18 dicembre 2025

Niccolò Introna, l’eroe dimenticato che sfidò i nazisti per salvare l’oro degli italiani

Federico Fubini, giornalista del Corriere, in un libro inchiesta svela le carte inedite: «Ecco come Mussolini si appropriò di denaro pubblico»
di Alzo Cazzullo
Niccolò Introna, l’eroe dimenticato che sfidò i nazisti per salvare l’oro degli italiani
Il 20 settembre 1943, alle 15 e 30, un manipolo di ufficiali nazisti varca la soglia di Palazzo Koch, elegante sede della Banca d’Italia. Fra loro c’è il tenente colonnello delle SS Herbert Kappler, comandante dello spionaggio hitleriano nel nostro Paese. I tedeschi presentano le loro richieste al governatore Vincenzo Azzolini: vogliono l’oro della Banca d’Italia, tutto l’oro. In quel momento, nei suoi caveau, l’istituto di Via Nazionale ne custodisce quasi 120 tonnellate.
Un solo uomo, all’interno della banca centrale, decide di opporsi e organizza un sofisticato inganno per impedire ai nazisti di trafugare la ricchezza degli italiani. Si chiama Niccolò Introna, è un dirigente di settantacinque anni, un fervente valdese che tiene sermoni alle comunità di fedeli nei giorni di festa. Durante il fascismo, Introna aveva combattuto in segreto la corruzione e il sistema cleptocratico attorno a Mussolini , documentando le operazioni del Duce per trafugare il denaro pubblico. Introna è stato dal primo all’ultimo giorno un servitore dello Stato, antifascista anche nei momenti di massimo splendore del regime e per questo isolato anche all’interno del palazzo di Via Nazionale. Eppure il suo nome, per le vicende finora mai raccontate e portate alla luce in questo libro — «L’oro e la patria. Storia di Niccolò Introna eroe dimenticato», che Mondadori pubblica domani —, nel dopoguerra è stato deliberatamente cancellato e dimenticato.
Federico Fubini, vicedirettore e firma del Corriere , ha avuto accesso alle circa ottantamila pagine di documenti, in parte riservati, che il funzionario accumulò per tutta la vita e nessuno aveva mai potuto vedere prima. In quella montagna di carte si è formata perché Introna si era silenziosamente portato a casa i documenti di lavoro dalla Banca d’Italia quasi ogni sera fra i primi anni ’20 e la fine degli anni ’40. Lì dentro c’è uno spaccato della storia del Paese, lo specchio dei conflitti interni alle élite del fascismo e del sofferto passaggio alla democrazia.
È a partire da lì che Fubini ricostruisce per la prima volta, in modo inoppugnabile, l’appropriazione di denaro pubblico da parte di Mussolini e tutta la sofferta vicenda dell’oro della Banca d’Italia. Introna stesso è testimone diretto di come il Duce, caduto il 25 luglio del ’43 e rimesso in sella dai nazisti con il governo fantoccio di Salò, si rende artefice di un trafugamento neanche troppo raffinato del denaro pubblico.
