Dieci anni fa moriva lo scrittore milanese, che fu anche critico letterario e teatrale del «Corriere della Sera». Impegno, passione civile e senso di appartenenza
di Paolo Di Stefano
Non è nostalgia affermare che Giovanni Raboni rappresenta un mondo letterario definitivamente tramontato: quello di un impegno totale e irrinunciabile, a 360 gradi, nella poesia, nella saggistica, nella critica militante in primis letteraria, ma anche teatrale e cinematografica (per «Avvenire»), nella traduzione di classici pressoché «impossibili» da tradurre (Baudelaire, Proust); senza dimenticare l’instancabile attività editoriale, la redazione, la promozione e la direzione di riviste e collane. La sua è una presenza che sin dagli anni Cinquanta, subito dopo la laurea in Storia del diritto romano (1955) — e ben prima di lasciare definitivamente le consulenze legali che hanno occupato Raboni professionalmente fino al 1964 — copre un arco di interessi pressoché illimitato, tenuto sempre ai massimi livelli di originalità e di rigore, sia pure sempre con quell’understatement che caratterizzava il suo «abito mentale e morale» (Mengaldo).Nessuno, persino nella sua generazione, è riuscito a fare altrettanto. Basta un semplice elenco, anche parziale, delle date, delle funzioni, degli impegni per rimanere sbalorditi (e lasciando da parte i titoli delle sue opere): le collaborazioni alla «Fiera letteraria», a «Letteratura», ad «aut aut», al «Verri», la fondazione nel ’62 di «Questo e altro», il periodico letterario diretto da Dante Isella, Vittorio Sereni e Niccolò Gallo (ma il factotum era Giovanni), il contributo attivo a «Paragone» e ai «Quaderni piacentini» dei suoi amici Grazia Cherchi, Piergiorgio Bellocchio, Goffredo Fofi. E poi ancora: «Nuovi Argomenti» e la rubrica televisiva Tuttilibri; la consulenza, la redazione e infine la dirigenza nella Garzanti; per oltre un decennio l’attività recensoria per «Tuttolibri», il supplemento della «Stampa», e poi per il «Messaggero» e per il settimanale «L’Europeo» per un altro decennio. E ancora nuove consulenze: Mondadori e Guanda, per cui sarà chiamato a dirigere le collane «Poeti della Fenice» e «Quaderni della Fenice», e l’organizzazione con Antonio Porta del festival Milanopoesia, dall’85 al ’92. E non è tutto, ci vorrebbero due o tre vite ad altri per eguagliare, anche solo numericamente, la bio-bibliografia di Raboni.
Con quell’aria vagamente pigra, di apparente nonchalance, ha abitato il suo tempo con un’energia impressionante, fino alla collaborazione al «Corriere» dal 1988, al Consiglio d’amministrazione del Piccolo dal 1998, dopo un decennio di assidua militanza nella critica teatrale. Energia alimentata da una spinta civile che era il suo solo modo di intendere la letteratura, se si pensa che anche la sua produzione poetica, pur sembrandone a volte lontana, conserva sempre intenzioni «politiche» (non di rado anche senza virgolette). Erano le sue «devozioni perverse» (titolo di un suo libro), che andavano dalla rivendicazione dei valori letterari contro ogni luogo comune ereditato stancamente alle utopie politiche: ostinazioni che sentiva irresistibili e che sollecitavano l’editorialista su tutti i fronti a coniugare l’esperienza di studi tecnici di diritto, di economia politica e di scienze delle finanze con lo sguardo fermo (etico) sulla realtà, tratto saliente del poeta Raboni. Del resto, Raboni sembra aver preso molto sul serio il primo suggerimento rivoltogli, giovanissimo da Ungaretti, in una letterina del 1955: «Lavori», gli scrisse il vecchio poeta dopo aver ricevuto uno dei suoi componimenti d’esordio. Raboni aveva 23 anni e da allora il suo percorso sarebbe stato molto lungo, e pieno di soddisfazioni umane oltre che intellettuali, grazie agli incontri con critici-poeti-maestri diventati nel tempo suoi amici fedelmente ammirati. Tra questi Carlo Betocchi, che già nel 1953, premiandolo come giurato in un concorso poetico, vide molto lontano parlando di «ispirazione, vera e profonda» e consigliandogli di custodire i suoi indubbi «doni» «con la virtù, con lo studio, e con l’amore intenso che Lei ha per la verità». Mettiamo pure nel conto il cattolicesimo pastorale del poeta fiorentino, ma davvero è nostalgia segnalare come allora le relazioni tra giovani e vecchi erano alimentate da un rispetto reciproco, nell’ammirazione da una parte e nella generosità e fiducia dall’altra?
