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I caratteri del particolarissimo sentimento amoroso cantato da Catullo nel suo liber vengono ricostruiti in questo lucido intervento di Alfonso Traina, che puntualizza l’importanza dei concetti di foedus e fides e l’antitesi tra amare e bene velle
di Alfonso Traina
Per il concetto di “passione amorosa” il latino non aveva un termine. Furor lo chiamerà l’augusteo Virgilio, condannandolo in Didone. Perché «la passione è distruttrice dell’ordine», è la rivalsa del privato sul politico, dell’individuale sul sociale, del principio di piacere sul principio di realtà. Impegnando la totalità dell’essere, rovescia la gerarchia dei valori: e questo la morale quiritaria non poteva permetterlo. Esorcizzava l’eros o integrandolo nella struttura sociale mediante il matrimonio, liberum quaesundum causa [1] - è il bonus amor del c. 61 -, o emarginandolo come sfogo sessuale con partners socialmente degradati, schiave e liberte (e incontrandosi in questo con la sapientia epicurea di Lucrezio). Le ragazze di cui s’innamorano i giovani della commedia sono cortigiane, che quasi sempre, per un provvidenziale “riconoscimento”, si riveleranno libere e potranno convolare a giuste nozze. L’etica della Palliata, che sarà valida ancora per Orazio, è incisa in un distico di Plauto: dum ted abstineas nupta, vidua, virgine, - iuventute et pueris liberis, ama quidlubet (Curc. 37 sg. : «purché lasci stare donne sposate, vedove, vergini- noi diremmo, o avremmo detto: ragazze di buona famiglia -, giovani e ragazzi liberi, ama chi ti pare e piace»). Già: ma Clodia non era né schiava né liberta; era una matrona, prima nupta poi vidua [2]. Il suo rapporto con Catullo, dal punto di vista della morale quiritaria, non avrebbe potuto definirsi che stupri consuetudo [3].
Catullo lo chiamava foedus o patto (76, 3; 87, 3; 109, 6): un termine della lingua politica e giuridica. Cicerone, evocando l’ombra del più celebre antenato di Clodia, Appio Claudio Cieco, gli fa rivolgere alla degenere nipote l’accusa: ideone ego pacem Pyrrhi diremi, ut tu amorum turpissimorum cotidie foedera ferires? (pro Cael. 34: “e io ho impedito che si patteggiasse con Pirro proprio perché tu ogni giorno stringessi patti di scandalosi amori?”). Se la metafora non nascesse dalla ripresa retorica di pacem, si direbbe quasi che Cicerone ritorce contro Clodia il linguaggio di Catullo. Ma il foedus catulliano conserva il suo legame etimologico con fides, fedeltà (due volte ad esso associata) e ne eredita l’intrinseca sacralità [4] aeternum sanctae foedus amicitiae (109, 1: “eterno patto di inviolabile affetto”). Questo vincolo morale, che impegna i due amanti a una fedeltà lunga quanto la vita (109, 5) e che il poeta affida alla garanzia degli dèi (109, 3), ci appare il surrogato di un altro vincolo, giuridico e religioso, che sarebbe potuto essere - Clodia era vedova - e che forse egli avrebbe voluto, il matrimonio. Nei versi del c. 68, rievocanti l’inizio del loro amore, sembra affiorare un rimpianto: nec tamen illa mihi dextra deducta paterna – fragrantem Assyrio venit odore domum (143 sg.: “ma lei non è venuta a me condotta per mano del padre, alla mia casa odorosa di profumi orientali”). Certo il tema nuziale è dominante nei carmina docta, addirittura a livello di genere letterario (i cc. 61 e 62 sono epitalami) [...]. E quando Catullo mette in bocca a Lesbia un giuramento di antica ascendenza letteraria (70, 1 sg.: Nulli se dicit mulier mea nubere malle - quam mihi, non si se Iuppiter ipse petat, “la mia donna afferma di non voler essere d’altri che mia, neppure se la corteggiasse Giove”), usa insolitamente il verbo del matrimonio, nubere, dove, svolgendo il medesimo topos, Meleagro aveva detto: stèrxein, “voler bene” (Anth. Pal. 5, 8, 3). Ancorando il suo legame con Lesbia alla sacralità della fides e del foedus, Catullo ricorreva alla più veneranda tradizione latina per dare un valore positivo, una legittimità psicologica a un rapporto che di quel codice etico-sociale era la più flagrante infrazione.
