di Gianfranco Ravasi
Come spesso gli accadeva, san Girolamo era stato sbrigativo: san Paolo «non curabat magnopere de verbis cum sensum haberet in tuto», “non si preoccupava più di tanto delle parole quando aveva messo al sicuro il significato”. Questo può essere vero per lo stile, meno per l’uso della lingua greca che egli aveva in realtà assunto e plasmato con molta originalità, assegnando a vari termini nuove e originali accezioni.
Questo atteggiamento brilla soprattutto nella sua antropologia teologica che vorremmo approfondire tenendo conto in particolare dell’esito escatologico del cristiano, ossia del suo destino ultimo oltre la morte.
A sorpresa l’apostolo si è scarsamente interessato alla questione della psyché, l’“anima” in senso greco classico, un termine secondario nel suo epistolario. La sua vera originalità è, invece, nell’aver puntato l’attenzione su un altro contrasto, quello tra spirito e carne, in greco pneuma e sarx, contrasto che si sostituisce a quello classico greco tra psyché e sôma, anima e corpo.
A quella coppia di vocaboli egli, però, attribuisce un nuovo significato. La sarx, infatti, non è la “carnalità” in senso sessuale, né la “carne” fragile, finita e caduca della creatura umana. È, invece, per Paolo un principio negativo efficace e deleterio che si annida nella coscienza dell’uomo, divenendo terreno per il peccato.
Al contrario, lo pneuma non è tanto il principio della vita psicofisica, ma è lo spirito divino che si effonde nella persona rendendola figlia adottiva di Dio (Rm 8, 16). Illuminante è un passo della Lettera ai Galati ove si oppongono questi due principi: «Camminate secondo lo spirito [pneuma] e non sarete condotti a compiere i desideri della carne [sarx]. La carne [sarx], infatti, ha desideri contrari allo spirito [pneuma] e lo spirito [pneuma] a sua volta è contro la carne [sarx], poiché queste due realtà sono vicendevolmente contrapposte» (5, 16-17).
L’uomo, quindi, può ridursi alla qualità di essere “carnale”, impigliato nelle reti della sarx e del peccato; ma può anche elevarsi alla dignità di essere “spirituale”, animato dallo Spirito di Dio e dalla grazia salvatrice. In questa impostazione, che rivisita in chiave squisitamente teologica l’interiorità della persona, si riesce a decifrare un’altra coppia di termini usati da Paolo, termini palesemente applicati in modo contraddittorio agli occhi della cultura greca. L’apostolo, infatti, parla di sôma psychikón “corpo psichico”, e di sôma pneumatikón, “corpo spirituale”, espressioni paradossali se non assurde per un greco, considerata la ben nota antitesi e incompatibilità tra anima, spirito e corpo. In realtà, come vedremo, il retroterra di queste locuzioni paoline è biblico ed è modulato da Paolo secondo la sua teologia del peccato e della grazia.
Da un lato, infatti, il “corpo psichico” è la persona chiusa nella sua creaturalità di essere vivente limitato, finito e colpevole. D’altro lato, il “corpo spirituale” è la persona aperta all’irruzione dello Spirito di Dio, che trasfigura la povertà della nostra condizione umana e ci introduce nella gloria e nell’eternità. Per questo, il corpo del Cristo risorto è per eccellenza “spirituale”, non certo perché etereo o incorporeo ma perché immerso nell’infinito e nell’eterno. In pratica, è la piena manifestazione del nostro essere “immagine di Dio”, come aveva insegnato Genesi 1, 27, che l’apostolo così sviluppa e parafrasa: «Come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste« (1Cor 15, 49).
Questa distinzione può aprire un varco all’interno del delicato e complesso problema dell’immortalità dell’anima o della risurrezione dei corpi: ricordiamo che il Credo apostolico, che è una professione di fede cristiana degli inizi del III secolo, preferisce la formula «risurrezione della carne», mentre il Credo niceno-costantinopolitano del 381, che si recita ogni domenica nella liturgia eucaristica, parla di «risurrezione dei morti». Apriamo solo una finestra su questo tema che affascina non soltanto il teologo o il filosofo, ma anche la persona comune, protesa verso il futuro e desiderosa di gettare uno sguardo oltre la frontiera della morte. Il pensiero generale di Paolo è, infatti, piuttosto ampio: il corpus delle tredici lettere che recano il nome dell’apostolo (anche se non tutte sono direttamente da ricondurre a lui) occupa ben 2003 versetti sui 5621 dell’intero Nuovo Testamento.
