Il filosofo D’Angelo ha studiato i complessi nevrotici del Gran Lombardo: «Ma il suo silenzio, con la negazione dell’immaginazione, fu scelta consapevole»
di Massimo Onofri
Ritorna per il Mulino un libro importante e che felicemente deraglia dai binari della storia della critica manzoniana, soprattutto accademica: La nevrosi di Manzoni. Quando la storia uccise la poesia (pagine 214, euro 19,00). Non poteva essere altrimenti, considerato il profilo di Paolo D’Angelo, che ne è l’autore: accademico attrezzatissimo e originale (formidabili i suoi libri dedicati alla filosofia del paesaggio, nel 2009, 2014 e 2021) e imprescindibile studioso di Estetica (che insegna a Roma Tre), tra i più rigorosi in attività. Tra i suoi libri: L’estetica di Benedetto Croce (1982); Simbolo e Arte in Hegel (1989); L’estetica italiana del Novecento (1997); Estetismo (2003); Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp (2005); Cesare Brandi. Critica d’arte e filosofia (2006); L’estetica italiana del Novecento (2007); Estetica (2011); Forme letterarie della filosofia (2012); Il problema Croce (2015); La tirannia delle emozioni (2020); il sorprendente L’arte del make-up. Il disegno, i volumi, i colori (2020); i tre volumi di Attraverso la storia dell’estetica (2019-22); Estetica della natura. Bellezza naturale, paesaggio, arte ambientale (2023); il monumentale Benedetto Croce. La biografia. Vol. 1: Gli anni 1866-1918 (2023) e persino un Andare per parchi artistici (2024). Cito a parte Estetica della Natura (2001) e L’estetica del Romanticismo (1997, poi 2018). Estetica della Natura, perché riporta in primo piano una questione che per il Kant di La critica del giudizio -e per tutti i pensatori precedenti- fu di cruciale importanza e tale rimase fino a che i Romantici con la teoria del «genio» non identificarono il problema estetico con quello dello statuto dell’arte, secondo il significato formulato a metà del Settecento da Baumgarten: l’estetica come «teoria del bello e delle arti liberali». L’estetica del Romanticismo, invece, per il fatto che individua perfettamente il contesto entro cui inquadrare l’articolata e autopunitiva riflessione sulla letteratura di Manzoni, che è appunto oggetto del volume.
La posizione di D’Angelo è chiara da subito: «L’autore di questo libro non è uno storico della letteratura né un critico letterario». E poi: «In effetti, si può dire che esso si occupa non dell’opera ma dell’assenza di opera». Lo scopo di D’Angelo è infatti lavorare a partire da una negazione, interrogandosi su quale sia la ragione per cui, autore «ancora in età giovanile» d’un capolavoro accolto con entusiasmo dalla critica e dai lettori, «Manzoni abbia abbandonato non solo il romanzo, ma la letteratura creativa in genere»: in direzione della rinuncia alla funzione dell’immaginazione nell’arte. Nella ricerca delle urisposte D’Angelo afferma di essersi «imbattuto in alcuni complessi nevrotici che segnarono profondamente la personalità di Manzoni». Che però non furono la causa del suo lungo e assordante silenzio: «Il rifiuto manzoniano della letteratura non resta una reazione inconsapevole, e si traduce in una compiuta teoria dell’arte, o meglio della negazione dell’arte». Qual è il risultato della ricognizione di D’Angelo? Se c’è qualcosa che «la parabola di Manzoni ci ha insegnato» è questa: «Se si rifiuta la dimensione immaginativa della letteratura e dell’arte, la strada è aperta per il suo rifiuto e la sua dissoluzione». Ecco perché recidere il nesso «tra l’impatto emotivo dell’arte e la (…) funzione gnoseologica» della letteratura ha come inevitabile conseguenza il fatto di «non afferrarne più il significato e la legittimità». Ecco: «La creazione di una realtà altra rispetto a quella nella quale ci imbattiamo ogni giorno non è la patologia della forma artistica, ma la sua elementare fisiologia», quella che ci consegna «un supplemento di esperienza (…) vitale e costitutivo» per intensificare la nostra vita e, magari, meglio comprenderla. Negare «questa destinazione fondamentale» alla letteratura, significa nullificarla.
A prescindere dall’obiettivo per cui è stato scritto, il libro di D’Angelo è folto di spunti e dettagli, che aprono a ogni passo sentieri diversi, se non vere e proprie botole. Basterebbe solo, di volta in volta, cedere alla tentazione di deviare e divagare. Qualche sottolineatura tra tanta mole: le pagine di impegno freudiano intitolate Psicopatologia della vita manzoniana o quelle su La poesia come integrazione della storia (ma anche su Dov’era l’arte, la storia), senza dire di Manzoni e la morte dell’arte, spalancate criticamente come sono -si direbbe in gloria dell’Ottocento- su taluni celebrati Idola novecenteschi: «Molti pensano che nel Novecento l’arte non abbia fatto che morire; non tutti sanno che nell’Ottocento la filosofia ha spesso fatto morire l’arte». Davvero suggestivo il capitolo Metafore, che punta l’attenzione «sulle metafore e le similitudini con le quali Manzoni riformula il rapporto tra storia e invenzione». Non cito poi le pagine su due lettori d’eccezione: un ammirativo Goethe, un risentito Foscolo. Concludo col venturoso e inatteso incipit, che coniuga a sorpresa due diversi destini e sottolinea «il diverso suono di due silenzi» Il silenzio di chi? Ecco: «Al centro del nostro Ottocento non ci sono due grandi opere, ma due grandi silenzi, il silenzio di Manzoni e il silenzio di Rossini». Rossini: che «compone il suo ultimo melodramma, il Guglielmo Tell, nel 1828, a trentasei anni». Manzoni: che con l’edizione dei Promessi sposi del 1827 congeda l’ultima sua «grande opera creativa». Un incipit che risospinge la critica sulle sterminate praterie dell’immaginazione. Ecco: sottratto alla letteratura da Manzoni il potere dell’immaginazione, D’Angelo sembra invece riconsegnare l’immaginazione alla critica. I critici veri, del resto, l’hanno sempre saputo: senza immaginazione la critica muore.
«Avvenire» del 21 novembre 2025
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