01 agosto 2017

Il socialismo è malato (ma può anche riprendersi)

Partiti vecchi e nuovi
di Paolo Franchi
L’ambizione antica di portare avanti quelli che restano indietro ha ritrovato una sua legittimazione quando tutto sembrava parlare in senso contrario
Un giorno il Politburo stabilì, su proposta di Michail Suslov, di mettere nero su bianco nello statuto del partito che il marxismo-leninismo non era una filosofia, ma una scienza. La decisione fu sottoposta al voto, stancamente unanime, di tutte le strutture del Pcus. Nell’ultima, sperdutissima sezione, però, il compagno Popov, raggelando gli astanti, chiese la parola. Nessun dubbio, per carità, il marxismo–leninismo era una scienza. Ma allora come mai, prima di applicarla agli umani, non la si era sperimentata sui topi?
Il riaprirsi del dibattito sulla fine del socialismo e dei partiti socialisti mi ha fatto tornare alla mente questa vecchia barzelletta sovietica. Una ragione c’è. Il socialismo, in tutte le sue varianti, non si presta alle ironie del compagno Popov: perché, a differenza del comunismo, con tutto il rispetto per Karl Marx non è «scientifico». Non ha più da un pezzo un’ortodossia, uno statuto ideologico rigido, un obiettivo finale con cui fare i conti. Il movimento è tutto, il fine è nulla, aveva sostenuto già nel 1899 il revisionista Eduard Bernstein. Se ne ebbe in cambio l’espulsione dalla Spd. Ma settant’anni dopo un altro grande socialdemocratico tedesco, Willy Brandt, parlava con Oriana Fallaci del socialismo come di «un orizzonte che non raggiungeremo mai, e a cui tentiamo di andare sempre più vicino». E il nostro Pietro Nenni, che fino all’ultimo volle essere giudicato «come un militante della classe operaia e del movimento socialista», lo definiva come la lotta incessante «per portare avanti quelli che sono nati indietro».
A lungo questa sostanziale indifferenza alla teoria fu considerata (in Italia, ma non solo in Italia; a sinistra, ma non solo a sinistra) un insuperabile limite congenito del movimento socialista. C’era del vero, in questo giudizio, specie in un tempo in cui, a confrontarsi, erano ideologie e visioni del mondo potenti e all’apparenza inossidabili. Ma, adesso che così non è più da un pezzo, questo limite può persino trasformarsi in una potenzialità. Anche se solo a dirlo si rischia di passare per visionari, forse sarebbe il caso di cominciare a discuterne. Il socialismo è morto?
Andiamoci piano. Di sicuro gravissimamente malati sono i partiti socialisti e socialdemocratici per come li abbiamo conosciuti, i quali, dopo aver stravinto la lunga guerra a sinistra, sono poi riusciti, uno dopo l’altro, a straperdere la pace. I motivi del disastro sono ovviamente tantissimi, ma qui interessa sottolinearne uno su tutti. E cioè la diffusa convinzione (addirittura ostentata, negli anni Novanta del secolo scorso, con un fastidioso entusiasmo da neofiti) che, caduta l’Unione Sovietica, anche la stagione della battaglia per «portare avanti quelli che sono nati indietro» fosse finita una volta per tutte, assieme a quella del compromesso democratico tra capitale e lavoro organizzato che aveva garantito in Europa la prosperità e la democrazia nei decenni precedenti; e che si trattasse piuttosto di dimostrarsi più convincenti delle destre nel praticare la religione del mercato nel tempo della globalizzazione. Per questa via, i partiti socialisti e socialdemocratici conquistarono spesso il governo, ma smarrirono la loro stessa ragione sociale di esistenza, senza riuscire a individuarne un’altra che non fosse solo quella, pur meritoria, della difesa e dell’allargamento dei diritti civili e delle libertà individuali. Non passarono la nottata: la storia provvide rapidamente a fornire le sue dure repliche.
In Europa e in tutto l’Occidente chi era nato indietro è stato ricacciato ancora più indietro, chi aveva avuto, o meglio si era guadagnato, la possibilità di fare dei sostanziosi passi in avanti è stato costretto a percorrere a ritroso il cammino; e questo non è valso, anzi, a garantire nuove chances di vita ai giovani. Sì, certo: la globalizzazione ha cambiato tutto. Ma non era scritto che alla filosofia dell’inclusione e dell’integrazione crescente dovesse subentrare quella dell’esclusione e della chiusura, con tutto ciò che essa comporta, a cominciare dalla crescita senza precedenti delle sperequazioni sociali: i ricchi (non pochi) sempre più ricchi, i poveri (moltissimi) sempre più poveri. Come riconobbe l’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano già nel 2012, «dovremmo parlare non più di disagio … ma di una vera e propria questione sociale».
Non sono stati i partiti socialisti a guidare questo processo. Ma non si sono nemmeno provati a contrastarlo. E non hanno neanche compreso che una simile, gigantesca trasformazione si porta appresso un cambiamento tellurico della morfologia sociale, culturale e politica; tanto più perché si accompagna a fenomeni (le grandi migrazioni, per cominciare) destinati, ci piaccia o no, a cambiare la vita nostra, e soprattutto quella dei nostri figli e dei figli dei nostri figli.
A lungo si è ragionato come se lo sbocco pressoché obbligato di tutto ciò fosse il dilagare del populismo vetero-sovranista e xenofobo. Le cose non stanno necessariamente così, come testimoniano anche i successi di leader pure molto diversi, come Bernie Sanders, Jean-Luc Mélenchon e, da ultimo, Jeremy Corbyn. Non si tratta di copiarli, ma di prendere atto che l’ambizione antica di portare avanti quelli che sono nati, o sono stati ricacciati, indietro, ha ritrovato una sua legittimazione quando tutto sembrava parlare, da decenni, in senso contrario. La parola indicibile, socialismo, può di nuovo essere pronunciata e declinata. Apostoli che ci facciano tornare alla mente i socialisti delle origini in giro non se ne vedono. Ma nulla esclude che possa farsi pensiero politico, organizzazione, programma, e riprendere la sua lunga marcia.
«Corriere della sera» del 24 luglio 2017

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