Raboni è stato forse l’esempio più illuminante di una generazione (l’ultima?) di maestri che hanno saputo coltivare i maestri ricevendone in cambio non effimeri attestati di stima, ma riconoscenza vera e insieme nutrimento diretto. Lo dicono molte lettere inedite che segnalano quanto quella rete di scambi, quella conversazione familiare e continua, cui Raboni non è mai venuto meno, fosse «nobilissima ed entusiasmante», come scrive Massimo Onofri chiudendo l’introduzione a una raccolta di recensioni raboniane per il «Corriere». Un’epoca davvero finita, aggiunge Onofri. Si direbbe che è finita la sua «pesantezza» e la sua serietà, lasciando spazio alla leggerezza e alla condivisione istantanea. Se nel ’62 Elio Vittorini si scomoda a scrivere al trentenne Raboni che il suo saggio su Rebora è un «intervento coi fiocchi», «ottimo sia come impostazione, sia come argomenti», si capisce oggi che non si tratta di complimenti rituali, essendo rimasto, quel contributo inizialmente consegnato a «Questo e altro», una pietra miliare per comprendere i versi del poeta-presbitero milanese. Altro che balletti in maschera da Prima Repubblica delle lettere. No, no. È tutta sostanza: materia viva, di confronto umano e intellettuale, da cui si evince la centralità conquistata da Raboni nel dibattito letterario e nella critica. Già nell’ottobre 1968, un tipo difficile come Andrea Zanzotto gli scrive che il saggio di «Paragone» sull’«antimateria» de La beltà traccia «le coordinate più attendibili per un discorso che, qui accennato soltanto, resta tuttavia il più definitivo». E nel ’71 il sessantenne Attilio Bertolucci, in stato di eccitazione dopo la lettura, si esprime così a proposito di un superlativo intervento raboniano in cui spiccavano la straordinaria inventività metaforica del critico e insieme il suo acume analitico: «immaginavo una cosa bella e profonda, ma quanto ha saputo scrivere sul “dissanguamento”, sulla metrica, è arrivato anche più in là di Pasolini, di Lavagetto, pure molto belli. È più in là di tutti».
L’entusiasmo suggerisce inoltre allo stesso Bertolucci una bellissima autocritica esistenziale: «La mia riluttanza a pubblicare (in volume), per anni, adesso, mi pare un po’ stupida. Voglio dire che il mio timore di non venire inteso, pur fondato in un certo senso, non teneva conto della vita, che va avanti, che a un certo momento ti fa trovare vicino, vicinissimo chi ha saputo, potuto, intendere tutto. E con una chiarezza che tu, implicato e inerme, non avevi né hai». E poi: Caproni, Sereni, Penna, Luzi, Giudici, Fortini, scambi che parlano di poesia come fosse vita e viceversa. Lunghe e lunghissime fedeltà radicate nella parola, nel rispetto del lavoro degli altri, nella cura della poesia (propria e altrui) intesa come totalità esistenziale e dunque senza risparmio di energie. Gira la testa a pensare all’abisso che si è aperto tra il tempo di Raboni, pur cronologicamente così vicino, e il nostro. Ha detto Giovanni, in un’intervista radiofonica del 2003: «in una poesia ho scritto che “cerco” a volte “di immaginare la felicità dei morti” e penso che anche per i morti la felicità sia la vita». Glielo auguriamo (a lui, ma anche a noi).
