La droga non ha risolto, anzi ha amplificato e cronicizzato le paure e le insicurezze da cui si tenta di fuggire, e così si deve ricominciare
di Antonio Polito
Ci sbalordisce la morte di una ragazza di 16 anni per una pasticca di ecstasy. Proviamo stupore, insieme con il dolore. Ma come, morire per una pillola, che gira ovunque nelle notti della movida, che serve solo a divertirsi un po’ di più. Morire per una sostanza che forse una volta o due ha preso anche nostro figlio? Il fatto è che la nostra soglia di tolleranza sulle droghe si è abbassata. Abbiamo smesso di credere che tutte le sostanze psicotrope, tutte, facciano male, quale più quale meno, a chi più a chi meno, ma nessuna esclusa. Abbiamo fatto nostra una distinzione che proviene da un’epoca lontana, quella tra droghe «leggere» e «pesanti», e che forse non ha più riscontro né nelle logiche del mercato né in quelle dei ragazzi che ne fanno uso. Di conseguenza la nostra cultura ha abbassato la guardia, ha preso ad accettare come normale la voglia dei giovani di «sballare», di tanto in tanto: «a scopo ricreativo», diciamo con un eufemismo.
Più che distinguere tra le sostanze che assumono i nostri ragazzi, dovremmo infatti chiederci perché lo fanno, identificare il pensiero che li muove, il bisogno che li spinge. Non è difficile, ce lo dicono loro cos’è che cercano. È evasione, fuga dalla realtà, voglia di dimenticare per un po’ le cose della vita che comportano fatica, frustrazione, o dolore. Ci si fa per «staccare la spina». E poi lo si rifà non perché abbia funzionato, e la realtà sia veramente sparita per qualche ora, ma per il contrario, perché la droga non ha risolto, anzi ha amplificato e cronicizzato le paure e le insicurezze da cui si tenta di fuggire, e così si deve ricominciare. Tra l’accettare come «normale» questa ansia di evasione dei nostri figli, anche per una sera, e accettare l’uso delle sostanze stupefacenti più «leggere», il passo non è lungo. La battaglia contro le droghe non può essere vinta se non è anche una battaglia contro le idee e i miti che ci sono dietro. Spesso le sostanze che vanno per la maggiore rispondono allo spirito del tempo. Furono uno strumento per l’allargamento della coscienza, quando l’acido bruciava la mente di una generazione nelle poesie di Allen Ginsberg. Poi furono annientamento della coscienza, nella stagione plumbea dell’eroina. Poi ancora una ricerca di iper-stimolazione della coscienza, ai tempi della coca e degli yuppie.
Oggi ciò che si cerca è un’ipnosi della coscienza. Ma sono sempre una forma di dipendenza, e come tale andrebbero sempre combattute perché rubano libertà ai giovani. Per noi genitori non ci possono essere ambiguità. Gli adulti «devono far passare l’idea che in un percorso di crescita non c’è spazio per le sostanze psicotrope, che usarle come un tampone per gli sbalzi emotivi che gli adolescenti provano è una falsa soluzione». L’ha detto al Corriere Roberto Pellai, medico e psicoterapeuta, ed è proprio così. Invece tergiversiamo. Spacchiamo il capello. Distinguiamo, magari per accontentarci della riduzione del danno. Non si vuole aprire qui il dibattito sulla legalizzazione dello spinello. Forse è meglio aspettare e vedere come va in Uruguay, dove la sperimentazione è già partita, e in Canada e California dove partirà. Ma i liberalizzatori certamente sottovalutano due aspetti. Il primo: stabilire che a 18 anni si può «sballare» e pretendere che a 17 e 11 mesi sia vietato, legalizzare cioè per gli adulti lasciando il divieto per i minorenni, non ha senso. Daremmo un messaggio pericoloso ai nostri figli: non è che fa male la droga, siete voi che siete troppo piccoli per goderne. Per diventare grandi, non vorranno fare altro, come già avviene con alcol e sigarette. Il secondo problema è che nelle notti dei nostri ragazzi non si fa poi tutta questa differenza tra sostanze, shottino chiama spinello che chiama pasticca che chiama cocaina.
