta gente che non può permettersi di affrancarsi continua a viverla, la fatica. Ad alzarsi all’alba, a fare lavori ripetitivi e sfinenti, a non avere orari, a prendersi cura di un pezzo di mondo».
Forse, di nuovo, a liberarsi della fatica, stavolta grazie alle tecnologie, è chi può permetterselo. Calabresi racconta storie italiane di fatica, di perdita e di speranza: una ragazza che affronta una malattia invalidante con combattività e finisce col diventare un’atleta, chi lavora nel mercato ortofrutticolo, chi decide di darsi alla maratona per sentirsi più vicino alla figlia che non c’è più, chi ha studiato, venendo da lontano, per salvaguardare, restaurandolo, il patrimonio culturale e tante altre ancora. O chi, come la signora Marisa, 89 anni, si alza all’alba per il suo bar e per preparare torte pasqualine e focacce al formaggio. Una donna saggia che dice all’autore del libro: «I giovani hanno capito com’è la vita, è breve e poi finisce, e allora cercano di godersela un po’ di più. Di distinguere la vita dal lavoro. Io invece non l’ho capito. Io sono contenta quando lavoro. Qualche mese fa ho avuto un’infezione a un piede e sono rimasta bloccata a casa tre giorni, una cosa insopportabile».
Il segno di queste vicende personali è la fatica per il riscatto dal dolore o dalla povertà, è l’elogio del carattere, della determinazione, della consapevolezza che nessuno ti regala nulla e che, al tempo, stesso, nessuno ti ruba tutto per sempre.
Il tempo passato è stato segnato dalla fatica, anche da quelle inutili, dalle quali per fortuna ci siamo liberati. E non era un tempo migliore, come si tende a pensare, indulgendo al rimpianto della vita sfilata troppo rapidamente.
Però speravamo che la più grande rivoluzione della storia umana, quella digitale, ci avrebbe consentito di mettere in armonia la semplificazione con la coscienza della complessità delle cose, la velocità con la profondità, l’immagine e la ragione. Pensavamo, non dobbiamo smettere di farlo, che un uso delle tecnologie consapevole e ispirato da valori avrebbe migliorato la qualità della nostra vita. Per fare questo non basta rimuovere le fatiche inutili, ci vuole molto di più, ci vuole «l’intelligenza complessiva delle cose» cara al cardinale Carlo Maria Martini, che richiede, torniamo lì, sacrificio e pazienza. Altrimenti il rischio è di vivere senza fatiche superflue, ma infelici, con la convinzione che in fondo, a essere superflua, sia la vita.
Calabresi si muove con sapienza nel labirinto del valore della fatica come formazione e senso e, al tempo stesso, come coscienza della necessità di liberarsene per una vita migliore. Dice, come a guidare il percorso di questo viaggio: «Chiudo ogni incontro con i ragazzi con l’augurio di fare fatica, convinto che la fatica sia l’antidoto a un tempo in cui tutto è frammentato, in cui spesso è difficile trovare un senso e una direzione. Allora, sono convinto che la fatica, intesa non come sofferenza, di quella ne abbiamo già troppa, ma come determinazione, passione, costanza, sia un’ancora di salvezza. Ripenso a questo ogni volta che vedo un bambino piccolo incollato a un ipad o a un telefono per ore, durante un viaggio in treno, a tavola o perfino sul passeggino «così sta bravo e non disturba».
La verità è che in questo modo i genitori non devono fare la fatica di stare con lui, parlarci, inventarsi dei giochi, aiutarlo a disegnare, leggergli un libro. E lui non deve fare quella fatica preziosa di scoprire il mondo, guardarsi intorno, immaginare qualcosa per non annoiarsi».
In fondo era stato Leonardo da Vinci, nei suoi Pensieri, a scrivere: «Tu, o Iddio, ci vendi tutti li beni per prezzo di fatica».
La fatica è sempre stata dei più poveri, dei segregati, degli ultimi della terra. La fatica di «alzarsi all’alba» per governare i campi o le bestie, la fatica della catena di montaggio e del cottimo, la fatica degli schiavi sulle navi dei loro «padroni», la fatica delle donne nelle risaie. La fatica degli umani ha sempre consentito la creazione della ricchezza, ma non la rimozione della povertà. A quello avrebbe dovuto pensare non la macchina dell’accumulazione, ma la politica con le sue politiche redistributive, che sono mancate. La fatica proletaria è sudore, ore sottratte al sonno e alla famiglia, malattia, perdita del senso della vita.
Perché la fatica è socialmente mal distribuita. I poveri si alzano all’alba, i ricchi non sempre.
Dico non sempre perché la fatica, detto che ha un segno prevalentemente di classe, riguarda in fondo tutti. Gli studenti che si preparano a un esame, il chirurgo che opera per dieci ore consecutive, l’avvocato che studia faldoni per un’udienza importante, il commerciante che si alza all’alba, anche lui, per sollevare la saracinesca e sperare che quel luogo si riempia, perché ne va della sua vita.
