Il dibattito
di Roberto Carnero
Come cambia l’insegnamento del latino nella scuola della riforma Gelmini? Per legge sono state drasticamente ridotte le ore settimanali di questa materia un po’ in tutte le scuole (tranne che al liceo classico). Per molti questo è un male, un problema. Ma è anche vero che ogni cambiamento, se serve a ripensare lo statuto di una disciplina e le metodologie impiegate per trasmetterla, può anche determinare inaspettate evoluzioni positive. Peraltro la riforma ha rinominato la materia: da "Lettere latine" a "Lingua e cultura latina", evidenziando così il nesso tra lingua e civiltà. Ne discutiamo con alcuni esperti, soprattutto autori di manuali di latino per le scuole, dove forse mai come oggi si stanno sperimentando nuove soluzioni, anche grazie all’apporto delle tecnologie digitali applicate all’insegnamento.
Nicola Flocchini è, insieme con Piera Guidotti Bacci, l’autore del corso di latino più diffuso nei licei italiani, uscito in prima edizione nel 1991 col titolo Comprendere e tradurre (Bompiani Scuola, gruppo Rcs Education).
Con alle spalle una lunga carriera di professore e preside nei licei, ma anche di lettore di Lingua latina all’Università Cattolica di Milano, Nicola Flocchini ritiene che oggi si debba innanzitutto riscoprire le motivazioni allo studio di questa materia: «Dobbiamo trasmettere ai ragazzi un messaggio di fiducia e ottimismo, facendo capire ai nostri studenti che non stiamo imponendo loro una fatica inutile. È fin troppo ovvio ricordare che l’incontro col latino è l’incontro con le nostre radici. Ma direi soprattutto, nel contesto attuale, che la traduzione dal latino garantisce l’acquisizione di alcune competenze (scegliere i dati pertinenti, formulare ipotesi, fare inferenze, verificarle) che sono le stesse richieste dalla ricerca scientifica e dal problem solving. Lo studio della lingua di Cicerone insegna a gestire la complessità. Questa è una vera e propria emergenza educativa in un mondo sempre più complicato come il nostro, dove peraltro i ragazzi tendono a fuggire ciò che è difficile perché ne sono spaventati».
E il metodo? «Se puntiamo, come ci richiedono gli attuali programmi, alla traduzione dal latino, e non più a quella dall’italiano ormai da tempo abbandonata, l’insegnamento della grammatica, con tutto il peso delle varianti e delle eccezioni, può essere molto semplificato. Per questo i manuali vanno reimpostati, anche tenendo conto del minor tempo a disposizione. L’approccio più efficace è quello di partire da ciò che è noto, cioè l’italiano, proponendo ai ragazzi un confronto con le strutture del latino».
Piera Guidotti Bacci, anche lei docente di lungo corso nei licei, è d’accordo su questa esigenza di razionalizzare la didattica. «Il che però non significa – puntualizza – tagliare i contenuti in maniera indiscriminata. Una riduzione meramente quantitativa sarebbe una soluzione irrazionale. Si tratta di capire che alle diverse tipologie di scuola debbono corrispondere diversi metodi didattici: non possiamo pensare di lavorare allo stesso modo al classico e al linguistico (dove di latino si fanno soltanto due ore a settimana). Accanto alla classica traduzione, si possono proporre altri tipi di esercizi: ad esempio le domande di comprensione su un testo o l’analisi di un brano latino con traduzione a fronte».
Anche Ilaria Domenici (autrice per Paravia, gruppo Pearson, di un fortunato manuale dal titolo Id est, nonché di un nuovo libro di testo appena uscito, Monitor) punta molto sulla diversificazione delle attività: «Sfruttando le opportunità offerte dalle nuove tecnologie, nei miei libri propongo esercizi e giochi interattivi, anche con immagini e vignette, che vanno incontro alle modalità percettive dei nativi digitali. Ma ovviamente la tecnologia non è tutto. Si tratta, prima ancora, di capire che come insegnanti non possiamo dare più nulla per scontato. Poiché sempre più spesso ci capita di trovare allarmante la povertà lessicale dei nostri studenti, proprio una disciplina come il latino può servire ad ampliare il loro bagaglio linguistico. In altre parole, lo studio del latino non può più essere considerato fine a se stesso, ma va condotto in parallelo a quello dell’italiano e delle lingue straniere».
Concorda Raffaella Tabacco, professore ordinario di Letteratura latina e direttrice del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Piemonte Orientale, che vanta una lunga esperienza di formazione degli insegnanti della scuola secondaria: «Andrebbe superata l’eccessiva grammaticalizzazione dello studio del latino. Quando ci si avvicina a una lingua straniera, la prima cosa che si impara è un certo numero di vocaboli di base, che aiutino a orientarsi nei diversi contesti comunicativi. Questo con il latino si fa molto poco, ritenendo, a torto, che il ricorso al vocabolario risolva ogni problema. Non è così; anzi, un uso scorretto del dizionario rischia di creare più difficoltà di quante ne elimini. Ovviamente il latino è diverso da una lingua moderna e dunque l’attenzione alla grammatica deve rimanere fondamentale. Ma lessico e regole grammaticali andrebbero contemperate in un modello didattico meno rigido e stantio». Che è, in fondo, quanto chiedono anche i ragazzi.