Con quell’aria vagamente pigra, di apparente nonchalance, ha abitato il suo tempo con un’energia impressionante, fino alla collaborazione al «Corriere» dal 1988, al Consiglio d’amministrazione del Piccolo dal 1998, dopo un decennio di assidua militanza nella critica teatrale. Energia alimentata da una spinta civile che era il suo solo modo di intendere la letteratura, se si pensa che anche la sua produzione poetica, pur sembrandone a volte lontana, conserva sempre intenzioni «politiche» (non di rado anche senza virgolette). Erano le sue «devozioni perverse» (titolo di un suo libro), che andavano dalla rivendicazione dei valori letterari contro ogni luogo comune ereditato stancamente alle utopie politiche: ostinazioni che sentiva irresistibili e che sollecitavano l’editorialista su tutti i fronti a coniugare l’esperienza di studi tecnici di diritto, di economia politica e di scienze delle finanze con lo sguardo fermo (etico) sulla realtà, tratto saliente del poeta Raboni. Del resto, Raboni sembra aver preso molto sul serio il primo suggerimento rivoltogli, giovanissimo da Ungaretti, in una letterina del 1955: «Lavori», gli scrisse il vecchio poeta dopo aver ricevuto uno dei suoi componimenti d’esordio. Raboni aveva 23 anni e da allora il suo percorso sarebbe stato molto lungo, e pieno di soddisfazioni umane oltre che intellettuali, grazie agli incontri con critici-poeti-maestri diventati nel tempo suoi amici fedelmente ammirati. Tra questi Carlo Betocchi, che già nel 1953, premiandolo come giurato in un concorso poetico, vide molto lontano parlando di «ispirazione, vera e profonda» e consigliandogli di custodire i suoi indubbi «doni» «con la virtù, con lo studio, e con l’amore intenso che Lei ha per la verità». Mettiamo pure nel conto il cattolicesimo pastorale del poeta fiorentino, ma davvero è nostalgia segnalare come allora le relazioni tra giovani e vecchi erano alimentate da un rispetto reciproco, nell’ammirazione da una parte e nella generosità e fiducia dall’altra?
Raboni è stato forse l’esempio più illuminante di una generazione (l’ultima?) di maestri che hanno saputo coltivare i maestri ricevendone in cambio non effimeri attestati di stima, ma riconoscenza vera e insieme nutrimento diretto. Lo dicono molte lettere inedite che segnalano quanto quella rete di scambi, quella conversazione familiare e continua, cui Raboni non è mai venuto meno, fosse «nobilissima ed entusiasmante», come scrive Massimo Onofri chiudendo l’introduzione a una raccolta di recensioni raboniane per il «Corriere». Un’epoca davvero finita, aggiunge Onofri. Si direbbe che è finita la sua «pesantezza» e la sua serietà, lasciando spazio alla leggerezza e alla condivisione istantanea. Se nel ’62 Elio Vittorini si scomoda a scrivere al trentenne Raboni che il suo saggio su Rebora è un «intervento coi fiocchi», «ottimo sia come impostazione, sia come argomenti», si capisce oggi che non si tratta di complimenti rituali, essendo rimasto, quel contributo inizialmente consegnato a «Questo e altro», una pietra miliare per comprendere i versi del poeta-presbitero milanese. Altro che balletti in maschera da Prima Repubblica delle lettere. No, no. È tutta sostanza: materia viva, di confronto umano e intellettuale, da cui si evince la centralità conquistata da Raboni nel dibattito letterario e nella critica. Già nell’ottobre 1968, un tipo difficile come Andrea Zanzotto gli scrive che il saggio di «Paragone» sull’«antimateria» de La beltà traccia «le coordinate più attendibili per un discorso che, qui accennato soltanto, resta tuttavia il più definitivo». E nel ’71 il sessantenne Attilio Bertolucci, in stato di eccitazione dopo la lettura, si esprime così a proposito di un superlativo intervento raboniano in cui spiccavano la straordinaria inventività metaforica del critico e insieme il suo acume analitico: «immaginavo una cosa bella e profonda, ma quanto ha saputo scrivere sul “dissanguamento”, sulla metrica, è arrivato anche più in là di Pasolini, di Lavagetto, pure molto belli. È più in là di tutti».
L’entusiasmo suggerisce inoltre allo stesso Bertolucci una bellissima autocritica esistenziale: «La mia riluttanza a pubblicare (in volume), per anni, adesso, mi pare un po’ stupida. Voglio dire che il mio timore di non venire inteso, pur fondato in un certo senso, non teneva conto della vita, che va avanti, che a un certo momento ti fa trovare vicino, vicinissimo chi ha saputo, potuto, intendere tutto. E con una chiarezza che tu, implicato e inerme, non avevi né hai». E poi: Caproni, Sereni, Penna, Luzi, Giudici, Fortini, scambi che parlano di poesia come fosse vita e viceversa. Lunghe e lunghissime fedeltà radicate nella parola, nel rispetto del lavoro degli altri, nella cura della poesia (propria e altrui) intesa come totalità esistenziale e dunque senza risparmio di energie. Gira la testa a pensare all’abisso che si è aperto tra il tempo di Raboni, pur cronologicamente così vicino, e il nostro. Ha detto Giovanni, in un’intervista radiofonica del 2003: «in una poesia ho scritto che “cerco” a volte “di immaginare la felicità dei morti” e penso che anche per i morti la felicità sia la vita». Glielo auguriamo (a lui, ma anche a noi).
«Corriere della sera» del 9 settembre 2014
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