La diffusione di buona letteratura e di saggi in rete è promozione di sé e risponde a criteri antichi
di Jakob Norberg
La buona letteratura e i saggi stimolanti riusciranno a sopravvivere e a prosperare nell’era della viralità? Certamente. Ma saranno influenzati e plasmati dal processo di diffusione attraverso la rete. Paradossalmente, la condivisione online è un tipo di filtraggio selettivo.
Cominciamo con un concetto di base: cos’è la viralità? Un contenuto virale è un contenuto che viene condiviso. Se un giornale pubblica un articolo che è letto da 10 mila persone, si tratta di un articolo largamente diffuso, ma non virale. È semplicemente un articolo letto da molti. Ma se migliaia di persone inviano questo articolo ai loro amici con un’email, mettono il link su piattaforme di social media e ottengono che amici e contatti lo condividano a loro volta, l’articolo diventa virale. Si propaga attraverso le reti digitali, passando da una persona all’altra come un virus. Ma cos’è che può farlo diventare virale? Molti vorrebbero saperlo, nell’industria dello spettacolo, nei settori dell’informazione e del marketing.
Se la viralità è sinonimo di successo, capire cosa tenda a essere condiviso in rete è la chiave per avere riconoscimento, fama, potere e anche profitti. Qualche risposta in questo senso è stata data. I docenti di economia Jonah Berger e Katherine Milkman hanno studiato gli articoli del «New York Times» che sono stati maggiormente diffusi a mezzo di email dai lettori del giornale online. Perché alcuni pezzi sono stati condivisi e altri no? Quel che hanno scoperto è che la viralità ha in parte a che fare con il contenuto emotivo degli articoli. Gli articoli che suscitavano forti emozioni positive o negative erano condivisi più frequentemente di altri. Una notizia che tendeva a suscitare collera (emozione negativa) o una storia che ispirava ammirazione (emozione positiva) venivano condivise più spesso di storie che inducevano tristezza, un’emozione meno intensa.
Il coinvolgimento, sia in positivo che in negativo, spinge alla condivisione. I meccanismi della condivisione produrranno allora una letteratura più drammatica o più melodrammatica? Berger e Milkman pongono l’accento anche su un altro punto. Quello che scegliamo di condividere dice a chi è collegato con noi qualcosa sulla nostra identità. Quando condividiamo clip, immagini, articoli o storie, facciamo anche sapere chi siamo. Condividere contenuti con gli altri è una forma di «gestione della propria immagine». Dato che la condivisione è un modo di presentare se stessi e che, di solito, vogliamo apparire divertenti e positivi, tendiamo a selezionare clip divertenti, notizie confortanti e immagini carine. Si spiega così la presenza costante di video divertenti sui feed di Facebook.
Vi sono molti tipi di social network. Alcuni raccolgono persone che vogliono apparire politicamente impegnate o culturalmente sofisticate. Questo significa che vengono scambiati anche articoli seri e saggi profondi. In tutti questi network, però, sono le spinte a presentarsi agli altri che determinano quel che viene più ampiamente diffuso. Nell’era della viralità, la cultura — anche quella letteraria — è condizionata dall’interazione sociale. I contenuti culturali, più o meno sofisticati, rispondono all’immagine che vogliamo presentare agli altri. Quando la cultura si diffonde grazie alla condivisione, deve sempre superare il test delle singole personalità. Voglio essere il tipo di persona che condivide questo? Condividere è quindi un modo per vagliare e filtrare.
L’assorbimento della cultura letteraria nell’ambito dell’interazione sociale non ne determina la fine. Goodreads.com è una piattaforma per lettori, molti dei quali sono voraci, ambiziosi e sofisticati. Gli utenti presentano elenchi di libri che hanno letto, ricevono consigli e vedono quel che leggono i loro amici. Questo significa anche che le propensioni di uno o più critici importanti contano meno delle opinioni che si formano nelle reti di amici. Mentre guardiamo gli elenchi dei libri preferiti dagli altri e creiamo i nostri scaffali digitali, siamo anche impegnati in un gioco di mutua auto-rappresentazione.
Come c’è il selfie, l’autoscatto che inviamo, c’è anche lo shelfie (da shelf, scaffale), l’immagine della nostra libreria che condividiamo. Servono entrambi a cercare di influenzare la percezione degli altri. Come ha fatto notare la studiosa dei media Lisa Nakamura, Goodreads.com trasforma la lettura in una performance pubblica.
