Incompiute d’Italia
di Gianna Fregonara e Orsola Riva
Le ipotesi di riforma frenate dalla politica
Farebbe la felicità dei ragazzi e, secondo una parte consistente di pedagogisti ed esperti, anche il loro bene. Sarebbe una boccata d’ossigeno per le casse dello Stato: risparmio stimato, tre miliardi. Piace ai professori universitari e agli imprenditori. Contrari «senza se e senza ma» i sindacati degli insegnanti. I ministri dell’Istruzione da dieci anni a questa parte sono personalmente favorevoli, ma il dibattito politico è fermo da quando, nel 2001, fu sotterrata la riforma Berlinguer. Stiamo parlando di uscire da scuola un anno prima, a 18 invece che a 19 anni: in linea con gli altri Paesi europei e con gli Stati Uniti, nonché con il gigante cinese. Il modo più semplice sarebbe tagliare un anno di superiori. Finora il liceo di 4 anni è stato avviato a livello sperimentale solo da alcune scuole paritarie lombarde con l’ok del ministero. Visitando il liceo Guido Carli di Brescia il ministro competente, Maria Chiara Carrozza, ha detto che, se ci fosse stata questa possibilità ai suoi tempi, lei avrebbe volentieri «studiato in una scuola come questa». Alcuni presidi di licei e istituti tecnici statali, da Verona a Bari, l’hanno presa in parola: dall’anno prossimo la secondaria superiore di 4 anni parte anche nelle scuole pubbliche.
In realtà, la rimodulazione dei cicli scolastici era diventata legge già nel 2000 (legge n. 30), ministro Luigi Berlinguer: le superiori rimanevano di 5 anni, ma medie ed elementari erano accorpate in un ciclo unico di 7 anni. La riforma fu seppellita da Letizia Moratti, arrivata a viale Trastevere nel 2001. Nemmeno la Gelmini volle esercitare le sue forbici sul percorso dalle elementari alle superiori. L’ultimo a esprimersi a favore di una riduzione del curriculum dei liceali è stato Francesco Profumo, che lo aveva indicato tra le priorità del 2013. Ma le forze politiche su questo tema sono in difficoltà, perché, come dimostra anche il destino della riforma Berlinguer, i sindacati fanno muro sulla riduzione di un anno, temendo il taglio degli insegnanti: «In questo momento non ci sono le condizioni, prima servono investimenti per la scuola», è la riposta della Flc-Cgil. Non è un caso che nei programmi dei partiti non si parli della riduzione da 13 a 12 anni del percorso scolastico, ma tutt’al più, nel programma del Pdl, si trovi l’anticipo a 5 anni della scuola elementare: un modo per raggiungere l’obiettivo del diploma a 18 anni aggirandone i costi politici.
Fuori dai nostri confini ci sono altri Paesi, per la verità non molti, in cui la scuola inizia un anno prima: l’Inghilterra con Malta e Cipro, e l’Irlanda del Nord, dove addirittura si incomincia a 4 anni (gli Stati Uniti, invece, partono dai 6 come noi; idem la Francia, il Belgio, la Spagna, la Germania, l’Austria). Ma quest’ipotesi non incontra il favore dei pedagogisti. Spiega Susanna Mantovani, professore ordinario di Pedagogia generale alla Bicocca di Milano: «I Paesi che hanno i migliori risultati nei test Ocse, come per esempio la Finlandia, iniziano addirittura a 7 anni. E poi, avendo noi una buona scuola dell’infanzia, mi pare illogico tagliare un anno all’inizio del percorso scolastico solo perché il liceo in Italia è sacro». Luigi Berlinguer taglierebbe semmai l’ultimo anno di scuola elementare. O meglio: «Lo si potrebbe accorpare alla prima media — spiega a “la Lettura” l’autore dell’inapplicata riforma del 2000 — per un passaggio più morbido tra l’educazione primaria e quella secondaria-disciplinare. Ormai gli istituti comprensivi, dove elementari e medie si trovano anche fisicamente nello stesso posto, sono molti. Cinque scuole hanno chiesto questa sperimentazione, ma il ministero non ha dato il permesso».
