Passione e ideologia
di Pierluigi Battista
Il libro di Francesco Piccolo esalta la Buona Causa. Ma ricordo che dalla parte «giusta» stava Craxi, non il Pci
Ognuno di noi conserva il ricordo della partita del cuore, la partita della svolta in cui la passione sportiva si è mescolata e fusa con quella esistenziale della politica. La mia è stata la sfida di hockey sul ghiaccio tra Unione Sovietica e Cecoslovacchia del 21 marzo 1969. Il giovane Jan Palach si era appena bruciato nella Praga occupata dai carri armati del Patto di Varsavia, e sentire dagli spalti del pubblico di Stoccolma il grido rabbioso e commovente «Dubcek Dubcek» straziò il cuore del giovane e sconsiderato estremista che ero. E lo rese per sempre anticomunista. La svolta politica di Francesco Piccolo invece, lo racconta nel suo bellissimo Il desiderio di essere come tutti (Einaudi), coincide con il settantottesimo minuto della partita di calcio Germania Ovest contro Germania Est nei Mondiali del ‘74, quando il piccolo Piccolo, accanto e contro il padre di destra che tifava per i tedeschi occidentali, esultò quando Jürgen Sparwasser della Ddr segnò il gol che riscattava i poveri ragazzi infagottati nelle modeste «maglie azzurre con lo scollo a V bianco ». Avevano vinto i deboli, erano stati sconfitti i forti e ricchi prepotenti dell’Ovest.
Fu allora che Francesco Piccolo consumò il suo parricidio simbolico. Fu allora che Francesco Piccolo diventò «davvero comunista». Esattamente l’opposto di quanto era accaduto a me. Per me la Ddr incarnava un regime mostruoso, una caserma oppressiva che aveva spinto fino alla perfezione la sua vocazione poliziesca, il cui simbolo erano i VoPos che dall’alto delle torrette sparavano senza pietà a chi scappava nei modi più avventurosi da quello Stato-prigione, come è ancora documentato nel museo situato a Berlino a pochi passi dal Checkpoint Charlie. Per questo mi commossero di più tutti quei giovani entusiasti e ancora increduli che un po’ di anni dopo avrebbero buttato giù a picconate il Muro, mentre Mstislav Rostropovic celebrava con il suo sublime violoncello la fine dell’arroganza totalitaria che lo aveva tirato su.
Questo per dire a Piccolo che i ricordi che formano il tessuto di un’esperienza umana ed emotiva destinata a intrecciarsi con le vicende della politica sono vari e spesso contrastanti tra loro, e non solo nel senso più banalmente anagrafico-generazionale (tra me e lui corrono nove anni di differenza, a mio sfavore). Il suo libro racconta meravigliosamente l’andirivieni contraddittorio di emozioni e sentimenti tra la storia molto personale di un ragazzo borghese nato a Caserta nel ’64 e la storia «grande e terribile», per dirla con Kipling, che lo scaraventa fuori del cortile di casa, e gli fa sentire la morsa di un destino comune condiviso con il resto dell’umanità.
Con Il desiderio di essere come tutti Piccolo si conferma lo strepitoso scrittore che conoscevamo. Basterebbero le pagine sul colera e sul terremoto per dimostrarlo, o quelle sul primo amore che muore nel giorno di San Valentino, per colpa del militantismo ideologico e di un orribile pacchetto in rosa che una commessa sdolcinata aveva confezionato per il regalo d’amore (rifiutato). Però nel libro si parla di Berlinguer, di Craxi, di Moro, del compromesso storico, del berlusconismo, dell’antiberlusconismo come altrettanti momenti della maturazione politica di uno scrittore che sa guardarsi dentro con il dono raro dell’ironia.
