I guai della bioetica e chi vorrebbe liquidarla
di Francesco D’Agostino
Dando notizia ai lettori di un duro articolo di Steven Pinker contro la bioetica, Chiara Lalli (nell’inserto culturale del "Corriere della Sera" del 6 settembre scorso) coglie l’occasione per attaccare la bioetica (che si sarebbe nel tempo trasformata in un «cane da guardia», il cui unico ruolo sembrerebbe essere quello di «vietare e condannare moralmente»), per vituperare i bioeticisti in generale (qualificati alla stregua degli appartenenti a una casta, anzi a un «sacerdozio laico, privo di una teoria coerente e razionale»), per stigmatizzare il Comitato nazionale per la bioetica («la caricatura di un parlamento, gravato da irrazionalità, paternalismo, giudizi intuitivi e moralistici») e infine per biasimare tutti coloro «che usano ogni possibile scusa per bloccare la ricerca».
Basta così? No, non basta: al fondo di tutte queste critiche ce ne è una radicale e gravissima, quella di dogmatismo, di utilizzazione di «concetti insensati», di carenza di argomentazioni. Alle questioni cruciali della bioetica (e Lalli cita espressamente la procreazione assistita, le direttive anticipate di trattamento, la sperimentazione embrionale) i bioeticisti direbbero di no «anche prima di analizzarle».
Come de profundis per la bioetica, proprio non c’è male. Le cose, naturalmente, sono molto più complicate di come le mettono il buon Steven Pinker e la buona Chiara Lalli. Che la bioetica sia malata (ma per ragioni diverse da quelle appena dette) lo sappiamo bene per contro nostro e non abbiamo bisogno che ce lo venga a dire uno psicologo, per quanto illustre, come Pinker. Il quale, oltre tutto, quando passa a fornire indicazioni terapeutiche per risanare la bioetica dai suoi mali, se la cava maluccio, limitandosi a esortare i bioeticisti a non cedere ai pregiudizi di parte, a non schierarsi (se non dalla parte dei ragionamenti corretti!), a non dire a quale sia la loro "squadra" di appartenenza, ma solo ad «argomentare».
Vorremmo rassicurare Pinker e Lalli: almeno in Italia, la bioetica è sempre stata molto ben argomentata, a volte perfino in modo fin troppo pedante; gli studiosi che hanno manifestato riserve verso la procreazione assistita, il testamento biologico o la sperimentazione sugli embrioni non hanno mai (lo dico e lo ripeto: mai e poi mai) usato argomenti confessionali, dogmatici, aprioristici. Possono aver usato argomenti non condivisibili e non convincenti: ma l’accusa nei loro confronti di dogmatismo ottuso non solo è ingenerosa, ma (cosa ben più grave) è indizio di una pregiudiziale, mancata lettura delle loro opere. La questione di fondo, però non è questa, ma un’altra e ancora più grave. Non solo le prese di posizioni di uno scienziato come Pinker e di una bioeticista come Chiara Lalli fanno venire alla mente una loro grave carenza di documentazione, ma inducono a pensare che questa carenza di documentazione non sia accidentale, ma intenzionale.
È quanto emerge quando Lalli, rifacendosi al pensiero di una filosofa, Bonnie Steinbock, accusa molti bioeticisti di usare l’espressione «dignità umana» come «una mazza per criticare qualsiasi innovazione tecnologica che non gradiscono». Perché questa espressione sarebbe una «mazza»? Perché, insiste Lalli, «dignità non vuol dire nulla, perché ognuno riempie quella parola di significati diversi».
Questo, forse, è davvero il punto cruciale del discorso. È ovvio che ogni termine possa essere usato in modo rozzo e deformante, da chi non riesce a coglierne il significato autentico; ma è altrettanto ovvio che basta leggere alcune pagine decisive di Kant per capire quanto sia grottesco buttare a mare il concetto di "dignità" per il cattivo uso che qualcuno possa farne: sarebbe come irridere un capolavoro della pittura universale (lascio a Lalli la scelta) per il solo fatto che in un mercatino domenicale vengono messe in vendita tele imbrattate da sedicenti pittori.
I bioeticisti (almeno quelli "buoni") non sono individui altezzosi, che stanno al mondo per mettere i bastoni tra le ruote alla ricerca scientifica, usando giudizi «moralistici, intuitivi e contraddittori»; sono persone invece che prendono sul serio la necessità di valutare eticamente non la ricerca (che ovviamente è sempre buona in sé e per sé), ma le metodologie che gli scienziati possono utilizzare. E lo fanno (o almeno questo è quello che fanno i bioeticisti "buoni") elaborando e rendendo pubbliche ragioni che essi ritengono (fino a prova contraria) "forti" e "valide", come è dimostrato dal fatto che sono molti gli scienziati che le condividono e che calibrano le loro ricerche su queste stesse ragioni. Se Pinker e Lalli, invece di strepitare, entrassero in un serrato dibattito bioetico con chi, a loro avviso, vorrebbe limitare la ricerca scientifica, mentre invece cercano solo di orientarla eticamente, come è loro dovere fare, cadrebbero tante polemiche pretestuose, con grande vantaggio di tutti.