La soluzione più a portata di mano resta quella di rivedere i programmi delle superiori e tagliare a fine percorso. Non solo perché, come spiega Mantovani, che per anni è stata contraria a questa ipotesi, ma ora ha cambiato idea, oggi «i ragazzi sono stufi, privi di motivazione e questo dimostra che il vecchio impianto gentiliano è affaticato». L’ultimo «dovrebbe diventare un anno di passaggio — suggerisce — in cui si esce dalla gabbia dei programmi per incominciare a nuotare da soli: si potrebbe anche pensare che chi è pronto si iscriva subito all’università». Per Andrea Gavosto della Fondazione Agnelli non è tanto questione di risparmi (per lo Stato) o di non perdere tempo nell’ingresso del mondo del lavoro: «Questo tema riguarda soprattutto i laureati, che si confrontano con i loro coetanei stranieri; molto meno invece i diplomati, che restano a lavorare in un ambito locale. E per i laureati i ritardi maggiori si accumulano all’università». Il punto è, secondo Gavosto, «che il nostro sistema distribuisce l’investimento sul capitale umano, cioè l’istruzione, in un modo che funzionava 50 anni fa. Oggi i ragazzi nell’ultimo anno di superiori si annoiano: vorrebbero andare all’estero e invece sono lì bloccati. Sarebbe molto più utile riservare un anno di istruzione o formazione da poter usare durante l’esperienza lavorativa, sul modello anglosassone o scandinavo dei prestiti di onore».
Qualche esperimento di anticipare l’università al quinto anno di scuola superiore è in corso. Quello di Ca’ Foscari per esempio: in tre licei veneti durante l’ultimo anno si può frequentare anche un corso universitario. Chi passa l’esame ha un credito per l’anno successivo, insomma un esame fatto. Anche vista dal mondo accademico infatti, la riduzione del curriculum scolastico è necessaria. «È dimostrato — spiega Alberto De Toni, rettore dell’Università di Udine e responsabile istruzione e alta formazione della Conferenza dei rettori — che la divisione del percorso in due cicli diminuisce la dispersione scolastica e dunque il sistema 7+5 sarebbe più utile per gli studenti e le famiglie. In Italia viviamo poi anche il paradosso che, essendo l’istruzione obbligatoria fino a 16 anni e ricevendo invece i ragazzi la qualifica degli istituti professionali a 17, almeno il 20% dei ragazzi dei professionali lascia prima di ricevere la qualifica, alla fine del secondo anno. Se iniziassero un anno prima, a 16 anni potrebbero avere il diploma. Ridurre di un anno il curriculum scolastico poi è un bel risparmio anche sociale e per le famiglie e a 21 anni avremmo dei laureati (laurea breve) come nel resto d’Europa».
Oltreconfine gli ultimi a passare da 13 a 12 anni di scuola sono stati i tedeschi. I Land hanno avviato in ordine sparso una (contestata) riforma che accorcia il percorso del cosiddetto Gymnasium (medie più liceo), portandolo da 9 a 8 anni. Ma i programmi sono rimasti gli stessi ed è aumentato il carico orario (e lo stress) per i ragazzi. Di qui, le critiche. In Francia la scuola dell’obbligo dura 11 anni (5 di elementari, 4 di medie, 2 di liceo), che diventano 12 per chi vuole fare l’università: in quel caso è necessario passare l’esame di maturità (il Baccalauréat) che si consegue solo al termine del terzo anno di liceo (a 17-18 anni). Gli inglesi cominciano un anno prima, a 5 anni, ma la loro lower school (le elementari) dura un anno in più (6 in tutto). A undici anni passano all’upper school, divisa in 3 anni di scuola media e due di liceo, alla fine dei quali c’è il Gcse, l’esame che conclude la scuola dell’obbligo (a 16 anni). Seguono due anni di specializzazione pre-universitaria, dove si studiano solo 3-4 materie, e che si concludono a 18 anni. Infine gli americani: 12 anni di scuola dell’obbligo divisi tra elementari (5), medie (3) e liceo (4), ma l’ordinamento federale è molto poco vincolante. A parte l’età minima di 16 anni, tutto il resto (inizio del percorso accademico, programmi, insegnanti, finanziamento) lo decidono i board dei distretti scolastici, che hanno l’autonomia assoluta impensabile nei Paesi europei: per esempio in Kansas e in altri Stati della Bible Belt, la fascia di più intensa presenza di cristiani evangelici, le scuole non insegnano la teoria dell’evoluzione di Darwin perché confligge con il creazionismo.