E dunque non è infondato rileggere questo romanzo anche dal punto di vista politico. È vero: Piccolo sostiene una posizione molto coraggiosamente minoritaria. Berlingueriano per scelta, non ignora la debolezza di una sinistra in cui «ogni sconfitta politica», dalla Prima alla Seconda Repubblica, «diventa un rafforzativo delle proprie idee. Una conferma che il mondo è corrotto e che il progresso è malato. Una conferma che le persone giuste e i pensieri giusti sono minoranza, fanno parte di un mondo altro, che non comunica più con il Paese, perché il resto del Paese, impuro e corrotto, si è perduto». È vero, Piccolo addirittura accosta, parlando della sinistra, due aggettivi che, affiancati, suonano come una bestemmia per i sacerdoti della superiorità antropologica della sinistra: «puri e reazionari». È vero, le corrucciate e arcigne vestali dei «pensieri giusti» hanno già provveduto a bacchettare il reprobo Piccolo, come è accaduto sulle colonne del «Fatto Quotidiano».
Però, forse è proprio sbagliato dare per scontato che la parte «giusta» sia stata quella cantata e sferzata al contempo da Piccolo. Piccolo più volte dice di sentirsi affine al Robert Redford che in Come eravamo, incontrando Barbra Streisand ancora impegnata dopo tanti anni a testimoniare qualche Buona Causa, le dice con ammirazione affettuosa: «Tu non molli mai, eh». La citazione significa due cose. Che Piccolo-Redford si sente un po’ in colpa. E che la militante Streisand, pur prigioniera di una purezza politicamente inconcludente, è migliore di chi si rassegna, di chi «molla», di chi non è all’altezza della sua integrità: «Tu non molli mai». Ecco, forse questo implicito presupposto di Piccolo che innerva tutte le pagine del romanzo, non è poi così scontato. Scrive che nei funerali di Berlinguer si riconobbero «tutti». Non è vero: i comunisti erano un terzo degli italiani, gli altri due terzi si commossero per la morte di Berlinguer, ma non per questo sentivano di ammettere la «superiorità» etica del partito di Berlinguer. Dalla parte «giusta» sulla scala mobile, poi, era Craxi, non Berlinguer.
Dalla parte «giusta» sulla trattativa per salvare la vita di Moro c’era Craxi, non Berlinguer. Dalla parte «giusta» del riformismo moderno era Craxi, non il partito berlingueriano in cui «riformista» e «socialdemocratico» erano parolacce e al massimo, pudicamente e ipocritamente, si poteva dire «riformatore». Sulle riforme istituzionali dalla parte «giusta» era Craxi, con un po’ di anticipo, e non chi gridava al golpe anticostituzionale. E sul finanziamento illecito non c’erano partiti puri e partiti impuri, malgrado le unilateralità e gli strabismi delle «narrazioni» successive. O almeno, così ricordo, anche se alla memoria, come al cuore, non si comanda. Al massimo la si può restituire nei suoi aspetti più vividi, compito nel quale Il desiderio di essere come tutti di Piccolo riesce magnificamente.
Fu allora che Francesco Piccolo consumò il suo parricidio simbolico. Fu allora che Francesco Piccolo diventò «davvero comunista». Esattamente l’opposto di quanto era accaduto a me. Per me la Ddr incarnava un regime mostruoso, una caserma oppressiva che aveva spinto fino alla perfezione la sua vocazione poliziesca, il cui simbolo erano i VoPos che dall’alto delle torrette sparavano senza pietà a chi scappava nei modi più avventurosi da quello Stato-prigione, come è ancora documentato nel museo situato a Berlino a pochi passi dal Checkpoint Charlie. Per questo mi commossero di più tutti quei giovani entusiasti e ancora increduli che un po’ di anni dopo avrebbero buttato giù a picconate il Muro, mentre Mstislav Rostropovic celebrava con il suo sublime violoncello la fine dell’arroganza totalitaria che lo aveva tirato su.
Questo per dire a Piccolo che i ricordi che formano il tessuto di un’esperienza umana ed emotiva destinata a intrecciarsi con le vicende della politica sono vari e spesso contrastanti tra loro, e non solo nel senso più banalmente anagrafico-generazionale (tra me e lui corrono nove anni di differenza, a mio sfavore). Il suo libro racconta meravigliosamente l’andirivieni contraddittorio di emozioni e sentimenti tra la storia molto personale di un ragazzo borghese nato a Caserta nel ’64 e la storia «grande e terribile», per dirla con Kipling, che lo scaraventa fuori del cortile di casa, e gli fa sentire la morsa di un destino comune condiviso con il resto dell’umanità.