Si potrebbe obiettare che la letteratura e l’arte siano sempre state uno status symbol. Non compriamo forse Proust e parliamo di Wittgenstein e di Freud per mostrare di essere sofisticati? La nostra libreria non è sempre stata uno shelfie? La letteratura e l’arte non sono mai state solo profonde esperienze personali. Tutto questo è certamente vero, ma dobbiamo anche notare che la cultura della condivisione potrebbe essere più democratica e aperta alla partecipazione dei vecchi sistemi di diffusione, in cui si veniva informati e indirizzati da critici affermati e personalità influenti. Ora i lettori comunicano con i lettori, invece di essere catechizzati da autorità culturali. La cultura della condivisione è però anche una cultura di gestione della propria immagine e di affermazione del proprio status sociale.
I consigli di buoni romanzi o di saggi stimolanti diventeranno virali, si diffonderanno attraverso le reti digitali, se saranno adeguati all’immagine sociale che la gente vuole esibire. Ma che forma potrebbe avere una cultura completamente virale, in cui le storie che consumiamo fossero plasmate in modo sostanziale dal processo di condivisione? Penso spesso alle fiabe come a un possibile antecedente delle odierne pratiche di condivisione. Le fiabe non erano scritte da un genio solitario che si rivolgeva a un pubblico anonimo di lettori colti, ma storie interessanti che venivano trasmesse oralmente da una persona all’altra, un po’ come un virus. E che caratteristiche hanno? Le fiabe sono quasi sempre drammatiche — fanciulle innocenti in grave pericolo — ma grazie a eventi magici inattesi, tutto finisce bene, e così via. La dinamica della condivisione ha conformato le storie in modo che suscitino paura, collera, sollievo e gioia, perché sono le emozioni forti ad attivare l’impulso alla condivisione.
Sono anche storie impersonali: le narrazioni che sopravvivono viaggiando da una mente all’altra sono fatte per adattarsi a molte persone. Solo quelle che piacciono a molti vengono trasmesse. È probabile che una letteratura virale sarà molto drammatica e poco individualizzata. Le fiabe possono essere profonde, ma sono prive di sfumature; possono trasmettere insegnamenti, ma non sono personali.
(Traduzione di Maria Sepa)
Cominciamo con un concetto di base: cos’è la viralità? Un contenuto virale è un contenuto che viene condiviso. Se un giornale pubblica un articolo che è letto da 10 mila persone, si tratta di un articolo largamente diffuso, ma non virale. È semplicemente un articolo letto da molti. Ma se migliaia di persone inviano questo articolo ai loro amici con un’email, mettono il link su piattaforme di social media e ottengono che amici e contatti lo condividano a loro volta, l’articolo diventa virale. Si propaga attraverso le reti digitali, passando da una persona all’altra come un virus. Ma cos’è che può farlo diventare virale? Molti vorrebbero saperlo, nell’industria dello spettacolo, nei settori dell’informazione e del marketing.
Se la viralità è sinonimo di successo, capire cosa tenda a essere condiviso in rete è la chiave per avere riconoscimento, fama, potere e anche profitti. Qualche risposta in questo senso è stata data. I docenti di economia Jonah Berger e Katherine Milkman hanno studiato gli articoli del «New York Times» che sono stati maggiormente diffusi a mezzo di email dai lettori del giornale online. Perché alcuni pezzi sono stati condivisi e altri no? Quel che hanno scoperto è che la viralità ha in parte a che fare con il contenuto emotivo degli articoli. Gli articoli che suscitavano forti emozioni positive o negative erano condivisi più frequentemente di altri. Una notizia che tendeva a suscitare collera (emozione negativa) o una storia che ispirava ammirazione (emozione positiva) venivano condivise più spesso di storie che inducevano tristezza, un’emozione meno intensa.
Il coinvolgimento, sia in positivo che in negativo, spinge alla condivisione. I meccanismi della condivisione produrranno allora una letteratura più drammatica o più melodrammatica? Berger e Milkman pongono l’accento anche su un altro punto. Quello che scegliamo di condividere dice a chi è collegato con noi qualcosa sulla nostra identità. Quando condividiamo clip, immagini, articoli o storie, facciamo anche sapere chi siamo. Condividere contenuti con gli altri è una forma di «gestione della propria immagine». Dato che la condivisione è un modo di presentare se stessi e che, di solito, vogliamo apparire divertenti e positivi, tendiamo a selezionare clip divertenti, notizie confortanti e immagini carine. Si spiega così la presenza costante di video divertenti sui feed di Facebook.