L’insistente appello alla fides non era immotivato. […] Ma una cosa è certa: Lesbia non ricambiò la “fedeltà” di Catullo. I rara furta, che il poeta si dice rassegnato a tollerare nel c. 68, 136, diventano i «trecento adulteri» dell’addio definitivo (11, 17 sg.), scritto nel medesimo metro saffico del c. 51. La conseguenza di questi «tradimenti» (72, 7: iniuria talis) fu una situazione conflittuale per il dissociarsi delle componenti sensuale e affettiva. Secoli di romanticismo ci hanno avvezzati a questo conflitto. Ma nel mondo antico esso era insolito, o almeno è insolita la lucidità e l’intensità con cui l’esprime Catullo. Al punto che il poeta ha dovuto «inventare» il lessico del suo amore (come ha fatto con foedus). Già nel c. 109 abbiamo incontrato fides determinata dal genitivo amicitiae, che abbiamo tradotto con «affetto». Nei cc. 72 e 75 la situazione conflittuale giunge a maturità espressiva attraverso una coppia di opposizioni semantiche: amare, uri contro diligere, bene velle. […] L’antitesi si scarnifica e si polarizza nell’ossimoro del c. 85, odi et amo, dove odi è l’equivalente positivo di non bene velle. Per superare questo conflitto, che gli inaridiva la gioia di vivere (76, 20 sgg.), Catullo chiese aiuto agli dèi, e li pregò di guarirlo (76, 25: ipse valere opto) in nome della sua pietas (76, 26). Che era mai questa pietas che ha fatto sorridere qualche moralista? Ce lo dice il v. 3 del medesimo carme: nec sanctam violasse fidem. Era la coscienza di non aver mai tradito il patto d’amore con Lesbia. Così Catullo scopre l’ambivalenza dell’eros e la fissa in una formula definitiva.
Note
1. liberum quaesundum causa: “per avere figli”; è la forma ufficiale del matrimonio romano.
2. vidua: “vedova”.
3. stupri consuetudo: “relazione illegittima”.
4. «fedeltà» ... sacralità: •esplicita nel c. 30, 11: si tu oblitus es, at di meminerunt, meminit Fides (“se tu lo hai dimenticato, se lo ricordano gli dei, se lo ricorda la Fides”). Virtù tipicamente romana: “sin dall’epoca più antica, la fides significa l’abbandono, al tempo stesso fiducioso e completo, di una persona a un’altra” (M. Meslin, L'uomo romano, trad. it., Milano 1981, p. 216). Aveva un tempio in Roma sin dal 250 a.C. e compare come dea già in Plauto e in Ennio. A questa fides Catullo si appella ripetutamente anche a proposito dell’amicizia».
