di Fabrizio Mastrofini
Le tecnologie digitali hanno già cambiato la nostra vita e la iper-connessione è destinata a crescere. Per questo è necessario un uso consapevole da parte dei cittadini e serve un’attenzione della politica per accrescere lo sviluppo riducendo ogni «divario digitale». Il lavoro è enorme e l’Unione Europea ha messo in campo un progetto di amplissimo respiro. Si chiama Onlife Initiatives - A Digital Agenda for Europe, che si concluderà nel 2020 (https://ec.europa.eu/digital-agenda/en/onlife-initiative). Ne parliamo con Luciano Floridi, docente di filosofia ad Oxford, consulente Unesco, esperto di etica e comunicazione, esponente di spicco della Onlife Initiatives.
La tecnologia serve per aiutare le persone ma anche per spiarle, come rivelano gli ultimi eventi di queste settimane. Qual è la sua valutazione?
«La tecnologia è spesso plastica, prestandosi a diversi usi, a volte contraddittori. Nel caso delle Ict (Information and Communication Technologies) questa potenziale contraddizione è ancora più accentuata proprio perché si tratta di tecnologie altamente malleabili. La loro alta flessibilità le rende utili fino al punto di essere ormai indispensabili, ma le rende anche pericolose e potenzialmente dannose. Perciò la questione etica non è se le Ict siano neutre, la tecnologia non lo è mai. E non è neppure se usi impropri di dette tecnologie siano etici se autorizzati da qualche potere politico o economico. È vero il contrario: un potere è giudicato più o meno etico sulla base delle azioni che commette o permette. La questione etica è quali debbano essere i principi regolatori che permettano, vincolino, facilitino o ostacolino determinati usi di tanta potenziale flessibilità tecnologica. Su questa fondamentale questione, il mondo si sta ancora chiarendo le idee».
Ci sono degli strumenti che la politica può escogitare a difesa dei cittadini e per il progresso?
«Nelle società dell’informazione cambia esattamente (anche) il modo in cui si concepisce la politica e si realizzano le sue attività concrete. Diciamo che allora ci si deve chiedere: che cosa possono fare i cittadini di una società dell’informazione per aggiornare la politica alle nuove esigenze che la vedono ormai globale? Una risposta breve a questa domanda è: ripensare gli agenti politici (incluso, ma non solo, lo stato nazionale di origine moderna) come sistemi-multiagente, da disegnare sulla base dei principi di giustizia e tolleranza. Chiaramente si tratta di un lavoro enorme, che va fatto anche alla luce di quanto poi i nuovi sistemi politici-multiagente saranno in grado di fare per i cittadini che li hanno creati».
Si può esercitare la democrazia in rete?
«La novità della rete non sta nel creare un nuovo partito, movimento, raggruppamento, team o come lo si voglia chiamare, un fantomatico “popolo della rete”. L’errore sta nel pensare che si possa permutare la tessera di partito con l’indirizzo ip del proprio computer. Al contrario, la rete crea nuove forme di politica perché va nella direzione del ribaltamento della condizione di default sociale, ribaltamento che unisce molte forme di aggregazione politica internazionali. Stiamo passando dal considerare il politico come la condizione di partenza, in cui si è sempre cittadine e cittadini, al non-politico come condizione di partenza, in cui si decide di esercitare il proprio ruolo di cittadine e cittadini su chiamata, di volta in volta, su specifiche questioni, per determinate ragioni o cause, in altre parole, on-demand. La rete al contempo rende possibile la politica on-demand e rappresenta, nella sua forma di comunicazione più distribuita e meno gerarchica e just in time, l’incarnazione più attuale della partecipazione (attenzione, non voto) su richiesta. Ecco perché chi parla di “popolo della rete” o magari pensa alla rete come a una modalità di politica diretta permanente, coglie solo a metà i cambiamenti in corso. Si vede il nuovo ma lo interpreta con il vecchio».
La tecnologia serve per aiutare le persone ma anche per spiarle, come rivelano gli ultimi eventi di queste settimane. Qual è la sua valutazione?
«La tecnologia è spesso plastica, prestandosi a diversi usi, a volte contraddittori. Nel caso delle Ict (Information and Communication Technologies) questa potenziale contraddizione è ancora più accentuata proprio perché si tratta di tecnologie altamente malleabili. La loro alta flessibilità le rende utili fino al punto di essere ormai indispensabili, ma le rende anche pericolose e potenzialmente dannose. Perciò la questione etica non è se le Ict siano neutre, la tecnologia non lo è mai. E non è neppure se usi impropri di dette tecnologie siano etici se autorizzati da qualche potere politico o economico. È vero il contrario: un potere è giudicato più o meno etico sulla base delle azioni che commette o permette. La questione etica è quali debbano essere i principi regolatori che permettano, vincolino, facilitino o ostacolino determinati usi di tanta potenziale flessibilità tecnologica. Su questa fondamentale questione, il mondo si sta ancora chiarendo le idee».
Ci sono degli strumenti che la politica può escogitare a difesa dei cittadini e per il progresso?
«Nelle società dell’informazione cambia esattamente (anche) il modo in cui si concepisce la politica e si realizzano le sue attività concrete. Diciamo che allora ci si deve chiedere: che cosa possono fare i cittadini di una società dell’informazione per aggiornare la politica alle nuove esigenze che la vedono ormai globale? Una risposta breve a questa domanda è: ripensare gli agenti politici (incluso, ma non solo, lo stato nazionale di origine moderna) come sistemi-multiagente, da disegnare sulla base dei principi di giustizia e tolleranza. Chiaramente si tratta di un lavoro enorme, che va fatto anche alla luce di quanto poi i nuovi sistemi politici-multiagente saranno in grado di fare per i cittadini che li hanno creati».
Si può esercitare la democrazia in rete?
«La novità della rete non sta nel creare un nuovo partito, movimento, raggruppamento, team o come lo si voglia chiamare, un fantomatico “popolo della rete”. L’errore sta nel pensare che si possa permutare la tessera di partito con l’indirizzo ip del proprio computer. Al contrario, la rete crea nuove forme di politica perché va nella direzione del ribaltamento della condizione di default sociale, ribaltamento che unisce molte forme di aggregazione politica internazionali. Stiamo passando dal considerare il politico come la condizione di partenza, in cui si è sempre cittadine e cittadini, al non-politico come condizione di partenza, in cui si decide di esercitare il proprio ruolo di cittadine e cittadini su chiamata, di volta in volta, su specifiche questioni, per determinate ragioni o cause, in altre parole, on-demand. La rete al contempo rende possibile la politica on-demand e rappresenta, nella sua forma di comunicazione più distribuita e meno gerarchica e just in time, l’incarnazione più attuale della partecipazione (attenzione, non voto) su richiesta. Ecco perché chi parla di “popolo della rete” o magari pensa alla rete come a una modalità di politica diretta permanente, coglie solo a metà i cambiamenti in corso. Si vede il nuovo ma lo interpreta con il vecchio».
«Avvenire» del 19 luglio 2013
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