Ebbene, in qualche passo paolino sembra occhieggiare la concezione greca quando si parla di un «esulare dal corpo […], quando verrà disfatto questo corpo, nostra abitazione sulla terra» (2 Cor 5,1.8-9); tuttavia, subito dopo si aggiunge che «riceveremo un’altra abitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mano d’uomo«, facendo riemergere l’idea di un corpo risorto. Ecco, proprio a quest’ultima notazione ci connettiamo per la nostra breve considerazione che ripropone l’antitesi sopra indicata tra “corpo psichico” e “corpo spirituale”. Nella risurrezione è la creazione intera che viene ricondotta, attraverso l’intervento divino, a un nuovo progetto “cosmico” (nel senso etimologico di “ordine, armonia”). In esso cadranno le coordinate limitative del tempo e dello spazio e, quindi, della finitudine, in cui ora siamo immersi, e della corruzione materiale e morale.
Alcuni teologi, soprattutto protestanti, pensano che nella morte avvenga una fine totale, così come nella conclusione dell’intera realtà creata: la risurrezione sarebbe, allora, una vera e propria “ri-creazione” divina, condotta ex novo. Ma in realtà nella visione paolina, esplicitamente modellata sulla risurrezione di Cristo, la cui identità personale permane, si sottolinea una continuità, anche se di difficile definizione e descrizione: l’essere attuale, individuale e cosmico sotto l’azione divina viene trasformato in un nuovo statuto di essere e di esistere, immesso nell’eterno e nell’infinito. Tra presente e futuro dell’uomo e del mondo c’è, allora, un rapporto di continuità nell’identità individuale, ma anche di discontinuità nella qualità dell’essere.
Non è certo facile delineare in modo puntuale e accurato questa transizione e lo stesso Paolo nel capitolo 15 della Prima lettera ai Corinzi fatica nel rappresentare questa uscita dalla prigione dello spazio e del tempo e l’evolversi della realtà presente e storica verso quell’orizzonte trascendente. Infatti, fa ricorso a immagini come quella del nesso tra seme e albero, un nesso di continuità, ma anche di novità e di diversità, e conclude: «Si semina corruttibile e risorge incorruttibile, si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza, si semina un corpo psichico [sôma psychikón] e risorge un corpo spirituale [sôma pneumatikón]» (15,42-44).
Si riaffaccia, dunque, il contrasto tra il “corpo psichico”, che indica la creatura umana con la sua psyché, la sua interiorità, inserita però nello stato presente, storico della realtà, e il “corpo spirituale” che è quello del futuro escatologico, ossia della pienezza di vita della nuova creazione, oltre lo spazio e il tempo. “Corpo spirituale” non è, allora, qualcosa di evanescente o simile a un ectoplasma; con questa espressione Paolo intende il corpo risorto, cioè la persona umana pienamente pervasa dallo Pneuma, lo Spirito di Dio operante nel Cristo risorto. Per l’apostolo il modello e il principio della nostra futura trasfigurazione è proprio Cristo risorto che incarna lo statuto dell’uomo redento, in comunione perfetta con l’eterno e l’infinito divino.
Si potrebbe, quindi, concludere affermando che Paolo ha considerato l’“anima” (psyché) come il segno della nostra umanità terrena e lo “spirito” (pneuma) come emblema della nostra meta oltremondana quando «Dio sarà tutto in tutti» (1Cor 15, 28). La redenzione futura coinvolge tutto l’essere creato e, quindi, anche la materia che è in noi e fuori di noi. Con una battuta si potrebbe dire che, mentre nella concezione greca l’oltrevita è liberazione dalla materia considerata come un gravame maligno, nel cristianesimo l’oltrevita è liberazione anche della materia destinata a essere trasfigurata e integrata in una creazione rinnovata.
È per questo che nella Lettera ai Romani si legge: «La creazione stessa [quindi anche la materia] attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio. Essa, infatti, è stata sottomessa alla caducità […] ma nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloria dei figli di Dio» (8, 19-21).
Questo atteggiamento brilla soprattutto nella sua antropologia teologica che vorremmo approfondire tenendo conto in particolare dell’esito escatologico del cristiano, ossia del suo destino ultimo oltre la morte.