Il 6 ottobre del ’43 Mussolini, appena arrivato sulle rive del Lago di Garda, scrive al ligio e fascistissimo governatore della Banca d’Italia dell’epoca, Vincenzo Azzolini. Questi si trova ancora nella Roma occupata dai nazisti. La lettera non è altro che una secca ingiunzione: «Presso la Banca d’Italia — scrive il Duce — sono tuttora aperti i conti correnti n. 1 di lire 9.937.078,68 e n. 3 di lire 135.263,25 intestati rispettivamente al Capo del Governo Primo Ministro Segretario di Stato e al Dott. Nicolò de Cesare nella sua qualità di Segretario Particolare del Duce» (sì, con tutte le maiuscole). Continua Mussolini: «È necessario provvedere alla estinzione dei due conti e pertanto ho disposto che gli assegni relativi ai prelevamenti delle cifre di cui sopra, aumentati degli interessi maturati al giorno dell’estinzione, siano tratti esclusivamente dal Dott. Vittorio Mussolini il quale firmerà come in calce».
In altri termini, il dittatore a Salò rivoleva i soldi che aveva avuto a sua disposizione quando da Palazzo Venezia comandava lui. Si trattava, in euro di oggi, dell’equivalente di alcune decine di milioni. E fin qui si può comprendere: Mussolini si considerava ancora il padrone del Paese. Andando a ricercare nei libri dei conti delle filiali della Banca d’Italia di Verona e di Brescia, tuttavia, Fubini ripercorre il cammino dei quei fondi del governo passo per passo. E mostra come almeno metà dei soldi non finiscono a disposizione della macchina di governo della Repubblica di Salò. Al contrario, dall’inizio il Duce dà disposizioni che siano depositati presso un conto personale a nome del figlio Vittorio Mussolini, dove rimangono finché questi li ritira e li porta con sé il 16 aprile del 1945, nove giorni prima della Liberazione.
Non è il solo caso di malversazione ai vertici del fascismo che il libro ricostruisce nei dettagli. «Erano solo gli ultimi passaggi, resi disinvolti dall’abitudine diffusa nel regime dopo un paio di decenni di ruberie — scrive Fubini —. Il sistema costruito da Mussolini ricorda, in questo, quello della Russia di Vladimir Putin un secolo più tardi... un’artigianale, caotica eppure sistematica cleptocrazia».
Una nota manoscritta di Introna, che ha operato per decenni ai vertici della Banca d’Italia, è uno sfogo personale sul conto del governatore fascista Azzolini: «Questi, volta a volta, metteva senz’altro a disposizione centinaia e centinaia di milioni d’oro, senza neppure tentare di opporsi alla spoliazione, su semplice biglietto del Duce».
Ed è solo l’ultimo dei paradossi che a Introna stesso, l’uomo che più di ogni altro trovò il coraggio di resistere alla cleptocrazia imperante, sarà riservato un destino di disprezzo e oblio. Nel giugno del ’44, alla liberazione di Roma, gli americani lo mettono a capo della Banca d’Italia in quanto è l’unico uomo non compromesso lì dentro. Lui immediatamente persegue i colpevoli del furto dell’oro degli italiani. Ma la sua intransigenza mette a disagio persino le forze antifasciste, che non tardano a metterlo da parte e a rimuoverlo. Anche per questo la storia di Introna, le sue lotte nel cuore del regime, la sorda e caparbia ostilità dei suoi molti nemici trasmettono un monito che arriva con forza agli italiani di ogni tempo, compreso il nostro.

