L’aborto, la legge 194, la Consulta
di Francesco D’Agostino
Confesso che non mi sono affatto meravigliato del fatto che la Corte Costituzionale abbia rigettato come "manifestamente inammissibile" la questione di legittimità costituzionale sollevata dal magistrato di Spoleto in merito all’articolo 4 della legge sull’aborto. Né mi sono meravigliato dei commenti a questa decisione, che tranne poche eccezioni hanno rispolverato temi più che antiquati, come quello dell’esaltazione del diritto della donna a gestire in modo autoreferenziale la propria gravidanza.
Anche i commentatori più moderati favorevoli alla legge 194 si sono dimostrati incapaci di elaborare riflessioni innovative, limitandosi a ricordare (ma senza spiegare adeguatamente il perché) che i diritti del concepito non ricevono tutela assoluta nel nostro ordinamento, poiché devono essere oggetto di valutazione comparativa con altri valori di rilevanza costituzionale (come appunto i diritti della donna), rispetto ai quali, in determinate condizioni, sarebbero destinati a soccombere.
Peccato che a fondamento di queste argomentazioni c’è la tesi, che afferma un primato della donna (ovviamente ritenuta persona) rispetto al nascituro (ovviamente pensato come chi persona dovrebbe ancora diventare, in attesa della nascita). È una tesi biopolitica freddamente positivistica, non molto diversa da quella che è stata utilizzata da Singer, Engelhardt, Giubilini ed altri ancora: questi sostengono che nemmeno il neonato, privo come è di ogni capacità di intendere e di volere, dovrebbe essere ritenuto persona a pieno titolo (con tutte le conseguenze del caso, sino a quello che alcuni cominciano a chiamare "aborto post nascita", cioè alla soppressione legale del neonato magari per ragioni eutanasiche).
Ripeto: nessuna meraviglia per la decisione della Corte. Nessuna meraviglia, ma una profonda delusione. Sia dalla sentenza della Consulta che dai commenti favorevoli che essa ha suscitato si percepisce come si sia cristallizzata in Italia, dopo quasi trentacinque anni dall’approvazione della legge 194, un’inadeguata percezione scientifica, etica e sociale dell’interruzione volontaria della gravidanza.
Se infatti facciamo un serio sforzo di riflessione su quello che abbiamo acquisito in merito all’aborto negli ultimi decenni su questi tre piani – quello delle conoscenze scientifiche, quello delle valutazioni bioetiche e quello delle percezioni giuridico-sociali – non possiamo che restare estremamente meravigliati di come nel nostro Paese si continui a pensare alla questione dell’aborto come a una questione che sarebbe stata «chiusa» da una «buona legge», una legge che, secondo uno slogan continuamente ripetuto, non si dovrebbe più «toccare». Personalmente, e so di non essere il solo, sono dell’avviso totalmente contrario: la legge sull’aborto andrebbe «toccata» (o almeno «ritoccata»), perché non è possibile continuare a pensare all’aborto come lo si pensava più di tre decenni fa.
Scientificamente, abbiamo acquisito la consapevolezza che la distinzione (essenziale per la legge 194) tra l’aborto nei primi tre mesi di gravidanza e nei successivi sei mesi non ha alcun fondamento. Bioeticamente abbiamo preso coscienza, in questi ultimi trent’anni, dell’impossibilità di quella distinzione su cui si fonda la legge 194, cioè di una distinzione logicamente coerente tra la dignità della vita umana prima della nascita (dignità debole) e dopo la nascita (dignità forte): in questo senso ci dovrebbe aver aperto definitivamente gli occhi la sentenza della Corte europea di giustizia sulla brevettabilità dei prodotti delle ricerche ottenute distruggendo embrioni umani.
Sociologicamente e giuridicamente, un minimo di onestà intellettuale ci dovrebbe indurre a riconoscere che la motivazione formale per la legalizzazione dell’aborto che si legge nell’articolo 4 della legge 194 (un «serio» pericolo per la salute fisica o psichica della donna) si è dimostrata negli anni, tranne pochi, rari casi, assolutamente inesistente e comunque ritenuta non bisognosa di essere effettivamente comprovata.
