La marcia dei migranti
di Pierluigi Battista
La marcia ha un impatto simbolico fortissimo, più di un banale corteo, o del solito comizio. I reietti, i dannati della terra, i profughi in fuga da fanatici e tiranni e che non vogliono rinunciare a percorrere quei 250 km che li separano dalla libertà, scendono dai treni e si mettono in marcia da Budapest. Usano la forza lenta e inesorabile delle loro gambe per trasmettere un messaggio travolgente. La marcia resta sempre qualcosa di memorabile. Questa che si snoda con le lacrime agli occhi di chi non si piega all’ultimo diktat, ancora di più. Le bandiera dell’Europa sventolata con un pathos che nessun europeo ha mai provato ci commuove e ci emoziona. Un popolo in marcia. Sembra il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo. Impossibile girarsi dall’altra parte e far finta di niente.
Una marcia può servire una buona causa o può servire finalità abiette. Può dare forza a un sogno, come quella che invase Washington sotto la guida di Martin Luther King contro lo scandalo della segregazione razziale («I have a dream»). O può essere uno stru-mento formidabile di ricatto e di pressione, come quella dell’ottobre del ‘22 condotta dalle camicie nere e che terrorizzò il Re e il fragile palazzo romano.
Questa marcia dà invece una forza irresistibile a chi usa l’unica risorsa di cui dispone, la disperata energia delle proprie gambe, per raggiungere una meta, per lasciarsi definitivamente alle spalle l’incubo atroce della guerra e della persecuzione, vittime incolpevoli di uno scontro immane tra chi non tiene in nessun conto il valore della vita, e figurarsi della libertà. Una determinazione possente di chi si mette in marcia e non vuole accettare l’ultima sconfitta dopo aver lasciato per terra e per mare i bambini che non ce l’hanno fatta, le persone tradite e maltrattate da mercanti d’umanità senza scrupoli. Sono lì, a un po’ di decine di chilometri da un traguardo sognato, e qualcuno può pensare che si vogliano fermare proprio adesso, che non sono capaci di portare a compimento la loro anabasi, di non saper replicare l’epopea dei contadini di Faulkner e di Steinbeck, la marcia verso l’Ovest di chi sui miseri carri non aveva nient’altro che la propria miseria da trascinare per ricominciare daccapo, per raggiungere una meta?
La forza di una marcia come questa è più poderosa di un treno che non vuole partire dalla stazione di Budapest, dove hanno soppresso i convogli «destinazione Ovest». La marcia è faticosa, massacrante, selettiva. Ma è una lezione che si imprime nella memoria. Che mette a tacere gli indifferenti e i paurosi. Che ci interroga sulla nostra passività, sulla nostra acquiescenza di fronte alle atrocità compiute non lontano da qui e il cui peso, anche militare ed economico, siamo incapaci di sostenere. Senza capire da cosa scappano questi nostri fratelli in marcia, cosa chiedono, cosa non possono più sopportare mentre in Europa, la cui bandiera viene sventolata dai profughi, domina l’immobilismo e l’ipocrisia. Ecco il messaggio di chi marcia, la forza dei loro passi. E la vergogna di chi è costretto, finalmente, a guardare in faccia la realtà.
Una marcia può servire una buona causa o può servire finalità abiette. Può dare forza a un sogno, come quella che invase Washington sotto la guida di Martin Luther King contro lo scandalo della segregazione razziale («I have a dream»). O può essere uno stru-mento formidabile di ricatto e di pressione, come quella dell’ottobre del ‘22 condotta dalle camicie nere e che terrorizzò il Re e il fragile palazzo romano.
Questa marcia dà invece una forza irresistibile a chi usa l’unica risorsa di cui dispone, la disperata energia delle proprie gambe, per raggiungere una meta, per lasciarsi definitivamente alle spalle l’incubo atroce della guerra e della persecuzione, vittime incolpevoli di uno scontro immane tra chi non tiene in nessun conto il valore della vita, e figurarsi della libertà. Una determinazione possente di chi si mette in marcia e non vuole accettare l’ultima sconfitta dopo aver lasciato per terra e per mare i bambini che non ce l’hanno fatta, le persone tradite e maltrattate da mercanti d’umanità senza scrupoli. Sono lì, a un po’ di decine di chilometri da un traguardo sognato, e qualcuno può pensare che si vogliano fermare proprio adesso, che non sono capaci di portare a compimento la loro anabasi, di non saper replicare l’epopea dei contadini di Faulkner e di Steinbeck, la marcia verso l’Ovest di chi sui miseri carri non aveva nient’altro che la propria miseria da trascinare per ricominciare daccapo, per raggiungere una meta?
La forza di una marcia come questa è più poderosa di un treno che non vuole partire dalla stazione di Budapest, dove hanno soppresso i convogli «destinazione Ovest». La marcia è faticosa, massacrante, selettiva. Ma è una lezione che si imprime nella memoria. Che mette a tacere gli indifferenti e i paurosi. Che ci interroga sulla nostra passività, sulla nostra acquiescenza di fronte alle atrocità compiute non lontano da qui e il cui peso, anche militare ed economico, siamo incapaci di sostenere. Senza capire da cosa scappano questi nostri fratelli in marcia, cosa chiedono, cosa non possono più sopportare mentre in Europa, la cui bandiera viene sventolata dai profughi, domina l’immobilismo e l’ipocrisia. Ecco il messaggio di chi marcia, la forza dei loro passi. E la vergogna di chi è costretto, finalmente, a guardare in faccia la realtà.
«Corriere della sera» del 5 settembre 2015
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