Catullo lo chiamava foedus o patto (76, 3; 87, 3; 109, 6): un termine della lingua politica e giuridica. Cicerone, evocando l’ombra del più celebre antenato di Clodia, Appio Claudio Cieco, gli fa rivolgere alla degenere nipote l’accusa: ideone ego pacem Pyrrhi diremi, ut tu amorum turpissimorum cotidie foedera ferires? (pro Cael. 34: “e io ho impedito che si patteggiasse con Pirro proprio perché tu ogni giorno stringessi patti di scandalosi amori?”). Se la metafora non nascesse dalla ripresa retorica di pacem, si direbbe quasi che Cicerone ritorce contro Clodia il linguaggio di Catullo. Ma il foedus catulliano conserva il suo legame etimologico con fides, fedeltà (due volte ad esso associata) e ne eredita l’intrinseca sacralità [4] aeternum sanctae foedus amicitiae (109, 1: “eterno patto di inviolabile affetto”). Questo vincolo morale, che impegna i due amanti a una fedeltà lunga quanto la vita (109, 5) e che il poeta affida alla garanzia degli dèi (109, 3), ci appare il surrogato di un altro vincolo, giuridico e religioso, che sarebbe potuto essere - Clodia era vedova - e che forse egli avrebbe voluto, il matrimonio. Nei versi del c. 68, rievocanti l’inizio del loro amore, sembra affiorare un rimpianto: nec tamen illa mihi dextra deducta paterna – fragrantem Assyrio venit odore domum (143 sg.: “ma lei non è venuta a me condotta per mano del padre, alla mia casa odorosa di profumi orientali”). Certo il tema nuziale è dominante nei carmina docta, addirittura a livello di genere letterario (i cc. 61 e 62 sono epitalami) [...]. E quando Catullo mette in bocca a Lesbia un giuramento di antica ascendenza letteraria (70, 1 sg.: Nulli se dicit mulier mea nubere malle - quam mihi, non si se Iuppiter ipse petat, “la mia donna afferma di non voler essere d’altri che mia, neppure se la corteggiasse Giove”), usa insolitamente il verbo del matrimonio, nubere, dove, svolgendo il medesimo topos, Meleagro aveva detto: stèrxein, “voler bene” (Anth. Pal. 5, 8, 3). Ancorando il suo legame con Lesbia alla sacralità della fides e del foedus, Catullo ricorreva alla più veneranda tradizione latina per dare un valore positivo, una legittimità psicologica a un rapporto che di quel codice etico-sociale era la più flagrante infrazione.
L’insistente appello alla fides non era immotivato. […] Ma una cosa è certa: Lesbia non ricambiò la “fedeltà” di Catullo. I rara furta, che il poeta si dice rassegnato a tollerare nel c. 68, 136, diventano i «trecento adulteri» dell’addio definitivo (11, 17 sg.), scritto nel medesimo metro saffico del c. 51. La conseguenza di questi «tradimenti» (72, 7: iniuria talis) fu una situazione conflittuale per il dissociarsi delle componenti sensuale e affettiva. Secoli di romanticismo ci hanno avvezzati a questo conflitto. Ma nel mondo antico esso era insolito, o almeno è insolita la lucidità e l’intensità con cui l’esprime Catullo. Al punto che il poeta ha dovuto «inventare» il lessico del suo amore (come ha fatto con foedus). Già nel c. 109 abbiamo incontrato fides determinata dal genitivo amicitiae, che abbiamo tradotto con «affetto». Nei cc. 72 e 75 la situazione conflittuale giunge a maturità espressiva attraverso una coppia di opposizioni semantiche: amare, uri contro diligere, bene velle. […] L’antitesi si scarnifica e si polarizza nell’ossimoro del c. 85, odi et amo, dove odi è l’equivalente positivo di non bene velle. Per superare questo conflitto, che gli inaridiva la gioia di vivere (76, 20 sgg.), Catullo chiese aiuto agli dèi, e li pregò di guarirlo (76, 25: ipse valere opto) in nome della sua pietas (76, 26). Che era mai questa pietas che ha fatto sorridere qualche moralista? Ce lo dice il v. 3 del medesimo carme: nec sanctam violasse fidem. Era la coscienza di non aver mai tradito il patto d’amore con Lesbia. Così Catullo scopre l’ambivalenza dell’eros e la fissa in una formula definitiva.
Note
1. liberum quaesundum causa: “per avere figli”; è la forma ufficiale del matrimonio romano.
2. vidua: “vedova”.
3. stupri consuetudo: “relazione illegittima”.
4. «fedeltà» ... sacralità: •esplicita nel c. 30, 11: si tu oblitus es, at di meminerunt, meminit Fides (“se tu lo hai dimenticato, se lo ricordano gli dei, se lo ricorda la Fides”). Virtù tipicamente romana: “sin dall’epoca più antica, la fides significa l’abbandono, al tempo stesso fiducioso e completo, di una persona a un’altra” (M. Meslin, L'uomo romano, trad. it., Milano 1981, p. 216). Aveva un tempio in Roma sin dal 250 a.C. e compare come dea già in Plauto e in Ennio. A questa fides Catullo si appella ripetutamente anche a proposito dell’amicizia».
Brano tratto da I canti, intr. di A. Traina, trad. di E. Mandruzzato, BUR ruzzoli, Milano 1982
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