Basta così? No, non basta: al fondo di tutte queste critiche ce ne è una radicale e gravissima, quella di dogmatismo, di utilizzazione di «concetti insensati», di carenza di argomentazioni. Alle questioni cruciali della bioetica (e Lalli cita espressamente la procreazione assistita, le direttive anticipate di trattamento, la sperimentazione embrionale) i bioeticisti direbbero di no «anche prima di analizzarle».
Come de profundis per la bioetica, proprio non c’è male. Le cose, naturalmente, sono molto più complicate di come le mettono il buon Steven Pinker e la buona Chiara Lalli. Che la bioetica sia malata (ma per ragioni diverse da quelle appena dette) lo sappiamo bene per contro nostro e non abbiamo bisogno che ce lo venga a dire uno psicologo, per quanto illustre, come Pinker. Il quale, oltre tutto, quando passa a fornire indicazioni terapeutiche per risanare la bioetica dai suoi mali, se la cava maluccio, limitandosi a esortare i bioeticisti a non cedere ai pregiudizi di parte, a non schierarsi (se non dalla parte dei ragionamenti corretti!), a non dire a quale sia la loro "squadra" di appartenenza, ma solo ad «argomentare».
Vorremmo rassicurare Pinker e Lalli: almeno in Italia, la bioetica è sempre stata molto ben argomentata, a volte perfino in modo fin troppo pedante; gli studiosi che hanno manifestato riserve verso la procreazione assistita, il testamento biologico o la sperimentazione sugli embrioni non hanno mai (lo dico e lo ripeto: mai e poi mai) usato argomenti confessionali, dogmatici, aprioristici. Possono aver usato argomenti non condivisibili e non convincenti: ma l’accusa nei loro confronti di dogmatismo ottuso non solo è ingenerosa, ma (cosa ben più grave) è indizio di una pregiudiziale, mancata lettura delle loro opere. La questione di fondo, però non è questa, ma un’altra e ancora più grave. Non solo le prese di posizioni di uno scienziato come Pinker e di una bioeticista come Chiara Lalli fanno venire alla mente una loro grave carenza di documentazione, ma inducono a pensare che questa carenza di documentazione non sia accidentale, ma intenzionale.
È quanto emerge quando Lalli, rifacendosi al pensiero di una filosofa, Bonnie Steinbock, accusa molti bioeticisti di usare l’espressione «dignità umana» come «una mazza per criticare qualsiasi innovazione tecnologica che non gradiscono». Perché questa espressione sarebbe una «mazza»? Perché, insiste Lalli, «dignità non vuol dire nulla, perché ognuno riempie quella parola di significati diversi».
Questo, forse, è davvero il punto cruciale del discorso. È ovvio che ogni termine possa essere usato in modo rozzo e deformante, da chi non riesce a coglierne il significato autentico; ma è altrettanto ovvio che basta leggere alcune pagine decisive di Kant per capire quanto sia grottesco buttare a mare il concetto di "dignità" per il cattivo uso che qualcuno possa farne: sarebbe come irridere un capolavoro della pittura universale (lascio a Lalli la scelta) per il solo fatto che in un mercatino domenicale vengono messe in vendita tele imbrattate da sedicenti pittori.
I bioeticisti (almeno quelli "buoni") non sono individui altezzosi, che stanno al mondo per mettere i bastoni tra le ruote alla ricerca scientifica, usando giudizi «moralistici, intuitivi e contraddittori»; sono persone invece che prendono sul serio la necessità di valutare eticamente non la ricerca (che ovviamente è sempre buona in sé e per sé), ma le metodologie che gli scienziati possono utilizzare. E lo fanno (o almeno questo è quello che fanno i bioeticisti "buoni") elaborando e rendendo pubbliche ragioni che essi ritengono (fino a prova contraria) "forti" e "valide", come è dimostrato dal fatto che sono molti gli scienziati che le condividono e che calibrano le loro ricerche su queste stesse ragioni. Se Pinker e Lalli, invece di strepitare, entrassero in un serrato dibattito bioetico con chi, a loro avviso, vorrebbe limitare la ricerca scientifica, mentre invece cercano solo di orientarla eticamente, come è loro dovere fare, cadrebbero tante polemiche pretestuose, con grande vantaggio di tutti.
«Avvenire» del 14 settembre 2015
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