Il popolarissimo cartoon
di Antonio Polito
«Inside Out» racconta cosa passa nel cervello della preadolescente Riley. Ma manca il «generatore di equilibrio»
Se andate a vedere Inside Out (andateci con la scusa di portarci i bambini, ne uscirete migliori) fate attenzione a un dettaglio. Come è ormai arcinoto, il film è una rappresentazione fantastica, ma scientificamente fondata, di ciò che passa nella mente di una pre-adolescente di undici anni, il tumulto e il conflitto tra i sentimenti, l’incontrarsi e scontrarsi delle emozioni, rabbia paura disgusto tristezza gioia. Ciò che però manca, del tutto, è la ragione. La guerra degli istinti è l’unica cosa che accade nel cervello di Riley. I suoi comportamenti sono determinati in una cabina di regia nella quale non siede nessun regista. Dunque non ci chiediamo nemmeno se siano ragionevoli o irragionevoli. Sono l’esito di una partita senza arbitro nella quale, forse in ossequio alla giovane età della protagonista, la sola Gioia esercita una leadership sugli altri giocatori, così che se appena appena si distrae l’intero autocontrollo di Riley crolla.
Quel generatore di equilibrio - la ragione, la razionalità, la ragionevolezza - in cui ogni genitore confida per moderare lo strapotere e la violenza dei sentimenti in un ragazzo, e ogni giorno lavora sodo per trasferirgliene i rudimenti appresi con l’esperienza di vita, qui non c’è. Dicono che il film conosce e rispetta le ultime scoperte della neurobiologia, e che le cose stiano davvero più o meno così nel nostro cervello. Ma se stanno così, a che pro tutto lo sforzo dell’educazione, del buon esempio, del trasferimento di valori tra le generazioni, se non c’è una ragione cui appellarsi? (E infatti, nel film, i genitori non possono più o meno niente, se non amare, se non irritare).
Per fortuna gli istinti di Riley, a loro volta mossi dall’istinto di sopravvivenza, si moderano a vicenda. Si potrebbe perfino dire, anche se il film non lo dice, che la ragionevolezza sia il frutto del compromesso che alla fine si stabilisce tra Gioia e Tristezza, quando Gioia capisce che anche un po’ di Tristezza è necessaria nella vita, se si vuole crescere. I ricordi della ragazza, prima giallo oro se fatti di Gioia, o blu se fatti di Tristezza, diventano così di un colore misto, tra il giallo e il blu. La ragione non è dunque altro che un effetto cromatico, come quando si mescolano i colori base su una tavolozza. Ma è un processo spontaneo, e casuale. Verrebbe da dire: irrazionale.
Oltre alla ragione, a essere pignoli, si potrebbe aggiungere un altro grande assente nella mente di Riley: il libero arbitrio. Non c’è infatti mai un momento in cui la nostra eroina sia chiamata a prendere una decisione, a scegliere tra diverse opzioni. Sono sempre gli istinti che la dirigono, in fuga da casa e poi di ritorno a casa, all’indietro verso un passato nostalgico e rassicurante da bambina o in avanti verso un futuro da adolescente che la turba per la sua imprevedibilità. Riley vive in un universo morale in cui non c’è spazio per la responsabilità individuale, e di fatto non c’è libertà; dunque non ci può essere colpa o peccato, ma neanche si intravede una persona, che non sia solo biologia. È forse il primo carattere nella storia del cinema senza un carattere . Il film è bellissimo, e, come vedete, fa riflettere. Ma è un segno dei tempi che nessuno abbia lamentato la scomparsa di quei due attori, la ragione e il libero arbitrio, che appena una generazione fa consideravamo indispensabili per l’edificazione di una vita adulta.
Quel generatore di equilibrio - la ragione, la razionalità, la ragionevolezza - in cui ogni genitore confida per moderare lo strapotere e la violenza dei sentimenti in un ragazzo, e ogni giorno lavora sodo per trasferirgliene i rudimenti appresi con l’esperienza di vita, qui non c’è. Dicono che il film conosce e rispetta le ultime scoperte della neurobiologia, e che le cose stiano davvero più o meno così nel nostro cervello. Ma se stanno così, a che pro tutto lo sforzo dell’educazione, del buon esempio, del trasferimento di valori tra le generazioni, se non c’è una ragione cui appellarsi? (E infatti, nel film, i genitori non possono più o meno niente, se non amare, se non irritare).
Per fortuna gli istinti di Riley, a loro volta mossi dall’istinto di sopravvivenza, si moderano a vicenda. Si potrebbe perfino dire, anche se il film non lo dice, che la ragionevolezza sia il frutto del compromesso che alla fine si stabilisce tra Gioia e Tristezza, quando Gioia capisce che anche un po’ di Tristezza è necessaria nella vita, se si vuole crescere. I ricordi della ragazza, prima giallo oro se fatti di Gioia, o blu se fatti di Tristezza, diventano così di un colore misto, tra il giallo e il blu. La ragione non è dunque altro che un effetto cromatico, come quando si mescolano i colori base su una tavolozza. Ma è un processo spontaneo, e casuale. Verrebbe da dire: irrazionale.
Oltre alla ragione, a essere pignoli, si potrebbe aggiungere un altro grande assente nella mente di Riley: il libero arbitrio. Non c’è infatti mai un momento in cui la nostra eroina sia chiamata a prendere una decisione, a scegliere tra diverse opzioni. Sono sempre gli istinti che la dirigono, in fuga da casa e poi di ritorno a casa, all’indietro verso un passato nostalgico e rassicurante da bambina o in avanti verso un futuro da adolescente che la turba per la sua imprevedibilità. Riley vive in un universo morale in cui non c’è spazio per la responsabilità individuale, e di fatto non c’è libertà; dunque non ci può essere colpa o peccato, ma neanche si intravede una persona, che non sia solo biologia. È forse il primo carattere nella storia del cinema senza un carattere . Il film è bellissimo, e, come vedete, fa riflettere. Ma è un segno dei tempi che nessuno abbia lamentato la scomparsa di quei due attori, la ragione e il libero arbitrio, che appena una generazione fa consideravamo indispensabili per l’edificazione di una vita adulta.
«Corriere della sera» del 4 ottobre 2015
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