Senza arrivare a questi estremi, riscrivere i programmi e rimodulare la scuola in Italia forse sarebbe a portata di mano. Anche perché, a sentire Alberto De Toni, l’occasione per «internazionalizzare» il curriculum scolastico senza provocare sconquassi tra gli insegnanti ora ci sarebbe: «Se si arrivasse a ridurre il liceo a quattro anni — spiega De Toni — gli insegnanti in esubero potrebbero utilmente essere chiamati a insegnare negli Its, gli Istituti tecnici superiori ad alta specializzazione tecnologica, creati con la riforma Gelmini e partiti tra gli stenti (formano non più di 5 mila studenti) e senza fondi, che invece avrebbero bisogno di moltiplicare i posti per i ragazzi».
Contrario è Raffaele Mantegazza, docente di Pedagogia generale e sociale alla Bicocca, che però rivoluzionerebbe l’intero ciclo di studi, cambiando quello che oggi è considerato il buco nero della scuola italiana, le medie, per farne invece il fulcro del percorso. «Partiamo dai bisogni dei ragazzi: manca una scuola della preadolescenza che aiuti i teenager a elaborare il periodo dagli 11-12 anni ai 15-16. Caricare su un tredicenne (e sui suoi genitori) il peso della scelta del proprio destino è sbagliato: come si fa, a quell’età, a scegliere il liceo coreutico o lo sportivo?». L’idea è dunque quella di un primo ciclo di cinque o sei anni; poi quattro anni di media unica con latino per tutti «perché aiuta a ragionare e a imparare l’italiano». Infine i tre anni di superiori: «Penso a un modello flessibile in cui si fanno delle ore di scuola, degli stage in azienda, magari anche un mese all’estero e si comincia anche a frequentare l’università». Ma così si va troppo lontano: una riforma che toccasse tutti gli ordini di scuola difficilmente uscirebbe intatta dal Parlamento.
In realtà, la rimodulazione dei cicli scolastici era diventata legge già nel 2000 (legge n. 30), ministro Luigi Berlinguer: le superiori rimanevano di 5 anni, ma medie ed elementari erano accorpate in un ciclo unico di 7 anni. La riforma fu seppellita da Letizia Moratti, arrivata a viale Trastevere nel 2001. Nemmeno la Gelmini volle esercitare le sue forbici sul percorso dalle elementari alle superiori. L’ultimo a esprimersi a favore di una riduzione del curriculum dei liceali è stato Francesco Profumo, che lo aveva indicato tra le priorità del 2013. Ma le forze politiche su questo tema sono in difficoltà, perché, come dimostra anche il destino della riforma Berlinguer, i sindacati fanno muro sulla riduzione di un anno, temendo il taglio degli insegnanti: «In questo momento non ci sono le condizioni, prima servono investimenti per la scuola», è la riposta della Flc-Cgil. Non è un caso che nei programmi dei partiti non si parli della riduzione da 13 a 12 anni del percorso scolastico, ma tutt’al più, nel programma del Pdl, si trovi l’anticipo a 5 anni della scuola elementare: un modo per raggiungere l’obiettivo del diploma a 18 anni aggirandone i costi politici.