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«Corriere della sera» del 19 febbraio 2025

04 dicembre 2025

Il genio e le manie di Alessandro Manzoni

Il filosofo D’Angelo ha studiato i complessi nevrotici del Gran Lombardo: «Ma il suo silenzio, con la negazione dell’immaginazione, fu scelta consapevole»
di Massimo Onofri
Ritorna per il Mulino un libro importante e che felicemente deraglia dai binari della storia della critica manzoniana, soprattutto accademica: La nevrosi di Manzoni. Quando la storia uccise la poesia (pagine 214, euro 19,00). Non poteva essere altrimenti, considerato il profilo di Paolo D’Angelo, che ne è l’autore: accademico attrezzatissimo e originale (formidabili i suoi libri dedicati alla filosofia del paesaggio, nel 2009, 2014 e 2021) e imprescindibile studioso di Estetica (che insegna a Roma Tre), tra i più rigorosi in attività. Tra i suoi libri: L’estetica di Benedetto Croce (1982); Simbolo e Arte in Hegel (1989); L’estetica italiana del Novecento (1997); Estetismo (2003); Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp (2005); Cesare Brandi. Critica d’arte e filosofia (2006); L’estetica italiana del Novecento (2007); Estetica (2011); Forme letterarie della filosofia (2012); Il problema Croce (2015); La tirannia delle emozioni (2020); il sorprendente L’arte del make-up. Il disegno, i volumi, i colori (2020); i tre volumi di Attraverso la storia dell’estetica (2019-22); Estetica della natura. Bellezza naturale, paesaggio, arte ambientale (2023); il monumentale Benedetto Croce. La biografia. Vol. 1: Gli anni 1866-1918 (2023) e persino un Andare per parchi artistici (2024). Cito a parte Estetica della Natura (2001) e L’estetica del Romanticismo (1997, poi 2018). Estetica della Natura, perché riporta in primo piano una questione che per il Kant di La critica del giudizio -e per tutti i pensatori precedenti- fu di cruciale importanza e tale rimase fino a che i Romantici con la teoria del «genio» non identificarono il problema estetico con quello dello statuto dell’arte, secondo il significato formulato a metà del Settecento da Baumgarten: l’estetica come «teoria del bello e delle arti liberali». L’estetica del Romanticismo, invece, per il fatto che individua perfettamente il contesto entro cui inquadrare l’articolata e autopunitiva riflessione sulla letteratura di Manzoni, che è appunto oggetto del volume. La posizione di D’Angelo è chiara da subito: «L’autore di questo libro non è uno storico della letteratura né un critico letterario». E poi: «In effetti, si può dire che esso si occupa non dell’opera ma dell’assenza di opera». Lo scopo di D’Angelo è infatti lavorare a partire da una negazione, interrogandosi su quale sia la ragione per cui, autore «ancora in età giovanile» d’un capolavoro accolto con entusiasmo dalla critica e dai lettori, «Manzoni abbia abbandonato non solo il romanzo, ma la letteratura creativa in genere»: in direzione della rinuncia alla funzione dell’immaginazione nell’arte. Nella ricerca delle urisposte D’Angelo afferma di essersi «imbattuto in alcuni complessi nevrotici che segnarono profondamente la personalità di Manzoni». Che però non furono la causa del suo lungo e assordante silenzio: «Il rifiuto manzoniano della letteratura non resta una reazione inconsapevole, e si traduce in una compiuta teoria dell’arte, o meglio della negazione dell’arte». Qual è il risultato della ricognizione di D’Angelo? Se c’è qualcosa che «la parabola di Manzoni ci ha insegnato» è questa: «Se si rifiuta la dimensione immaginativa della letteratura e dell’arte, la strada è aperta per il suo rifiuto e la sua dissoluzione». Ecco perché recidere il nesso «tra l’impatto emotivo dell’arte e la (…) funzione gnoseologica» della letteratura ha come inevitabile conseguenza il fatto di «non afferrarne più il significato e la legittimità». Ecco: «La creazione di una realtà altra rispetto a quella nella quale ci imbattiamo ogni giorno non è la patologia della forma artistica, ma la sua elementare fisiologia», quella che ci consegna «un supplemento di esperienza (…) vitale e costitutivo» per intensificare la nostra vita e, magari, meglio comprenderla. Negare «questa destinazione fondamentale» alla letteratura, significa nullificarla. A prescindere dall’obiettivo per cui è stato scritto, il libro di D’Angelo è folto di spunti e dettagli, che aprono a ogni passo sentieri diversi, se non vere e proprie botole. Basterebbe solo, di volta in volta, cedere alla tentazione di deviare e divagare. Qualche sottolineatura tra tanta mole: le pagine di impegno freudiano intitolate Psicopatologia della vita manzoniana o quelle su La poesia come integrazione della storia (ma anche su Dov’era l’arte, la storia), senza dire di Manzoni e la morte dell’arte, spalancate criticamente come sono -si direbbe in gloria dell’Ottocento- su taluni celebrati Idola novecenteschi: «Molti pensano che nel Novecento l’arte non abbia fatto che morire; non tutti sanno che nell’Ottocento la filosofia ha spesso fatto morire l’arte». Davvero suggestivo il capitolo Metafore, che punta l’attenzione «sulle metafore e le similitudini con le quali Manzoni riformula il rapporto tra storia e invenzione». Non cito poi le pagine su due lettori d’eccezione: un ammirativo Goethe, un risentito Foscolo. Concludo col venturoso e inatteso incipit, che coniuga a sorpresa due diversi destini e sottolinea «il diverso suono di due silenzi» Il silenzio di chi? Ecco: «Al centro del nostro Ottocento non ci sono due grandi opere, ma due grandi silenzi, il silenzio di Manzoni e il silenzio di Rossini». Rossini: che «compone il suo ultimo melodramma, il Guglielmo Tell, nel 1828, a trentasei anni». Manzoni: che con l’edizione dei Promessi sposi del 1827 congeda l’ultima sua «grande opera creativa». Un incipit che risospinge la critica sulle sterminate praterie dell’immaginazione. Ecco: sottratto alla letteratura da Manzoni il potere dell’immaginazione, D’Angelo sembra invece riconsegnare l’immaginazione alla critica. I critici veri, del resto, l’hanno sempre saputo: senza immaginazione la critica muore.
«Avvenire» del 21 novembre 2025

