Il tempo delle donne
di Barbara Stefanelli
Le donne sono riuscite a spingere il mito della maternità e l’utopia del piacere verso un’idea nuova che dia felicità?
Il primo anno abbiamo parlato di lavoro, perché l’indipendenza economica delle donne resta la più potente rivoluzione possibile per spingere l’Italia verso una modernità che non si fermi alla vetrina di poche. Il secondo di maternità, scoprendo in diretta quanto siano importanti i padri per una condivisione dei compiti (e delle emozioni) che superi lo schema mai decollato della conciliazione pensata solo al femminile. Quest’anno il Tempo delle Donne — festival, festa, convegno del Corriere della Sera — ha scelto di indagare sull’amore e sul sesso in Italia. E molti ci hanno chiesto perché. Perché proprio questo tema al centro di un’inchiesta lunga e radicale, che ha coinvolto decine di giornalisti e che si apre ora al confronto con le lettrici e i lettori?
Una risposta la prendiamo in prestito dal libro che ha segnato il 2016: La scuola cattolica, di Edoardo Albinati, il quale ha messo a nudo il corpo degli uomini lungo centinaia e centinaia di pagine ancorate al delitto del Circeo. Scrive Albinati: «Si direbbe che il sesso riguardi solo la vita privata degli individui, unicamente la loro camera da letto, e invece scuote da cima a fondo l’intera società per poi rimodellarla in forme nuove, riposizionando tutti i valori, riformulando i rapporti (...). La passione sessuale è l’origine stessa della personalità».
Se questo è vero, come crediamo, qual è lo stato delle cose mezzo secolo dopo il ‘68 che fece della liberazione sessuale un punto di ripartenza nelle relazioni tra gli uomini e le donne? Quella «nuova economia morale» — che l’Europa abbracciò in nome di un riconoscimento incondizionato del piacere femminile e del diritto di tutti a una ricerca personale non più domata da codici eterodiretti che si erano fermati ai valori dei bisnonni — ha davvero cambiato le parole e i pensieri degli italiani 53 anni dopo i Comizi d’amore raccolti da Pier Paolo Pasolini?
I cambiamenti ci sono stati e ciascuno li può misurare accostandoli ai racconti che le famiglie custodiscono di generazione in generazione. Conosciamo l’euforia della sperimentazione, tra gli Anni 60 e 70, e le inquietudini che la solitudine etica può generare rispetto agli alti scudi della «morale comune» o del «comune senso del pudore». Oggi — spiega Carmen Leccardi in uno studio dedicato a Le trasformazioni della morale sessuale e dei rapporti tra i generi — ci troviamo di fronte a nuove forme di regolazione sociale della sessualità, di natura individualizzata, e non a un’assenza di norme. Ma la chiamata alla responsabilità in tema di scelte morali è impegnativa, spesso faticosa, perché lascia spazio tanto a incertezze e timori quanto a movimenti organizzati di opposizione. Nel ventunesimo secolo — commenta Marta Boneschi a conclusione di Senso, straordinario racconto-resoconto dei costumi degli italiani che attraversa la cronaca, la Tv, il cinema, i romanzi, i giornali «per soli uomini», le parole delle encicliche e quelle dei primi siti porno, le piazze, le aule parlamentari — «l’esperienza del sesso si presenta densa di problemi e ansie, non meno che alla fine dell’Ottocento». E questo nonostante un’onda gigantesca sia passata sulle nostre vite, ribaltando le leggi e rovesciando le parole per dirlo. Nel dizionario Bergoglio del 1896, lo stupro è «corrompimento di verginità»; nel Garzanti 1994 «un atto sessuale imposto con la violenza»; una vergine era «una femmina pura e innocente», sarebbe diventata «una donna che non ha mai avuto rapporti sessuali».
I bilanci in campo sentimentale e sessuale sono riservati, resistono a una sintesi generazionale, è vero, tuttavia dopo mesi di inchiesta una sensazione diffusa si impone ed è quella di una rivoluzione incompiuta. «Noi donne — ragiona Barbara Mapelli, femminista, partendo da un suo ricordo del raduno al Parco Lambro con quell’atmosfera da "cuccagna" collettiva, per tornare ad attingere alle pagine di Albinati — volevamo scrollarci dalle spalle e dalla vita il pesante basto della sessualità non riconosciuta, non consentita, repressa: ciò che volevamo era più che legittimo, ma forse lo abbiamo vissuto con ingenuità e presunzione, come se bastasse voltare una pagina...».