Fuori dai nostri confini ci sono altri Paesi, per la verità non molti, in cui la scuola inizia un anno prima: l’Inghilterra con Malta e Cipro, e l’Irlanda del Nord, dove addirittura si incomincia a 4 anni (gli Stati Uniti, invece, partono dai 6 come noi; idem la Francia, il Belgio, la Spagna, la Germania, l’Austria). Ma quest’ipotesi non incontra il favore dei pedagogisti. Spiega Susanna Mantovani, professore ordinario di Pedagogia generale alla Bicocca di Milano: «I Paesi che hanno i migliori risultati nei test Ocse, come per esempio la Finlandia, iniziano addirittura a 7 anni. E poi, avendo noi una buona scuola dell’infanzia, mi pare illogico tagliare un anno all’inizio del percorso scolastico solo perché il liceo in Italia è sacro». Luigi Berlinguer taglierebbe semmai l’ultimo anno di scuola elementare. O meglio: «Lo si potrebbe accorpare alla prima media — spiega a “la Lettura” l’autore dell’inapplicata riforma del 2000 — per un passaggio più morbido tra l’educazione primaria e quella secondaria-disciplinare. Ormai gli istituti comprensivi, dove elementari e medie si trovano anche fisicamente nello stesso posto, sono molti. Cinque scuole hanno chiesto questa sperimentazione, ma il ministero non ha dato il permesso».
La soluzione più a portata di mano resta quella di rivedere i programmi delle superiori e tagliare a fine percorso. Non solo perché, come spiega Mantovani, che per anni è stata contraria a questa ipotesi, ma ora ha cambiato idea, oggi «i ragazzi sono stufi, privi di motivazione e questo dimostra che il vecchio impianto gentiliano è affaticato». L’ultimo «dovrebbe diventare un anno di passaggio — suggerisce — in cui si esce dalla gabbia dei programmi per incominciare a nuotare da soli: si potrebbe anche pensare che chi è pronto si iscriva subito all’università». Per Andrea Gavosto della Fondazione Agnelli non è tanto questione di risparmi (per lo Stato) o di non perdere tempo nell’ingresso del mondo del lavoro: «Questo tema riguarda soprattutto i laureati, che si confrontano con i loro coetanei stranieri; molto meno invece i diplomati, che restano a lavorare in un ambito locale. E per i laureati i ritardi maggiori si accumulano all’università». Il punto è, secondo Gavosto, «che il nostro sistema distribuisce l’investimento sul capitale umano, cioè l’istruzione, in un modo che funzionava 50 anni fa. Oggi i ragazzi nell’ultimo anno di superiori si annoiano: vorrebbero andare all’estero e invece sono lì bloccati. Sarebbe molto più utile riservare un anno di istruzione o formazione da poter usare durante l’esperienza lavorativa, sul modello anglosassone o scandinavo dei prestiti di onore».
Qualche esperimento di anticipare l’università al quinto anno di scuola superiore è in corso. Quello di Ca’ Foscari per esempio: in tre licei veneti durante l’ultimo anno si può frequentare anche un corso universitario. Chi passa l’esame ha un credito per l’anno successivo, insomma un esame fatto. Anche vista dal mondo accademico infatti, la riduzione del curriculum scolastico è necessaria. «È dimostrato — spiega Alberto De Toni, rettore dell’Università di Udine e responsabile istruzione e alta formazione della Conferenza dei rettori — che la divisione del percorso in due cicli diminuisce la dispersione scolastica e dunque il sistema 7+5 sarebbe più utile per gli studenti e le famiglie. In Italia viviamo poi anche il paradosso che, essendo l’istruzione obbligatoria fino a 16 anni e ricevendo invece i ragazzi la qualifica degli istituti professionali a 17, almeno il 20% dei ragazzi dei professionali lascia prima di ricevere la qualifica, alla fine del secondo anno. Se iniziassero un anno prima, a 16 anni potrebbero avere il diploma. Ridurre di un anno il curriculum scolastico poi è un bel risparmio anche sociale e per le famiglie e a 21 anni avremmo dei laureati (laurea breve) come nel resto d’Europa».