Vi sono molti tipi di social network. Alcuni raccolgono persone che vogliono apparire politicamente impegnate o culturalmente sofisticate. Questo significa che vengono scambiati anche articoli seri e saggi profondi. In tutti questi network, però, sono le spinte a presentarsi agli altri che determinano quel che viene più ampiamente diffuso. Nell’era della viralità, la cultura — anche quella letteraria — è condizionata dall’interazione sociale. I contenuti culturali, più o meno sofisticati, rispondono all’immagine che vogliamo presentare agli altri. Quando la cultura si diffonde grazie alla condivisione, deve sempre superare il test delle singole personalità. Voglio essere il tipo di persona che condivide questo? Condividere è quindi un modo per vagliare e filtrare.
L’assorbimento della cultura letteraria nell’ambito dell’interazione sociale non ne determina la fine. Goodreads.com è una piattaforma per lettori, molti dei quali sono voraci, ambiziosi e sofisticati. Gli utenti presentano elenchi di libri che hanno letto, ricevono consigli e vedono quel che leggono i loro amici. Questo significa anche che le propensioni di uno o più critici importanti contano meno delle opinioni che si formano nelle reti di amici. Mentre guardiamo gli elenchi dei libri preferiti dagli altri e creiamo i nostri scaffali digitali, siamo anche impegnati in un gioco di mutua auto-rappresentazione.
Come c’è il selfie, l’autoscatto che inviamo, c’è anche lo shelfie (da shelf, scaffale), l’immagine della nostra libreria che condividiamo. Servono entrambi a cercare di influenzare la percezione degli altri. Come ha fatto notare la studiosa dei media Lisa Nakamura, Goodreads.com trasforma la lettura in una performance pubblica.
Si potrebbe obiettare che la letteratura e l’arte siano sempre state uno status symbol. Non compriamo forse Proust e parliamo di Wittgenstein e di Freud per mostrare di essere sofisticati? La nostra libreria non è sempre stata uno shelfie? La letteratura e l’arte non sono mai state solo profonde esperienze personali. Tutto questo è certamente vero, ma dobbiamo anche notare che la cultura della condivisione potrebbe essere più democratica e aperta alla partecipazione dei vecchi sistemi di diffusione, in cui si veniva informati e indirizzati da critici affermati e personalità influenti. Ora i lettori comunicano con i lettori, invece di essere catechizzati da autorità culturali. La cultura della condivisione è però anche una cultura di gestione della propria immagine e di affermazione del proprio status sociale.
I consigli di buoni romanzi o di saggi stimolanti diventeranno virali, si diffonderanno attraverso le reti digitali, se saranno adeguati all’immagine sociale che la gente vuole esibire. Ma che forma potrebbe avere una cultura completamente virale, in cui le storie che consumiamo fossero plasmate in modo sostanziale dal processo di condivisione? Penso spesso alle fiabe come a un possibile antecedente delle odierne pratiche di condivisione. Le fiabe non erano scritte da un genio solitario che si rivolgeva a un pubblico anonimo di lettori colti, ma storie interessanti che venivano trasmesse oralmente da una persona all’altra, un po’ come un virus. E che caratteristiche hanno? Le fiabe sono quasi sempre drammatiche — fanciulle innocenti in grave pericolo — ma grazie a eventi magici inattesi, tutto finisce bene, e così via. La dinamica della condivisione ha conformato le storie in modo che suscitino paura, collera, sollievo e gioia, perché sono le emozioni forti ad attivare l’impulso alla condivisione.
Sono anche storie impersonali: le narrazioni che sopravvivono viaggiando da una mente all’altra sono fatte per adattarsi a molte persone. Solo quelle che piacciono a molti vengono trasmesse. È probabile che una letteratura virale sarà molto drammatica e poco individualizzata. Le fiabe possono essere profonde, ma sono prive di sfumature; possono trasmettere insegnamenti, ma non sono personali.
(Traduzione di Maria Sepa)
«Corriere della Sera - suppl. La lettura» del 2 marzo 2014
Nessun commento:
Posta un commento