Ma oggi il rifiuto diffuso della fatica non avviene tanto sotto il segno dell’emancipazione, sociale e culturale, da essa, quanto sembra appartenere al regno dei disvalori di questo tempo in cui tutto è semplice, veloce e gratuito. Ci siamo liberati da fatiche inutili, come ci ha consentito di fare la rete, portando non noi verso le cose, ma le cose verso di noi.
Tutto comodissimo, tutto rapido, ma il prezzo è stato la crescita della solitudine e un malessere sociale con indici di disagio e di inquietudine mai visti prima.
Il mondo digitale ha poi insegnato che basta poco per arricchirsi, talvolta l’intelligenza e la creatività, talaltra lo sfruttamento del proprio corpo, di quello di altri, o la manipolazione della verità. Si è teorizzato, veleno assoluto, che uno vale uno, che la competenza non serve più a nulla, che il mondo moderno è di chi se lo piglia, basta padroneggiare gli algoritmi.
La comodità, dice Calabresi, «è diventata un valore assoluto». Scrive: «Si è fatta strada l’idea che sia possibile raggiungere risultati, conquistare traguardi, compiere imprese senza fare fatica. Non è mai stato chiaro come fosse possibile, ma l’illusione ha preso piede ed è stata abbondantemente coltivata. Nonostante questa utopia, molta gente che non può permettersi di affrancarsi continua a viverla, la fatica. Ad alzarsi all’alba, a fare lavori ripetitivi e sfinenti, a non avere orari, a prendersi cura di un pezzo di mondo».
Forse, di nuovo, a liberarsi della fatica, stavolta grazie alle tecnologie, è chi può permetterselo. Calabresi racconta storie italiane di fatica, di perdita e di speranza: una ragazza che affronta una malattia invalidante con combattività e finisce col diventare un’atleta, chi lavora nel mercato ortofrutticolo, chi decide di darsi alla maratona per sentirsi più vicino alla figlia che non c’è più, chi ha studiato, venendo da lontano, per salvaguardare, restaurandolo, il patrimonio culturale e tante altre ancora. O chi, come la signora Marisa, 89 anni, si alza all’alba per il suo bar e per preparare torte pasqualine e focacce al formaggio. Una donna saggia che dice all’autore del libro: «I giovani hanno capito com’è la vita, è breve e poi finisce, e allora cercano di godersela un po’ di più. Di distinguere la vita dal lavoro. Io invece non l’ho capito. Io sono contenta quando lavoro. Qualche mese fa ho avuto un’infezione a un piede e sono rimasta bloccata a casa tre giorni, una cosa insopportabile».
Il segno di queste vicende personali è la fatica per il riscatto dal dolore o dalla povertà, è l’elogio del carattere, della determinazione, della consapevolezza che nessuno ti regala nulla e che, al tempo, stesso, nessuno ti ruba tutto per sempre.
Il tempo passato è stato segnato dalla fatica, anche da quelle inutili, dalle quali per fortuna ci siamo liberati. E non era un tempo migliore, come si tende a pensare, indulgendo al rimpianto della vita sfilata troppo rapidamente.
Però speravamo che la più grande rivoluzione della storia umana, quella digitale, ci avrebbe consentito di mettere in armonia la semplificazione con la coscienza della complessità delle cose, la velocità con la profondità, l’immagine e la ragione. Pensavamo, non dobbiamo smettere di farlo, che un uso delle tecnologie consapevole e ispirato da valori avrebbe migliorato la qualità della nostra vita. Per fare questo non basta rimuovere le fatiche inutili, ci vuole molto di più, ci vuole «l’intelligenza complessiva delle cose» cara al cardinale Carlo Maria Martini, che richiede, torniamo lì, sacrificio e pazienza. Altrimenti il rischio è di vivere senza fatiche superflue, ma infelici, con la convinzione che in fondo, a essere superflua, sia la vita.
Calabresi si muove con sapienza nel labirinto del valore della fatica come formazione e senso e, al tempo stesso, come coscienza della necessità di liberarsene per una vita migliore. Dice, come a guidare il percorso di questo viaggio: «Chiudo ogni incontro con i ragazzi con l’augurio di fare fatica, convinto che la fatica sia l’antidoto a un tempo in cui tutto è frammentato, in cui spesso è difficile trovare un senso e una direzione. Allora, sono convinto che la fatica, intesa non come sofferenza, di quella ne abbiamo già troppa, ma come determinazione, passione, costanza, sia un’ancora di salvezza. Ripenso a questo ogni volta che vedo un bambino piccolo incollato a un ipad o a un telefono per ore, durante un viaggio in treno, a tavola o perfino sul passeggino «così sta bravo e non disturba».
La verità è che in questo modo i genitori non devono fare la fatica di stare con lui, parlarci, inventarsi dei giochi, aiutarlo a disegnare, leggergli un libro. E lui non deve fare quella fatica preziosa di scoprire il mondo, guardarsi intorno, immaginare qualcosa per non annoiarsi».
In fondo era stato Leonardo da Vinci, nei suoi Pensieri, a scrivere: «Tu, o Iddio, ci vendi tutti li beni per prezzo di fatica».
«Corriere della Sera» del 13 settembre 2025
