Neurologia: i dubbi su una scoperta letta troppo sbrigativamente, il libro dello scienziato sano che scoprì di avere una Tac da psicopatico
di Chiara Lalli
Spiegare la violenza esaminando il cervello Una pista promettente ma piena di rischi
Nei primi mesi di quest’anno è stata attribuita a un neurobiologo tedesco, Gerhard Roth, la scoperta della sede del male: una regione oscura nel «lobo centrale» del cervello di stupratori, assassini e altri criminali. La notizia ha avuto una certa diffusione e suscitato qualche apprensione nel mondo scientifico finché Roth, tramite un comunicato dell’Università di Brema, ha dovuto precisare di non aver mai identificato il lobo centrale come luogo in cui il male si forma e si nasconde. «Un simile lobo non esiste», si legge nella nota successiva (la suddivisione classica del cervello è nei lobi frontale, parietale, temporale e occipitale) e la notizia della «macchia cerebrale» è risultata un fraintendimento. Tuttavia a questo punto si è accesa una nuova attenzione sulle ricerche che riguardano le relazioni tra cervello e comportamenti umani.
Roth e il suo gruppo di ricerca studiano proprio la possibile connessione tra il comportamento e lo sviluppo del cervello. L’attenzione è rivolta soprattutto a capire se e in che modo traumi precoci possano costituire un fattore determinante nella condotta violenta. Tipologie diverse di comportamento potrebbero essere correlate a disturbi funzionali di alcuni centri del sistema limbico, tra cui la corteccia orbitofrontale. Esistono molte altre ricerche che suggeriscono che il cervello criminale sia diverso da quello non criminale, ma c’è un margine interpretativo nebbioso. A parte gli errori più grossolani, bisogna fare attenzione a non confondere correlazioni e nessi causali, predisposizioni e destini ineluttabili. Soprattutto quando ci si muove su terreni in continua evoluzione e che richiedono una semplificazione destinata ai non esperti. Ma anche agli esperti può accadere di confondersi. O di doversi misurare con situazioni sorprendenti quanto imbarazzanti.
Siamo nel 2005 quando il neuroscienziato James Fallon studia le scansioni cerebrali di alcuni psicopatici. Non è solo il loro passato violento a renderli così diversi da chi non s’è mai spinto più in là di una risposta sgarbata o di un’aggressività contenuta, addomesticata con l’età adulta. Quell’abisso, simile a quello tra chi ha ucciso e chi no, che Georges Simenon racconta in Lettera al mio giudice, emerge anche dal confronto dei cervelli.
Da molti anni Fallon cerca le radici del male, cioè una spiegazione neuroscientifica al comportamento feroce e criminale. Ha notato che nei soggetti con comportamenti molto aggressivi ricorre una caratteristica comune: una scarsa funzionalità in un’area dei lobi frontali e temporali. Niente di strano, perché la riduzione di attività cerebrale in queste zone suggerisce un difetto di ragionamento morale e una scarsa capacità di contenere gli impulsi. Contemporaneamente Fallon indaga l’Alzheimer e le sue correlazioni genetiche. Ha sottoposto alcuni pazienti a esami genetici e a scansioni cerebrali. Come gruppo di controllo usa i suoi familiari e il suo stesso cervello, le cui immagini sistema sotto a quelle degli individui affetti dalla patologia.
In fondo alla pila di lastre ne vede una con le caratteristiche da psicopatico (abnormal). Fallon pensa che sia finita lì tra l’Alzheimer per sbaglio. Controlla. Nessuno sbaglio dovuto al disordine, quella scansione non arriva dal gruppo degli psicopatici. L’identità dell’uomo della scansione è talmente sconvolgente che Fallon pensa che si sia rotta la macchina. Il tecnico di laboratorio controlla lo scanner. Nessun errore, nessuna confusione: è lui, James Fallon. Uno psicopatico, con quell’area cerebrale troppo angusta per contenere empatia e emozioni, gli ingredienti del comportarsi bene. Eppure lui è una brava persona. A parte qualche fissazione e qualche narcisistica manifestazione di promesse non mantenute, nessuno avrebbe sospettato che nel suo cervello si annidasse il male. O la sua correlazione neurologica.
Fallon non si nasconde e non omette la sua scoperta. Il suo cervello è paurosamente simile a quello di un serial killer — non solo, scopre di avere il gene correlato al comportamento violento. Come può un uomo «buono» avere un cervello tanto «cattivo»? Fallon racconta la sua storia in un libro uscito a fine ottobre The Psychopath Inside («Lo psicopatico dentro», Penguin), riformulando in chiave neuroscientifica le domande sul male che ci poniamo da secoli. Prima di quella scansione, Fallon attribuiva alla genetica l’80 per cento del destino personale. Dopo, se l’è dovuta vedere con un’eccezione formidabile, e con la conseguente necessità di ripercorrere concetti come male, psicopatia, responsabilità. Il caso Fallon potrebbe essere considerato come un ennesimo sintomo della complessità del comportamento umano, della difficoltà di indicare le condizioni neurologiche sufficienti e necessarie della violenza. Non basta un cervello da cattivo a renderci cattivi insomma, perché il nostro comportamento non è un mero riflesso condizionato neurologico. Ogni scoperta neuroscientifica ci consegna un tassello per capire meglio il funzionamento del cervello, a patto di non trasformarlo in una caricatura, in una versione poco più presentabile della lettura della mano o di una ben lucidata sfera di cristallo.