02 dicembre 2025

La mistica che scrisse la sua auotobiografia. «Liberaci, o Dio, dai santi con la faccia triste»

Visse tra passione e tormenti. Raccontò di sé quando si pensava che le donne non avessero niente da dire. Ebbe un rapporto turbolento con le gerarchie e la Santa Inquisizione sospettava di lei. Era ironica e spiritosa. I suo scritti sono così sconvolgenti
di Lucetta Scaraffia
«Nada te turbe, nada te espante, quien a Dios tiene nada le falta, sólo Dios basta, todo se pasa, Dios no se muda, la paciencia todo lo alcanza», nulla ti turbi, nulla ti spaventi, a chi ha Dio nulla manca, solo Dio basta, tutto passa, Dio non cambia, la pazienza tutto ottiene. Sono le parole più celebri di Teresa d’Ávila, parole che hanno oltrepassato i secoli e che la voce di Mina ha saputo interpretare con profonda drammaticità. Sì, perché Teresa ha sempre sorpreso tutti, anche noi quando scopriamo che le sue parole sono state cantate da Mina. Ma la vita della grande santa spagnola è diventata anche un romanzo psicanalitico, Therèse mon amour, scritto da una famosa intellettuale francese, Julia Kristeva, innamorata di questa donna per il suo erotismo, la sua spiritualità, la consapevolezza di sé. Teresa non smette di parlare alle donne di oggi, così come aveva saputo, con le sue parole, far capire al Bernini, autore della straordinaria statua che la rappresenta in estasi, che l’esperienza mistica attraversa anche il corpo. Sono così sconvolgenti i suoi scritti che la Chiesa, pur canonizzandola tra i primi santi della Controriforma, ha pensato bene di censurarli. La versione integrale, originaria, è stata pubblicata soltanto tre secoli più tardi (tra il 1915 e il 1924, in nove volumi), così come solo nel 1970 papa Paolo VI l’ha consacrata prima donna fra i dottori della Chiesa.
LE DUE FUGHE
La sua vivacità si era rivelata fin da bambina, quando Teresa già sapeva che la famiglia l’aveva destinata al convento, proprio lei che aveva la testa piena di avventure eroiche ispirate ai libri di cavalleria che leggeva con il fratello più piccolo. Così con il fratello scappò di casa, per vivere qualche avventura. Lo racconta lei stessa, nella sua bellissima autobiografia, uno dei primi libri in lingua spagnola e prima autobiografia di una donna. Il fratello poi qualche avventura la visse: partì per le colonie americane, dove trovò la morte per mano degli indios. A Teresa, però, la vita ha riservato non solo avventure concrete — come i lunghi e faticosi viaggi attraverso la penisola iberica per fondare o riformare monasteri carmelitani — ma anche avventure spirituali decisive che hanno cambiato la storia della Chiesa.
Crisi spirituali, insieme a gravi problemi di salute, ritardarono il suo ingresso in monastero, avvenuto quando aveva già ventinove anni. Ci volle però una seconda conversione, anch’essa preceduta da una grave malattia, per un vero e profondo cambiamento che la portò non solo fino alle esperienze mistiche, ma anche a progettare un monastero fedele alla rigida e austera regola originaria. Molti si opposero a questo suo progetto, a cominciare dalla superiora del monastero dell’Incarnazione dov’era entrata, tanto che preparò una fuga con alcune consorelle, di nascosto, per trasferirsi in un piccolo monastero dedicato a san Giuseppe situato in una casa di Ávila che aveva comprato.
L’ACCUSA DI “POSSESSIONE”
Da quel momento la sua vita fu tutta una lotta contro le gerarchie ecclesiastiche che diffidavano del suo progetto di riforma — quando morì era ancora sotto inchiesta dell’Inquisizione — ma anche contro religiosi e uomini potenti che temevano le sue capacità organizzative e la sua serietà nelle riforme. Teresa ha lottato per portare a termine le tante imprese iniziate e interrotte, e per resistere alle fatiche immani dei viaggi attraverso la Spagna e alle calunnie, in un tempo in cui la Chiesa sapeva di avere bisogno di riforma, ma era anche irrigidita e sospettosa nei confronti di ogni novità che poteva nascondere l’eresia.