Restano spazi oscuri nel profondo dei corpi; salgono e risalgono in superficie pregiudizi e stereotipi dei quali sorridiamo in tempi di tregua; non arretra il baratro del controllo sulle donne dove si spinge feroce una parte degli uomini per spegnere il disagio, la paura di essere fuori tempo massimo. Ed è qui — nel terreno franato di un’educazione sentimentale, sessuale, di genere sempre temuta, o solo sottovalutata, e di conseguenza allontanata anche dai nostri figli — che le radici della violenza crescono ancora e ancora, sorprendendoci quasi ogni giorno.
Non avevamo arredato case dove potevamo amare ma anche andare via, in pace e rispetto? E «la democrazia sessuale» non si era sostituita a ogni forma di omofobia? Ancora: le donne — prime protagoniste di quella rivoluzione — sono riuscite a ridisegnare il mito della maternità e l’utopia del piacere, a svestire e rivestire mito e utopia in un’idea nuova, affrancata da ideologie contrapposte, l’unica capace di rifondare la nostra ricerca individuale di felicità?
A questa domanda la risposta è sì: ci stiamo provando, ma non possiamo fermarci. Come non possiamo — e non vogliamo — smettere di scrivere e riflettere sull’amore. Il viaggio è lungo e non prevede una fine, perché le cose cambiano e noi con loro. Ma questo scarto non toglie senso alla ricerca e alla narrazione della ricerca stessa. Al contrario.
C’è una seconda ragione che ha dato forza a questa inchiesta del Corriere. L’abbiamo immaginata e approfondita nel tempo perché eravamo liberi e libere di farlo. Nella stagione del burka da vietare, del burkini non da vietare ma per noi incomprensibile, degli agguati a come viviamo e siamo, in questa stagione di paure e crisi tutte ingarbugliate, indagare sul sesso e sull’amore, sulle relazioni tra uomini e donne, tra uomini e uomini, tra donne e donne, è un’espressione della nostra identità. Di quella cultura — europea e d’Occidente — alla quale apparteniamo, nella quale ci riconosciamo guardandoci l’un l’altra, alla pari. Una cultura di libertà che non dobbiamo soltanto difendere quando siamo sotto attacco, nell’elaborazione del lutto, ma tornare ad affermare con forza, nella riflessione su come stiamo e come vorremmo stare, insieme.
Una risposta la prendiamo in prestito dal libro che ha segnato il 2016: La scuola cattolica, di Edoardo Albinati, il quale ha messo a nudo il corpo degli uomini lungo centinaia e centinaia di pagine ancorate al delitto del Circeo. Scrive Albinati: «Si direbbe che il sesso riguardi solo la vita privata degli individui, unicamente la loro camera da letto, e invece scuote da cima a fondo l’intera società per poi rimodellarla in forme nuove, riposizionando tutti i valori, riformulando i rapporti (...). La passione sessuale è l’origine stessa della personalità».
Se questo è vero, come crediamo, qual è lo stato delle cose mezzo secolo dopo il ‘68 che fece della liberazione sessuale un punto di ripartenza nelle relazioni tra gli uomini e le donne? Quella «nuova economia morale» — che l’Europa abbracciò in nome di un riconoscimento incondizionato del piacere femminile e del diritto di tutti a una ricerca personale non più domata da codici eterodiretti che si erano fermati ai valori dei bisnonni — ha davvero cambiato le parole e i pensieri degli italiani 53 anni dopo i Comizi d’amore raccolti da Pier Paolo Pasolini?