Nessuna forza politica italiana, tra quelle che contano, vuole riaprire la questione dell’aborto. E non la vuole riaprire non a seguito di decisioni conseguenti a discussioni aperte, esplicite, innovative, ma piuttosto per una sorta di diffusa percezione, che induce a pensare che sia meglio non riaprire una questione così scottante. Gli psicanalisti parlerebbero di rimozione. Ma le rimozioni producono necessariamente come proprio effetto le nevrosi e le nevrosi sono sempre causa di sofferenza.
Anche i commentatori più moderati favorevoli alla legge 194 si sono dimostrati incapaci di elaborare riflessioni innovative, limitandosi a ricordare (ma senza spiegare adeguatamente il perché) che i diritti del concepito non ricevono tutela assoluta nel nostro ordinamento, poiché devono essere oggetto di valutazione comparativa con altri valori di rilevanza costituzionale (come appunto i diritti della donna), rispetto ai quali, in determinate condizioni, sarebbero destinati a soccombere.
Peccato che a fondamento di queste argomentazioni c’è la tesi, che afferma un primato della donna (ovviamente ritenuta persona) rispetto al nascituro (ovviamente pensato come chi persona dovrebbe ancora diventare, in attesa della nascita). È una tesi biopolitica freddamente positivistica, non molto diversa da quella che è stata utilizzata da Singer, Engelhardt, Giubilini ed altri ancora: questi sostengono che nemmeno il neonato, privo come è di ogni capacità di intendere e di volere, dovrebbe essere ritenuto persona a pieno titolo (con tutte le conseguenze del caso, sino a quello che alcuni cominciano a chiamare "aborto post nascita", cioè alla soppressione legale del neonato magari per ragioni eutanasiche).
Ripeto: nessuna meraviglia per la decisione della Corte. Nessuna meraviglia, ma una profonda delusione. Sia dalla sentenza della Consulta che dai commenti favorevoli che essa ha suscitato si percepisce come si sia cristallizzata in Italia, dopo quasi trentacinque anni dall’approvazione della legge 194, un’inadeguata percezione scientifica, etica e sociale dell’interruzione volontaria della gravidanza.
Se infatti facciamo un serio sforzo di riflessione su quello che abbiamo acquisito in merito all’aborto negli ultimi decenni su questi tre piani – quello delle conoscenze scientifiche, quello delle valutazioni bioetiche e quello delle percezioni giuridico-sociali – non possiamo che restare estremamente meravigliati di come nel nostro Paese si continui a pensare alla questione dell’aborto come a una questione che sarebbe stata «chiusa» da una «buona legge», una legge che, secondo uno slogan continuamente ripetuto, non si dovrebbe più «toccare». Personalmente, e so di non essere il solo, sono dell’avviso totalmente contrario: la legge sull’aborto andrebbe «toccata» (o almeno «ritoccata»), perché non è possibile continuare a pensare all’aborto come lo si pensava più di tre decenni fa.
Scientificamente, abbiamo acquisito la consapevolezza che la distinzione (essenziale per la legge 194) tra l’aborto nei primi tre mesi di gravidanza e nei successivi sei mesi non ha alcun fondamento. Bioeticamente abbiamo preso coscienza, in questi ultimi trent’anni, dell’impossibilità di quella distinzione su cui si fonda la legge 194, cioè di una distinzione logicamente coerente tra la dignità della vita umana prima della nascita (dignità debole) e dopo la nascita (dignità forte): in questo senso ci dovrebbe aver aperto definitivamente gli occhi la sentenza della Corte europea di giustizia sulla brevettabilità dei prodotti delle ricerche ottenute distruggendo embrioni umani.
Sociologicamente e giuridicamente, un minimo di onestà intellettuale ci dovrebbe indurre a riconoscere che la motivazione formale per la legalizzazione dell’aborto che si legge nell’articolo 4 della legge 194 (un «serio» pericolo per la salute fisica o psichica della donna) si è dimostrata negli anni, tranne pochi, rari casi, assolutamente inesistente e comunque ritenuta non bisognosa di essere effettivamente comprovata.
Nessuna forza politica italiana, tra quelle che contano, vuole riaprire la questione dell’aborto. E non la vuole riaprire non a seguito di decisioni conseguenti a discussioni aperte, esplicite, innovative, ma piuttosto per una sorta di diffusa percezione, che induce a pensare che sia meglio non riaprire una questione così scottante. Gli psicanalisti parlerebbero di rimozione. Ma le rimozioni producono necessariamente come proprio effetto le nevrosi e le nevrosi sono sempre causa di sofferenza.
«Avvenire» del 25 giugno 2012
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