di Giorgio Israel
Alain Finkielkraut aveva previsto già una trentina di anni fa le conseguenze dell’introduzione del termine «genocidio», coniato nel 1944 per distinguere lo sterminio degli ebrei dagli altri crimini contro l’umanità: il formarsi di un codazzo di aspiranti allo stesso privilegio; il dilagare dei «confronti» tesi a dimostrare il diritto a ottenerlo e quindi tesi a sminuire la gravità del genocidio degli ebrei. Come osservò Finkielkraut, «dalle donne agli occitani, ogni minoranza oppressa proclamò il suo genocidio. Come se, senza di ciò, cessasse di essere interessante». E l’elenco continua ad allungarsi: non si è visto, a Roma l’anno scorso, un corteo di insegnanti sfilare con la stella gialla appuntata sul petto, proponendo il proprio genocidio? A seguito del celebre film di Claude Lanzmann - Shoah, uscito nel 1985 - i termini olocausto e genocidio (degli ebrei) furono sostituiti nell’uso con la parola ebraica «Shoah» (catastrofe). Una scelta del tutto normale: non è altrettanto accettabile denominare sinteticamente Gulag lo sterminio di milioni di cittadini sovietici da parte del regime comunista? Il problema è che il termine Shoah è stato associato al rafforzamento dell’idea già contenuta nel termine «genocidio»: l’assoluta unicità di questo evento, la sua incomparabilità con qualsiasi altro crimine della storia, fino a farne un evento metastorico e a suscitare persino una metafisica e una teologia della Shoah. Chi scrive ha ripetutamente criticato come infondata e rischiosa la collocazione della Shoah al di fuori della storia. Per esempio, il rifiuto di stabilire qualsiasi relazione tra Lager e Gulag è assurdo. La relazione è stata evidenziata in modo magistrale sul piano romanzesco da Vasilij Grossman. Sul piano storico essa risale alla folle ambizione di entrambe le dittature di rigenerare la società dalle fondamenta: l’una mediante l’igiene sociale, l’altra mediante l’igiene razziale, come osservò Victor Zaslavski. Paradossalmente, il mito dell’unicità della Shoah è servito ai postcomunisti per derubricare i crimini di Stalin a qualcosa di non tanto grave. Naturalmente questo è frutto di cattiva coscienza. Così come è la cattiva coscienza che spinge ogni giorno qualcuno a sminuire la gravità della Shoah stabilendo confronti deliranti anziché relazioni magari discutibili ma ragionevoli, mescolandola con gli eventi più disparati. È la cattiva coscienza di un’Europa che non ha mai fatto davvero i conti con i propri totalitarismi. Leggo l’intervista di Günther Grass rilasciata due giorni fa a un giornale israeliano in cui «rilegge» la Shoah e la paragona alle sofferenze inflitte dai russi ai militari tedeschi, e trovo che molte delle sue affermazioni sono discutibili sul piano storico e qualcuna anche sul piano morale. Ma non mi sento di fare scandalo sulla frase che, invece, più ha destato scandalo: «Non dico questo per diminuire la gravità del crimine contro gli ebrei, ma l’Olocausto non è stato l’unico crimine». Non mi sento di fare scandalo perché questa frase esprime un concetto persino ovvio. È una frase di cui non vi sarebbe stato bisogno se non si fosse avuta l’idea avventata di collocare la Shoah sul piedistallo metastorico e metafisico dell’unicità. Per il resto, Grass si è espresso in modo discutibile ma aperto e onesto. Efferato e losco è invece l’atto di quel funzionario francese che ha interdetto mediante una circolare l’uso della parola «Shoah» nelle scuole. Mi ha colpito il riferimento di Grass al fatto che metà della Germania sia stata abbandonata al comunismo. Di questo oggi non si parla. Così, la Spagna zapaterista mette alla gogna i crimini del franchismo mentre stende una cortina su quelli non meno atroci compiuti dai comunisti spagnoli delle varie tendenze. L’Europa che non ha fatto i conti con tutti i totalitarismi del ’900 è la stessa che genera il nuovo antisemitismo, sotto forma di antisionismo e di odio per Israele e che, allo scopo, non si fa scrupolo di usare il negazionismo. Per contrastarla, il mito dell’unicità della Shoah non serve. Al contrario. Al posto della circolare francese, occorrerebbe una circolare europea che prescriva in tutte le scuole la lettura di Vita e destino di Vasilij Grossman.
«Il Giornale» del 2 settembre 2011
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