14 settembre 2016

Non chiudiamoci nel passato

di Angelo Varni
C’è in questa, pur encomiabile, difesa dell’indiscutibile valore formativo del “nostro” liceo classico (si vedano gli articoli pubblicati sul Domenicale del 28 agosto: Scuola modello per l’occidente e Perché la versione serve a un fisico) un insieme di disparate motivazioni che, ai miei occhi, faticano a confrontarsi in positivo con una realtà odierna mutata rispetto ai tempi dell’”invenzione” di quella scuola.
Subito appare fuorviante l’equiparazione tra scienze umane e conoscenza/ traduzione della lingua latina e greca, che porta a deplorare la sparizione da tante università del mondo dei dipartimenti umanistici, il più delle volte da sempre privi di qualsiasi insegnamento delle due lingue suddette.
E allora non mi pare questo il problema, bensì credo sia necessario domandarsi perché si rinunci a queste discipline tradizionali, andando oltre la consueta argomentazione del prevalere delle ragioni di un mondo dominato dalle esigenze dell’economia finanziaria attenta solo ai numeri, agli equilibri di bilancio, al mordi e fuggi dell’immediato profitto. Come se la realtà precedente, quella in cui le humanities erano al centro del sistema educativo, fosse fatta solo di buoni e disinteressati sentimenti, estranei al tornaconto economico. Forse sono indispensabili riflessioni un poco più approfondite e meno corporative, per spiegare una simile decadenza, che non può non dipendere da una valutazione riguardante proprio la loro capacità formativa.
Da sempre, infatti, da quando esiste la scuola in tutti i suoi ordini e gradi, tutte le società hanno cercato di fornire ai giovani quanto potesse servire a costruire un livello di conoscenze utile al loro futuro secondo la scala di gerarchie sociali nella quale andassero a collocarsi, affidando all’università il ruolo primario di sviluppare le competenze di una nuova classe dirigente.
Dovremmo, quindi, ritenere che le scelte in corso in tanti paesi tra i più avanzati del mondo siano solo frutto di un’ improvvisa cecità rispetto a tali obiettivi e di un aprioristico rifiuto di valutare l’apporto delle scienze umane alla crescita delle stesse più raffinate tecnologie? Un’ipotesi questa, per altro, ampiamente superata nella pratica stessa dell’attività produttiva, oltre che nella teoria, in quanto i contenuti del saper fare in senso manuale e finanche artigianale nei nuovi terreni in corso di esplorazione dell’informatica, sono forniti da ambiti di linguaggio e di conoscenze critiche appartenenti appunto a settori conoscitivi diversi ed apparentemente lontani, che solo attraverso un fecondo confronto dialogico possono davvero interagire.
Ma torniamo al liceo classico, anzi al punto centrale del ragionamento dei due articoli, vale a dire l’importanza insostituibile del latino e del greco per affrontare le sfide dell’oggi.
Intanto, appunto, come prima rilevato, le humanities insegnate nella tradizione liceale non coprono affatto tutto l’arco delle scienze dell’uomo, quelle in grado di cogliere lo sviluppo temporale dell’individuo e della collettività, quella vicenda storica , quella contestualizzazione degli eventi e delle cose, quel riportare al presente quanto accaduto nel passato facendo parlare documenti, testi, tracce, indizi. Ciò che costituisce la vera differenziazione dalle scienze “ dure”, che hanno per oggetto il presente come universo da indagare e da ridurre a leggi generali. Ne restano fuori, ad esempio, o vi hanno uno spazio relativo/residuale la sociologia e l’antropologia, la psicologia e la semiotica, fino al dislocarsi geografico delle popolazioni, così cruciale in questi anni per comprendere le relazioni fra uomini e territori di un mondo tanto dilatatosi.
Gardini e Tonelli sottolineano l’importanza delle due antiche lingue (ed in particolare delle relative competenze logiche necessarie alla loro traduzione) per affinare certe abilità tecniche indispensabili anche alle scienze non umanistiche. Una scoperta che ha affascinato ed aiutato - come dimostra l’articolo di Guido Tonelli - molti ricercatori, ma che riguarda meritorie propensioni individuali e che poco ha a che vedere con l’assetto dei nostri corsi liceali.
Del resto come spiegare altrimenti la scarsissima presenza (certo le sporadiche eccezioni non mancano) di giovani scienziati italiani all’interno delle grandi imprese dell’innovazione informatica, a fronte dell’”invasione” di laureati provenienti da mondi (soprattutto asiatici) di ben diverso curriculum formativo ? Eppure, da tempo ormai, i prodotti elaborati da queste aziende sono sempre più ricchi di contenuti “ culturali”, di connessioni con le conoscenze “ umanistiche”, quelle dove la nostra formazione dovrebbe farci eccellere.
Forse, dunque, in una simile prospettiva di confronto con l’attuale universo globale, anche l’altra funzione affidata al “classico” , di immersione in antiche civiltà capaci di aprirci la mente ad una equilibrata conoscenza del reale («chi esce dal liceo classico - assicura Nicola Gardini - sa parlare, sa scrivere, sa pensare, ma soprattutto sa interpretare, mettere in rapporto, relativizzare, confrontare, distinguere [...] capire la libertà, la bellezza, la varietà e la concordia») finisce per chiuderci in noi stessi, nel nostro illustre passato, in una pretesa, ma indimostrabile (e forse inconsistente) superiorità.
Piuttosto che esercitarci nel sottoscrivere manifesti «a difesa», credo sia indispensabile muoverci per far sì che il richiamo alla nostra straordinaria tradizione di civiltà non resti una citazione colta, e magari nostalgica, usata per abbellire un’ esposizione di traguardi innovativi da raggiungere (come nel recente discorso di Zuckerberg a Roma); bensì permei nuovi modelli formativi indispensabili a generazioni che si confrontano con un mondo molto diverso da quello in cui noi siamo cresciuti.
«Il Sole 24 ore» dell'11 settembre 2016

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