Nicola Flocchini è, insieme con Piera Guidotti Bacci, l’autore del corso di latino più diffuso nei licei italiani, uscito in prima edizione nel 1991 col titolo Comprendere e tradurre (Bompiani Scuola, gruppo Rcs Education).
Con alle spalle una lunga carriera di professore e preside nei licei, ma anche di lettore di Lingua latina all’Università Cattolica di Milano, Nicola Flocchini ritiene che oggi si debba innanzitutto riscoprire le motivazioni allo studio di questa materia: «Dobbiamo trasmettere ai ragazzi un messaggio di fiducia e ottimismo, facendo capire ai nostri studenti che non stiamo imponendo loro una fatica inutile. È fin troppo ovvio ricordare che l’incontro col latino è l’incontro con le nostre radici. Ma direi soprattutto, nel contesto attuale, che la traduzione dal latino garantisce l’acquisizione di alcune competenze (scegliere i dati pertinenti, formulare ipotesi, fare inferenze, verificarle) che sono le stesse richieste dalla ricerca scientifica e dal problem solving. Lo studio della lingua di Cicerone insegna a gestire la complessità. Questa è una vera e propria emergenza educativa in un mondo sempre più complicato come il nostro, dove peraltro i ragazzi tendono a fuggire ciò che è difficile perché ne sono spaventati».
E il metodo? «Se puntiamo, come ci richiedono gli attuali programmi, alla traduzione dal latino, e non più a quella dall’italiano ormai da tempo abbandonata, l’insegnamento della grammatica, con tutto il peso delle varianti e delle eccezioni, può essere molto semplificato. Per questo i manuali vanno reimpostati, anche tenendo conto del minor tempo a disposizione. L’approccio più efficace è quello di partire da ciò che è noto, cioè l’italiano, proponendo ai ragazzi un confronto con le strutture del latino».
Piera Guidotti Bacci, anche lei docente di lungo corso nei licei, è d’accordo su questa esigenza di razionalizzare la didattica. «Il che però non significa – puntualizza – tagliare i contenuti in maniera indiscriminata. Una riduzione meramente quantitativa sarebbe una soluzione irrazionale. Si tratta di capire che alle diverse tipologie di scuola debbono corrispondere diversi metodi didattici: non possiamo pensare di lavorare allo stesso modo al classico e al linguistico (dove di latino si fanno soltanto due ore a settimana). Accanto alla classica traduzione, si possono proporre altri tipi di esercizi: ad esempio le domande di comprensione su un testo o l’analisi di un brano latino con traduzione a fronte».
Anche Ilaria Domenici (autrice per Paravia, gruppo Pearson, di un fortunato manuale dal titolo Id est, nonché di un nuovo libro di testo appena uscito, Monitor) punta molto sulla diversificazione delle attività: «Sfruttando le opportunità offerte dalle nuove tecnologie, nei miei libri propongo esercizi e giochi interattivi, anche con immagini e vignette, che vanno incontro alle modalità percettive dei nativi digitali. Ma ovviamente la tecnologia non è tutto. Si tratta, prima ancora, di capire che come insegnanti non possiamo dare più nulla per scontato. Poiché sempre più spesso ci capita di trovare allarmante la povertà lessicale dei nostri studenti, proprio una disciplina come il latino può servire ad ampliare il loro bagaglio linguistico. In altre parole, lo studio del latino non può più essere considerato fine a se stesso, ma va condotto in parallelo a quello dell’italiano e delle lingue straniere».
Concorda Raffaella Tabacco, professore ordinario di Letteratura latina e direttrice del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Piemonte Orientale, che vanta una lunga esperienza di formazione degli insegnanti della scuola secondaria: «Andrebbe superata l’eccessiva grammaticalizzazione dello studio del latino. Quando ci si avvicina a una lingua straniera, la prima cosa che si impara è un certo numero di vocaboli di base, che aiutino a orientarsi nei diversi contesti comunicativi. Questo con il latino si fa molto poco, ritenendo, a torto, che il ricorso al vocabolario risolva ogni problema. Non è così; anzi, un uso scorretto del dizionario rischia di creare più difficoltà di quante ne elimini. Ovviamente il latino è diverso da una lingua moderna e dunque l’attenzione alla grammatica deve rimanere fondamentale. Ma lessico e regole grammaticali andrebbero contemperate in un modello didattico meno rigido e stantio». Che è, in fondo, quanto chiedono anche i ragazzi.
«Avvenire» del 20 marzo 2014
Nessun commento:
Posta un commento