Con Il desiderio di essere come tutti Piccolo si conferma lo strepitoso scrittore che conoscevamo. Basterebbero le pagine sul colera e sul terremoto per dimostrarlo, o quelle sul primo amore che muore nel giorno di San Valentino, per colpa del militantismo ideologico e di un orribile pacchetto in rosa che una commessa sdolcinata aveva confezionato per il regalo d’amore (rifiutato). Però nel libro si parla di Berlinguer, di Craxi, di Moro, del compromesso storico, del berlusconismo, dell’antiberlusconismo come altrettanti momenti della maturazione politica di uno scrittore che sa guardarsi dentro con il dono raro dell’ironia.
E dunque non è infondato rileggere questo romanzo anche dal punto di vista politico. È vero: Piccolo sostiene una posizione molto coraggiosamente minoritaria. Berlingueriano per scelta, non ignora la debolezza di una sinistra in cui «ogni sconfitta politica», dalla Prima alla Seconda Repubblica, «diventa un rafforzativo delle proprie idee. Una conferma che il mondo è corrotto e che il progresso è malato. Una conferma che le persone giuste e i pensieri giusti sono minoranza, fanno parte di un mondo altro, che non comunica più con il Paese, perché il resto del Paese, impuro e corrotto, si è perduto». È vero, Piccolo addirittura accosta, parlando della sinistra, due aggettivi che, affiancati, suonano come una bestemmia per i sacerdoti della superiorità antropologica della sinistra: «puri e reazionari». È vero, le corrucciate e arcigne vestali dei «pensieri giusti» hanno già provveduto a bacchettare il reprobo Piccolo, come è accaduto sulle colonne del «Fatto Quotidiano».
Però, forse è proprio sbagliato dare per scontato che la parte «giusta» sia stata quella cantata e sferzata al contempo da Piccolo. Piccolo più volte dice di sentirsi affine al Robert Redford che in Come eravamo, incontrando Barbra Streisand ancora impegnata dopo tanti anni a testimoniare qualche Buona Causa, le dice con ammirazione affettuosa: «Tu non molli mai, eh». La citazione significa due cose. Che Piccolo-Redford si sente un po’ in colpa. E che la militante Streisand, pur prigioniera di una purezza politicamente inconcludente, è migliore di chi si rassegna, di chi «molla», di chi non è all’altezza della sua integrità: «Tu non molli mai». Ecco, forse questo implicito presupposto di Piccolo che innerva tutte le pagine del romanzo, non è poi così scontato. Scrive che nei funerali di Berlinguer si riconobbero «tutti». Non è vero: i comunisti erano un terzo degli italiani, gli altri due terzi si commossero per la morte di Berlinguer, ma non per questo sentivano di ammettere la «superiorità» etica del partito di Berlinguer. Dalla parte «giusta» sulla scala mobile, poi, era Craxi, non Berlinguer.
Dalla parte «giusta» sulla trattativa per salvare la vita di Moro c’era Craxi, non Berlinguer. Dalla parte «giusta» del riformismo moderno era Craxi, non il partito berlingueriano in cui «riformista» e «socialdemocratico» erano parolacce e al massimo, pudicamente e ipocritamente, si poteva dire «riformatore». Sulle riforme istituzionali dalla parte «giusta» era Craxi, con un po’ di anticipo, e non chi gridava al golpe anticostituzionale. E sul finanziamento illecito non c’erano partiti puri e partiti impuri, malgrado le unilateralità e gli strabismi delle «narrazioni» successive. O almeno, così ricordo, anche se alla memoria, come al cuore, non si comanda. Al massimo la si può restituire nei suoi aspetti più vividi, compito nel quale Il desiderio di essere come tutti di Piccolo riesce magnificamente.
«Corriere della Sera - suppl. La lettura» del 1 dicembre 2013
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