01 agosto 2017

Fine vita e legge del silenzio

di Aldo Cazzullo
Diceva Umberto Veronesi che nessun malato terminale gli aveva mai chiesto di morire; tutti gli avevano sempre chiesto di guarire. Ma cosa accade quando una persona non è più responsabile di se stessa? Quando la scienza non è in grado di guarire, però consente di tenere in vita, senza limiti di tempo ma anche senza speranza? Nei giorni in cui il mondo piange il piccolo Charlie, l’Italia si interroga anche sulla storia di Elisa, raccontata venerdì sul Corriere da Andrea Pasqualetto. Elisa è in «stato vegetativo permanente» da dodici anni. Il padre Giuseppe dice di non sapere cosa fare. Non osa chiedere di «staccare la spina» e provocare la morte della figlia; ma non se la sente neppure di andare avanti così, pensando anche a quel che accadrà quando lui non ci sarà più. Nella stanza di Elisa, nel letto accanto, c’è un’altra donna, molto più anziana. Eros, suo figlio, sostiene che non intende stabilire lui il destino della madre, che «deve essere lo Stato a decidere». Sono parole terribili, in una situazione terribile. L’idea di uno Stato che decida come Atropo quali fili di vita troncare e quali tessere è giustamente lontana dalle nostre sensibilità. Ma l’alternativa non può essere neppure quella di lasciare soli un padre e un figlio, di fronte alla sopravvivenza o alla morte dei loro cari. Diciamo la verità: su questo tema, la politica italiana ha avuto due attitudini, a seconda delle circostanze.
La prima è stata intervenire per decreto, sull’onda emotiva di un caso — la giovane Eluana Englaro, una storia non lontana da quella di Elisa —, su cui si innestò una componente ideologica. La seconda è stata rimuovere, rinviare, prendere tempo. Nessuna delle due attitudini ha portato né porterà un risultato utile alle persone che soffrono e alla comunità di cui tutti facciamo parte, e che con la morte finiremo per confrontarci, per quanto tentiamo di esorcizzarla. Certo, il tema del fine vita è divisivo. Ma questa non è una buona ragione per non parlarne e non decidere. Al contrario, è il momento di affrontare una grande discussione, aperta, libera, rispettosa delle opinioni altrui, e soprattutto non inconcludente. Lo scorso 20 aprile è passata alla Camera una legge forse imperfetta, ma che riconosce il diritto di rinunciare ad alcune terapie senza passare dai tribunali, indicando la propria volontà quando ancora si è in grado di farlo; però è quasi certo che il Senato non riuscirà o non vorrà approvarla.
Si sente obiettare che in Parlamento non c’è una maggioranza solida, né ci sarà dopo le prossime elezioni. Ma una questione così complessa deve essere disciplinata da un accordo vasto, che possa reggere alle alternanze, anziché essere disfatto o capovolto al primo cambio politico. Oggi questa discussione è possibile anche perché la Chiesa, da sempre molto attenta alla legislazione italiana, ha rinunciato non ovviamente ai propri valori ma a un atteggiamento intransigente che non aveva aiutato né il confronto né il varo di norme destinate a durare. Anche la Chiesa sostiene che una legge ci vuole. Resta da stabilire quale. Un sistema di regole rigido e intrusivo non sarebbe una buona soluzione. Esistono spazi lasciati all’umanità dei medici e alla pietà dei familiari che ogni giorno alleviano sofferenze fisiche e patimenti morali. Ma di fronte a casi controversi la risposta non può essere soltanto il silenzio. Oggi ci confrontiamo soprattutto sulle storie dei giovani e dei bambini, come Charlie, che scuote le nostre coscienze. Si parla meno dei nostri grandi anziani. Ogni tanto qualcuno di loro va in Svizzera a farla finita, o annuncia di volerlo fare; oppure si appropria della sorte in modo tragico, come Mario Monicelli. La scienza non ha abolito la morte, l’ha resa più difficile; aprendo la strada a vecchiaie lunghissime, che possono essere serene e produttive, ma anche foriere di paura e disperazione. Interrogarci, parlarne, decidere non può più essere un tabù.
«Corriere della sera» del 29 luglio 2017

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