Scuola e tribunali amministrativi
di Giovanni Belardell
Sono ancora i professori ad avere la responsabilità pedagogica dell’insegnamento nelle nostre scuole? È in fondo questa la domanda che nasce dalla lettura di una recente sentenza del Tar del Lazio, che ha annullato la bocciatura di uno studente di un liceo classico romano il quale aveva riportato alcune pesanti insufficienze: 3 in matematica, 4 in fisica, 3 in storia dell’arte. Al di là delle motivazioni più tecnico-giuridiche della sentenza, spicca il rimprovero del Tar agli insegnanti per non avere adeguatamente valutato la preparazione complessiva dello studente, all’interno della quale - secondo i giudici amministrativi - un 3 in matematica e un 4 in fisica sarebbero meno gravi trattandosi di un liceo classico. Anche a prescindere dall’opinione che si può avere su un’argomentazione del genere (personalmente, la reputo una sciocchezza), a lasciare di stucco è il fatto che in questo modo il Tar salga, letteralmente, in cattedra. Finisce infatti per sostituirsi agli insegnanti in quell’attività chiave della loro funzione pedagogica che consiste nella valutazione di uno studente: una valutazione che può fare a ragion veduta (o almeno così credevamo) solo chi lo abbia avuto in classe per un anno scolastico.
Una sentenza del genere va inserita in quella tendenza generale - comune a tutti gli Stati democratici contemporanei, ma in Italia più accentuata che altrove - che vede la magistratura amministrativa (e non solo) intervenire in un numero sempre maggiore di ambiti della vita sociale, dagli scrutini scolastici alle cure mediche. È il fenomeno che il politologo Alessandro Pizzorno ha definito come «resa dell’autorità sociale alla legge» (Il potere dei giudici , Laterza): in sostanza, le figure che un tempo fissavano regole e le facevano rispettare (dall’insegnante al medico, dal capofamiglia al dirigente d’azienda) si rivelano non più in grado di svolgere questa funzione. Da parte sua, chi un tempo accettava le decisioni di un’autorità sociale oggi - se non è d’accordo - ricorre sempre più frequentemente alla magistratura.
Dunque, dietro la sentenza del Tar che ha annullato una bocciatura, come dietro altre pronunce consimili, c’è il fenomeno, da tempo sotto gli occhi di tutti, della perdita di autorità e di credito sociale degli insegnanti. Oggi, di fronte alla bocciatura di un figlio, a molti rischia di apparire normale andare direttamente dall’avvocato (per non parlare dei casi limite di chi, come la coppia di genitori di Cosenza di cui ha parlato giorni fa il Corriere , ha letteralmente aggredito la vicepreside).
Quella perdita di autorità e di credito non è certo un fenomeno solo italiano; ma da noi appare tanto più forte per il fatto stesso che - nonostante i continui, vacuamente retorici, riferimenti al merito - una parte del Paese pensa ormai che valutare il merito di qualcuno (non soltanto attraverso il voto, certo, ma a volte anche con un voto) voglia dire discriminarlo, escluderlo, porlo ai margini della società. È la nostra cultura che, in preda a una deriva pseudobuonista (pseudo, perché la possibilità della scuola di contrastare le differenze legate alla diversa provenienza socioculturale si lega anche alla sua capacità di valutare il merito di ciascuno), dietro ai voti e alle insufficienze non sa vedere altro che un atto illegittimo.
Contro cui chiedere dunque l’intervento di qualche tribunale amministrativo disposto a sostituirsi agli insegnanti.
Una sentenza del genere va inserita in quella tendenza generale - comune a tutti gli Stati democratici contemporanei, ma in Italia più accentuata che altrove - che vede la magistratura amministrativa (e non solo) intervenire in un numero sempre maggiore di ambiti della vita sociale, dagli scrutini scolastici alle cure mediche. È il fenomeno che il politologo Alessandro Pizzorno ha definito come «resa dell’autorità sociale alla legge» (Il potere dei giudici , Laterza): in sostanza, le figure che un tempo fissavano regole e le facevano rispettare (dall’insegnante al medico, dal capofamiglia al dirigente d’azienda) si rivelano non più in grado di svolgere questa funzione. Da parte sua, chi un tempo accettava le decisioni di un’autorità sociale oggi - se non è d’accordo - ricorre sempre più frequentemente alla magistratura.
Dunque, dietro la sentenza del Tar che ha annullato una bocciatura, come dietro altre pronunce consimili, c’è il fenomeno, da tempo sotto gli occhi di tutti, della perdita di autorità e di credito sociale degli insegnanti. Oggi, di fronte alla bocciatura di un figlio, a molti rischia di apparire normale andare direttamente dall’avvocato (per non parlare dei casi limite di chi, come la coppia di genitori di Cosenza di cui ha parlato giorni fa il Corriere , ha letteralmente aggredito la vicepreside).
Quella perdita di autorità e di credito non è certo un fenomeno solo italiano; ma da noi appare tanto più forte per il fatto stesso che - nonostante i continui, vacuamente retorici, riferimenti al merito - una parte del Paese pensa ormai che valutare il merito di qualcuno (non soltanto attraverso il voto, certo, ma a volte anche con un voto) voglia dire discriminarlo, escluderlo, porlo ai margini della società. È la nostra cultura che, in preda a una deriva pseudobuonista (pseudo, perché la possibilità della scuola di contrastare le differenze legate alla diversa provenienza socioculturale si lega anche alla sua capacità di valutare il merito di ciascuno), dietro ai voti e alle insufficienze non sa vedere altro che un atto illegittimo.
Contro cui chiedere dunque l’intervento di qualche tribunale amministrativo disposto a sostituirsi agli insegnanti.
«Il Corriere della Sera» del 30 giugno 2014
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