I danni dell'iconoclastia "belligerante"
di Maurizio Cecchetti
Più di vent’anni fa un certo Pierre Pinoncelli venne condannato da un tribunale francese per «parasitisme de la glorie» e fu costretto a pagare una multa salatissima. Quale reato aveva commesso? Era entrato al museo di Nimes, dove avevano allestito una mostra di Duchamp, e aveva preso a martellate “La fontaine”, l’orinatoio, uno dei più celebri “ready made” dell’artista. La condanna, in sostanza, diceva che tentare di distruggere un’opera d’arte che ha marcato la storia dell’arte è a suo modo un crimine.
Possiamo dire che l’orinatoio di Duchamp sia “patrimonio dell’umanità”? Forse quest’opera (che nell’originale non esiste più, ma è stata replicata dall’artista in otto copie) non raggiunge quella soglia, mentre il discorso vale certamente per la “Pietà” di Michelangelo in san Pietro che, nel 1972, venne presa anch’essa a martellate da un altro mitomane. E l’abbazia di Montecassino? Quando il 15 febbraio del 1944 gli alleati bombardarono la collina riducendo in macerie il monastero, convinti che dentro ci fossero i tedeschi (che invece presidiavano soltanto il luogo dall’esterno), commisero un crimine di guerra come quello che, oggi, viene attribuito dalla Corte penale dell’Aja al tuareg Ahmad al Faqi al Mahdi per aver collaborato nel 2012 alla distruzione di mausolei e di una moschea a Timbuctu? La distruzione nel 2001 dei Buddha di Bamiyan, in Afghanistan, per volontà dei capi taleban, va considerata un crimine di guerra? Il fondamentalismo islamico che devasta il siti archeologici di Nimrud e di Hatra, in Iraq, e di Palmira in Siria commette un crimine contro l’umanità? Ogni guerra ha in sé la distruzione di ciò che è umano: devastando la vita di uomini e donne, ma anche edifici e città. Un tempo si saccheggiavano i tesori dei vinti (o dei popoli sottomessi, come nelle conquiste coloniali): molti musei europei, dal Louvre al British, si sono arricchiti così.
Ma oggi è più chiaro a molti che depredare o distruggere l’arte è un atto di barbarie, che colpisce la bellezza, la storia e il sacro come patrimonio comune. Esiste una iconoclastia “belligerante” che sfrutta gli stessi meccanismi comunicativi della “società dell’immagine”. Distruggere l’arte, per essa, è un atto di guerra. E ciò che lo rende un crimine è quello stesso sentimento di sfida e di crudeltà che muove il terrorismo.
Possiamo dire che l’orinatoio di Duchamp sia “patrimonio dell’umanità”? Forse quest’opera (che nell’originale non esiste più, ma è stata replicata dall’artista in otto copie) non raggiunge quella soglia, mentre il discorso vale certamente per la “Pietà” di Michelangelo in san Pietro che, nel 1972, venne presa anch’essa a martellate da un altro mitomane. E l’abbazia di Montecassino? Quando il 15 febbraio del 1944 gli alleati bombardarono la collina riducendo in macerie il monastero, convinti che dentro ci fossero i tedeschi (che invece presidiavano soltanto il luogo dall’esterno), commisero un crimine di guerra come quello che, oggi, viene attribuito dalla Corte penale dell’Aja al tuareg Ahmad al Faqi al Mahdi per aver collaborato nel 2012 alla distruzione di mausolei e di una moschea a Timbuctu? La distruzione nel 2001 dei Buddha di Bamiyan, in Afghanistan, per volontà dei capi taleban, va considerata un crimine di guerra? Il fondamentalismo islamico che devasta il siti archeologici di Nimrud e di Hatra, in Iraq, e di Palmira in Siria commette un crimine contro l’umanità? Ogni guerra ha in sé la distruzione di ciò che è umano: devastando la vita di uomini e donne, ma anche edifici e città. Un tempo si saccheggiavano i tesori dei vinti (o dei popoli sottomessi, come nelle conquiste coloniali): molti musei europei, dal Louvre al British, si sono arricchiti così.
Ma oggi è più chiaro a molti che depredare o distruggere l’arte è un atto di barbarie, che colpisce la bellezza, la storia e il sacro come patrimonio comune. Esiste una iconoclastia “belligerante” che sfrutta gli stessi meccanismi comunicativi della “società dell’immagine”. Distruggere l’arte, per essa, è un atto di guerra. E ciò che lo rende un crimine è quello stesso sentimento di sfida e di crudeltà che muove il terrorismo.
«Avvenire» del 28 settembre 2015
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