Ci sono circa mille sostanze in circolazione. Funziona tutto ciò che fa «sballare», dal coma etilico al sesso promiscuo. Al Sert di Genova ci sono un centinaio di ragazzi in cura tra i 13 e i 19 anni, con dipendenze soprattutto da hashish, e circa 600 più grandi per «fumo» e cocaina. La metà ha cominciato nelle notti della movida. Viene in mente la mamma di Lavagna, un posto non lontano da Chiavari, dove viveva la ragazza morta l’altra sera a Genova per una pasticca. Quella mamma che aveva denunciato ai finanzieri gli spinelli del figlio, e che l’ha visto saltare giù dal balcone durante la perquisizione. Al funerale disse, seppure sconvolta dal dolore, che aveva fatto la cosa giusta, perché «non poteva accettare di vedere suo figlio perdersi e ha provato con ogni mezzo a combattere la dipendenza». Il fatto che quella mamma abbia perso così crudelmente la sua battaglia, non vuol dire che noi non la si debba continuare.
Più che distinguere tra le sostanze che assumono i nostri ragazzi, dovremmo infatti chiederci perché lo fanno, identificare il pensiero che li muove, il bisogno che li spinge. Non è difficile, ce lo dicono loro cos’è che cercano. È evasione, fuga dalla realtà, voglia di dimenticare per un po’ le cose della vita che comportano fatica, frustrazione, o dolore. Ci si fa per «staccare la spina». E poi lo si rifà non perché abbia funzionato, e la realtà sia veramente sparita per qualche ora, ma per il contrario, perché la droga non ha risolto, anzi ha amplificato e cronicizzato le paure e le insicurezze da cui si tenta di fuggire, e così si deve ricominciare. Tra l’accettare come «normale» questa ansia di evasione dei nostri figli, anche per una sera, e accettare l’uso delle sostanze stupefacenti più «leggere», il passo non è lungo. La battaglia contro le droghe non può essere vinta se non è anche una battaglia contro le idee e i miti che ci sono dietro. Spesso le sostanze che vanno per la maggiore rispondono allo spirito del tempo. Furono uno strumento per l’allargamento della coscienza, quando l’acido bruciava la mente di una generazione nelle poesie di Allen Ginsberg. Poi furono annientamento della coscienza, nella stagione plumbea dell’eroina. Poi ancora una ricerca di iper-stimolazione della coscienza, ai tempi della coca e degli yuppie.
Oggi ciò che si cerca è un’ipnosi della coscienza. Ma sono sempre una forma di dipendenza, e come tale andrebbero sempre combattute perché rubano libertà ai giovani. Per noi genitori non ci possono essere ambiguità. Gli adulti «devono far passare l’idea che in un percorso di crescita non c’è spazio per le sostanze psicotrope, che usarle come un tampone per gli sbalzi emotivi che gli adolescenti provano è una falsa soluzione». L’ha detto al Corriere Roberto Pellai, medico e psicoterapeuta, ed è proprio così. Invece tergiversiamo. Spacchiamo il capello. Distinguiamo, magari per accontentarci della riduzione del danno. Non si vuole aprire qui il dibattito sulla legalizzazione dello spinello. Forse è meglio aspettare e vedere come va in Uruguay, dove la sperimentazione è già partita, e in Canada e California dove partirà. Ma i liberalizzatori certamente sottovalutano due aspetti. Il primo: stabilire che a 18 anni si può «sballare» e pretendere che a 17 e 11 mesi sia vietato, legalizzare cioè per gli adulti lasciando il divieto per i minorenni, non ha senso. Daremmo un messaggio pericoloso ai nostri figli: non è che fa male la droga, siete voi che siete troppo piccoli per goderne. Per diventare grandi, non vorranno fare altro, come già avviene con alcol e sigarette. Il secondo problema è che nelle notti dei nostri ragazzi non si fa poi tutta questa differenza tra sostanze, shottino chiama spinello che chiama pasticca che chiama cocaina.
Ci sono circa mille sostanze in circolazione. Funziona tutto ciò che fa «sballare», dal coma etilico al sesso promiscuo. Al Sert di Genova ci sono un centinaio di ragazzi in cura tra i 13 e i 19 anni, con dipendenze soprattutto da hashish, e circa 600 più grandi per «fumo» e cocaina. La metà ha cominciato nelle notti della movida. Viene in mente la mamma di Lavagna, un posto non lontano da Chiavari, dove viveva la ragazza morta l’altra sera a Genova per una pasticca. Quella mamma che aveva denunciato ai finanzieri gli spinelli del figlio, e che l’ha visto saltare giù dal balcone durante la perquisizione. Al funerale disse, seppure sconvolta dal dolore, che aveva fatto la cosa giusta, perché «non poteva accettare di vedere suo figlio perdersi e ha provato con ogni mezzo a combattere la dipendenza». Il fatto che quella mamma abbia perso così crudelmente la sua battaglia, non vuol dire che noi non la si debba continuare.
«Corriere della sera» del 30 luglio 2017
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