Teresa, come quasi tutte le mistiche, è stata accusata di possessione diabolica, ma poi ha sedotto con la sua passione e con la sua sicurezza anche chi le era contrario, aiutata da alcuni religiosi e in particolare da Juan de la Cruz, il grande mistico che detiene con lei la vetta del misticismo spagnolo.
I continui viaggi, le molte lettere indirizzate alle autorità e la fatica continua di stringere alleanze e coltivare relazioni — che erano necessarie per realizzare i suoi progetti — non le impediscono di pregare, di vivere straordinarie esperienze mistiche, e soprattutto di scrivere. Teresa è una grande scrittrice, che sa passare nello stesso testo dal registro ironico o avventuroso a quello mistico, coinvolgendo profondamente il lettore. I suoi libri più interessanti sono La vita e il Libro delle fondazioni, dove racconta ostacoli e successi per fondare quindici monasteri, un percorso interrotto dalla morte a sessantasette anni, entrambi scritti autobiografici in tempi in cui non si pensava che una donna avesse qualcosa da raccontare.
Gli altri libri sono insegnamenti sulla via mistica per le sue consorelle: Il cammino di perfezione e Il castello interiore. Qui la protagonista è l’anima, cioè l’essere umano che può essere anche di sesso femminile e che vive l’avventura spirituale dell’incontro con Dio. Un incontro che si raggiunge attraverso l’orazione ma che è anche una via di conoscenza: «Io non ho mai capito un granché fino a quando il Signore non me lo ha fatto comprendere in maniera sperimentale». Nei secoli successivi tante monache hanno cercato di seguire il suo esempio, non molto benviste dalle gerarchie che diffidavano di questa via libera per arrivare a Dio senza la mediazione del clero.
Interessantissime sono anche le lettere, dalle quali emerge la sua acuta ironia e dove mette nero su bianco quello che sa di non poter scrivere nei libri: «Liberaci, o Signore, dalle sciocche devozioni dei santi con la faccia triste». E nelle quali scrive che i vangeli sono pieni di donne, e con ruoli importanti. Non ha avuto bisogno del femminismo per accorgersene.
FRANCO E LA MANO DESTRA
La sua fama di donna saggia e potente la portò a svolgere un ruolo decisivo nella disputa che sconvolse l’ordine carmelitano e la Chiesa spagnola, divisa fra scalzi e calzati, cioè fra coloro che volevano la riforma da lei propugnata e coloro che invece insistevano per mantenere le più indulgenti regole tradizionali. La disputa provocò conflitti anche gravi, fino a quando la mediazione di Roma permise di arrivare alla soluzione auspicata Teresa: cioè la separazione dei due rami, che sanciva in questo modo l’autonomia degli scalzi.
Dopo la rapida canonizzazione nel 1622, quarant’anni dopo la morte, il suo corpo fu spezzettato, come si usava allora per i santi, e diviso fra i vari monasteri da lei fondati. Ma la sua mano destra ha avuto nell’età contemporanea un inaspettato destino politico: il generalissimo Francisco Franco la sottrasse al monastero che la custodiva per tenerla presso di sé fino alla morte, nel 1975, come prova della sua devozione per Teresa, che chiamava santa de la raza.
Ma Franco morì poco prima di una clamorosa scoperta: la famiglia paterna di Teresa era di origine ebraica, e si era convertita dopo la cacciata degli ebrei dalla Spagna nel 1492. Il nonno di Teresa era entrato nella cattedrale di Toledo — città da cui provenivano — con in testa il sambenito, cioè il cappellino che li segnalava come ebrei e li esponeva al dileggio della folla prima della conversione. Il trasferimento della famiglia ad Ávila evidentemente era avvenuto per cancellare la memoria di questa umiliazione. Il generalissimo non avrebbe apprezzato. Noi invece possiamo accogliere con gioia questa prova ulteriore dei mille legami fra popolo ebraico e mondo cristiano, testimoniati da una delle donne più importanti della storia della Chiesa.
Supplemento 7 al «Corriere della sera» del 28 novembre 2025