Roth e il suo gruppo di ricerca studiano proprio la possibile connessione tra il comportamento e lo sviluppo del cervello. L’attenzione è rivolta soprattutto a capire se e in che modo traumi precoci possano costituire un fattore determinante nella condotta violenta. Tipologie diverse di comportamento potrebbero essere correlate a disturbi funzionali di alcuni centri del sistema limbico, tra cui la corteccia orbitofrontale. Esistono molte altre ricerche che suggeriscono che il cervello criminale sia diverso da quello non criminale, ma c’è un margine interpretativo nebbioso. A parte gli errori più grossolani, bisogna fare attenzione a non confondere correlazioni e nessi causali, predisposizioni e destini ineluttabili. Soprattutto quando ci si muove su terreni in continua evoluzione e che richiedono una semplificazione destinata ai non esperti. Ma anche agli esperti può accadere di confondersi. O di doversi misurare con situazioni sorprendenti quanto imbarazzanti.
Siamo nel 2005 quando il neuroscienziato James Fallon studia le scansioni cerebrali di alcuni psicopatici. Non è solo il loro passato violento a renderli così diversi da chi non s’è mai spinto più in là di una risposta sgarbata o di un’aggressività contenuta, addomesticata con l’età adulta. Quell’abisso, simile a quello tra chi ha ucciso e chi no, che Georges Simenon racconta in Lettera al mio giudice, emerge anche dal confronto dei cervelli.
Da molti anni Fallon cerca le radici del male, cioè una spiegazione neuroscientifica al comportamento feroce e criminale. Ha notato che nei soggetti con comportamenti molto aggressivi ricorre una caratteristica comune: una scarsa funzionalità in un’area dei lobi frontali e temporali. Niente di strano, perché la riduzione di attività cerebrale in queste zone suggerisce un difetto di ragionamento morale e una scarsa capacità di contenere gli impulsi. Contemporaneamente Fallon indaga l’Alzheimer e le sue correlazioni genetiche. Ha sottoposto alcuni pazienti a esami genetici e a scansioni cerebrali. Come gruppo di controllo usa i suoi familiari e il suo stesso cervello, le cui immagini sistema sotto a quelle degli individui affetti dalla patologia.
In fondo alla pila di lastre ne vede una con le caratteristiche da psicopatico (abnormal). Fallon pensa che sia finita lì tra l’Alzheimer per sbaglio. Controlla. Nessuno sbaglio dovuto al disordine, quella scansione non arriva dal gruppo degli psicopatici. L’identità dell’uomo della scansione è talmente sconvolgente che Fallon pensa che si sia rotta la macchina. Il tecnico di laboratorio controlla lo scanner. Nessun errore, nessuna confusione: è lui, James Fallon. Uno psicopatico, con quell’area cerebrale troppo angusta per contenere empatia e emozioni, gli ingredienti del comportarsi bene. Eppure lui è una brava persona. A parte qualche fissazione e qualche narcisistica manifestazione di promesse non mantenute, nessuno avrebbe sospettato che nel suo cervello si annidasse il male. O la sua correlazione neurologica.
Fallon non si nasconde e non omette la sua scoperta. Il suo cervello è paurosamente simile a quello di un serial killer — non solo, scopre di avere il gene correlato al comportamento violento. Come può un uomo «buono» avere un cervello tanto «cattivo»? Fallon racconta la sua storia in un libro uscito a fine ottobre The Psychopath Inside («Lo psicopatico dentro», Penguin), riformulando in chiave neuroscientifica le domande sul male che ci poniamo da secoli. Prima di quella scansione, Fallon attribuiva alla genetica l’80 per cento del destino personale. Dopo, se l’è dovuta vedere con un’eccezione formidabile, e con la conseguente necessità di ripercorrere concetti come male, psicopatia, responsabilità. Il caso Fallon potrebbe essere considerato come un ennesimo sintomo della complessità del comportamento umano, della difficoltà di indicare le condizioni neurologiche sufficienti e necessarie della violenza. Non basta un cervello da cattivo a renderci cattivi insomma, perché il nostro comportamento non è un mero riflesso condizionato neurologico. Ogni scoperta neuroscientifica ci consegna un tassello per capire meglio il funzionamento del cervello, a patto di non trasformarlo in una caricatura, in una versione poco più presentabile della lettura della mano o di una ben lucidata sfera di cristallo.
«Corriere della Sera - suppl. La lettura» del 1 dicembre 2013
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