Oltreconfine gli ultimi a passare da 13 a 12 anni di scuola sono stati i tedeschi. I Land hanno avviato in ordine sparso una (contestata) riforma che accorcia il percorso del cosiddetto Gymnasium (medie più liceo), portandolo da 9 a 8 anni. Ma i programmi sono rimasti gli stessi ed è aumentato il carico orario (e lo stress) per i ragazzi. Di qui, le critiche. In Francia la scuola dell’obbligo dura 11 anni (5 di elementari, 4 di medie, 2 di liceo), che diventano 12 per chi vuole fare l’università: in quel caso è necessario passare l’esame di maturità (il Baccalauréat) che si consegue solo al termine del terzo anno di liceo (a 17-18 anni). Gli inglesi cominciano un anno prima, a 5 anni, ma la loro lower school (le elementari) dura un anno in più (6 in tutto). A undici anni passano all’upper school, divisa in 3 anni di scuola media e due di liceo, alla fine dei quali c’è il Gcse, l’esame che conclude la scuola dell’obbligo (a 16 anni). Seguono due anni di specializzazione pre-universitaria, dove si studiano solo 3-4 materie, e che si concludono a 18 anni. Infine gli americani: 12 anni di scuola dell’obbligo divisi tra elementari (5), medie (3) e liceo (4), ma l’ordinamento federale è molto poco vincolante. A parte l’età minima di 16 anni, tutto il resto (inizio del percorso accademico, programmi, insegnanti, finanziamento) lo decidono i board dei distretti scolastici, che hanno l’autonomia assoluta impensabile nei Paesi europei: per esempio in Kansas e in altri Stati della Bible Belt, la fascia di più intensa presenza di cristiani evangelici, le scuole non insegnano la teoria dell’evoluzione di Darwin perché confligge con il creazionismo.
Senza arrivare a questi estremi, riscrivere i programmi e rimodulare la scuola in Italia forse sarebbe a portata di mano. Anche perché, a sentire Alberto De Toni, l’occasione per «internazionalizzare» il curriculum scolastico senza provocare sconquassi tra gli insegnanti ora ci sarebbe: «Se si arrivasse a ridurre il liceo a quattro anni — spiega De Toni — gli insegnanti in esubero potrebbero utilmente essere chiamati a insegnare negli Its, gli Istituti tecnici superiori ad alta specializzazione tecnologica, creati con la riforma Gelmini e partiti tra gli stenti (formano non più di 5 mila studenti) e senza fondi, che invece avrebbero bisogno di moltiplicare i posti per i ragazzi».
Contrario è Raffaele Mantegazza, docente di Pedagogia generale e sociale alla Bicocca, che però rivoluzionerebbe l’intero ciclo di studi, cambiando quello che oggi è considerato il buco nero della scuola italiana, le medie, per farne invece il fulcro del percorso. «Partiamo dai bisogni dei ragazzi: manca una scuola della preadolescenza che aiuti i teenager a elaborare il periodo dagli 11-12 anni ai 15-16. Caricare su un tredicenne (e sui suoi genitori) il peso della scelta del proprio destino è sbagliato: come si fa, a quell’età, a scegliere il liceo coreutico o lo sportivo?». L’idea è dunque quella di un primo ciclo di cinque o sei anni; poi quattro anni di media unica con latino per tutti «perché aiuta a ragionare e a imparare l’italiano». Infine i tre anni di superiori: «Penso a un modello flessibile in cui si fanno delle ore di scuola, degli stage in azienda, magari anche un mese all’estero e si comincia anche a frequentare l’università». Ma così si va troppo lontano: una riforma che toccasse tutti gli ordini di scuola difficilmente uscirebbe intatta dal Parlamento.
«Corriere della sera - suppl. La lettura» del 1 dicembre 2013
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