I cambiamenti ci sono stati e ciascuno li può misurare accostandoli ai racconti che le famiglie custodiscono di generazione in generazione. Conosciamo l’euforia della sperimentazione, tra gli Anni 60 e 70, e le inquietudini che la solitudine etica può generare rispetto agli alti scudi della «morale comune» o del «comune senso del pudore». Oggi — spiega Carmen Leccardi in uno studio dedicato a Le trasformazioni della morale sessuale e dei rapporti tra i generi — ci troviamo di fronte a nuove forme di regolazione sociale della sessualità, di natura individualizzata, e non a un’assenza di norme. Ma la chiamata alla responsabilità in tema di scelte morali è impegnativa, spesso faticosa, perché lascia spazio tanto a incertezze e timori quanto a movimenti organizzati di opposizione. Nel ventunesimo secolo — commenta Marta Boneschi a conclusione di Senso, straordinario racconto-resoconto dei costumi degli italiani che attraversa la cronaca, la Tv, il cinema, i romanzi, i giornali «per soli uomini», le parole delle encicliche e quelle dei primi siti porno, le piazze, le aule parlamentari — «l’esperienza del sesso si presenta densa di problemi e ansie, non meno che alla fine dell’Ottocento». E questo nonostante un’onda gigantesca sia passata sulle nostre vite, ribaltando le leggi e rovesciando le parole per dirlo. Nel dizionario Bergoglio del 1896, lo stupro è «corrompimento di verginità»; nel Garzanti 1994 «un atto sessuale imposto con la violenza»; una vergine era «una femmina pura e innocente», sarebbe diventata «una donna che non ha mai avuto rapporti sessuali».
I bilanci in campo sentimentale e sessuale sono riservati, resistono a una sintesi generazionale, è vero, tuttavia dopo mesi di inchiesta una sensazione diffusa si impone ed è quella di una rivoluzione incompiuta. «Noi donne — ragiona Barbara Mapelli, femminista, partendo da un suo ricordo del raduno al Parco Lambro con quell’atmosfera da "cuccagna" collettiva, per tornare ad attingere alle pagine di Albinati — volevamo scrollarci dalle spalle e dalla vita il pesante basto della sessualità non riconosciuta, non consentita, repressa: ciò che volevamo era più che legittimo, ma forse lo abbiamo vissuto con ingenuità e presunzione, come se bastasse voltare una pagina...».
Restano spazi oscuri nel profondo dei corpi; salgono e risalgono in superficie pregiudizi e stereotipi dei quali sorridiamo in tempi di tregua; non arretra il baratro del controllo sulle donne dove si spinge feroce una parte degli uomini per spegnere il disagio, la paura di essere fuori tempo massimo. Ed è qui — nel terreno franato di un’educazione sentimentale, sessuale, di genere sempre temuta, o solo sottovalutata, e di conseguenza allontanata anche dai nostri figli — che le radici della violenza crescono ancora e ancora, sorprendendoci quasi ogni giorno.
Non avevamo arredato case dove potevamo amare ma anche andare via, in pace e rispetto? E «la democrazia sessuale» non si era sostituita a ogni forma di omofobia? Ancora: le donne — prime protagoniste di quella rivoluzione — sono riuscite a ridisegnare il mito della maternità e l’utopia del piacere, a svestire e rivestire mito e utopia in un’idea nuova, affrancata da ideologie contrapposte, l’unica capace di rifondare la nostra ricerca individuale di felicità?
A questa domanda la risposta è sì: ci stiamo provando, ma non possiamo fermarci. Come non possiamo — e non vogliamo — smettere di scrivere e riflettere sull’amore. Il viaggio è lungo e non prevede una fine, perché le cose cambiano e noi con loro. Ma questo scarto non toglie senso alla ricerca e alla narrazione della ricerca stessa. Al contrario.
C’è una seconda ragione che ha dato forza a questa inchiesta del Corriere. L’abbiamo immaginata e approfondita nel tempo perché eravamo liberi e libere di farlo. Nella stagione del burka da vietare, del burkini non da vietare ma per noi incomprensibile, degli agguati a come viviamo e siamo, in questa stagione di paure e crisi tutte ingarbugliate, indagare sul sesso e sull’amore, sulle relazioni tra uomini e donne, tra uomini e uomini, tra donne e donne, è un’espressione della nostra identità. Di quella cultura — europea e d’Occidente — alla quale apparteniamo, nella quale ci riconosciamo guardandoci l’un l’altra, alla pari. Una cultura di libertà che non dobbiamo soltanto difendere quando siamo sotto attacco, nell’elaborazione del lutto, ma tornare ad affermare con forza, nella riflessione su come stiamo e come vorremmo stare, insieme.
«Il corriere della sera» del 9 settembre 2016
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