A sorpresa l’apostolo si è scarsamente interessato alla questione della psyché, l’“anima” in senso greco classico, un termine secondario nel suo epistolario. La sua vera originalità è, invece, nell’aver puntato l’attenzione su un altro contrasto, quello tra spirito e carne, in greco pneuma e sarx, contrasto che si sostituisce a quello classico greco tra psyché e sôma, anima e corpo.
A quella coppia di vocaboli egli, però, attribuisce un nuovo significato. La sarx, infatti, non è la “carnalità” in senso sessuale, né la “carne” fragile, finita e caduca della creatura umana. È, invece, per Paolo un principio negativo efficace e deleterio che si annida nella coscienza dell’uomo, divenendo terreno per il peccato.
Al contrario, lo pneuma non è tanto il principio della vita psicofisica, ma è lo spirito divino che si effonde nella persona rendendola figlia adottiva di Dio (Rm 8, 16). Illuminante è un passo della Lettera ai Galati ove si oppongono questi due principi: «Camminate secondo lo spirito [pneuma] e non sarete condotti a compiere i desideri della carne [sarx]. La carne [sarx], infatti, ha desideri contrari allo spirito [pneuma] e lo spirito [pneuma] a sua volta è contro la carne [sarx], poiché queste due realtà sono vicendevolmente contrapposte» (5, 16-17).
L’uomo, quindi, può ridursi alla qualità di essere “carnale”, impigliato nelle reti della sarx e del peccato; ma può anche elevarsi alla dignità di essere “spirituale”, animato dallo Spirito di Dio e dalla grazia salvatrice. In questa impostazione, che rivisita in chiave squisitamente teologica l’interiorità della persona, si riesce a decifrare un’altra coppia di termini usati da Paolo, termini palesemente applicati in modo contraddittorio agli occhi della cultura greca. L’apostolo, infatti, parla di sôma psychikón “corpo psichico”, e di sôma pneumatikón, “corpo spirituale”, espressioni paradossali se non assurde per un greco, considerata la ben nota antitesi e incompatibilità tra anima, spirito e corpo. In realtà, come vedremo, il retroterra di queste locuzioni paoline è biblico ed è modulato da Paolo secondo la sua teologia del peccato e della grazia.
Da un lato, infatti, il “corpo psichico” è la persona chiusa nella sua creaturalità di essere vivente limitato, finito e colpevole. D’altro lato, il “corpo spirituale” è la persona aperta all’irruzione dello Spirito di Dio, che trasfigura la povertà della nostra condizione umana e ci introduce nella gloria e nell’eternità. Per questo, il corpo del Cristo risorto è per eccellenza “spirituale”, non certo perché etereo o incorporeo ma perché immerso nell’infinito e nell’eterno. In pratica, è la piena manifestazione del nostro essere “immagine di Dio”, come aveva insegnato Genesi 1, 27, che l’apostolo così sviluppa e parafrasa: «Come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste« (1Cor 15, 49).
Questa distinzione può aprire un varco all’interno del delicato e complesso problema dell’immortalità dell’anima o della risurrezione dei corpi: ricordiamo che il Credo apostolico, che è una professione di fede cristiana degli inizi del III secolo, preferisce la formula «risurrezione della carne», mentre il Credo niceno-costantinopolitano del 381, che si recita ogni domenica nella liturgia eucaristica, parla di «risurrezione dei morti». Apriamo solo una finestra su questo tema che affascina non soltanto il teologo o il filosofo, ma anche la persona comune, protesa verso il futuro e desiderosa di gettare uno sguardo oltre la frontiera della morte. Il pensiero generale di Paolo è, infatti, piuttosto ampio: il corpus delle tredici lettere che recano il nome dell’apostolo (anche se non tutte sono direttamente da ricondurre a lui) occupa ben 2003 versetti sui 5621 dell’intero Nuovo Testamento.
Ebbene, in qualche passo paolino sembra occhieggiare la concezione greca quando si parla di un «esulare dal corpo […], quando verrà disfatto questo corpo, nostra abitazione sulla terra» (2 Cor 5,1.8-9); tuttavia, subito dopo si aggiunge che «riceveremo un’altra abitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mano d’uomo«, facendo riemergere l’idea di un corpo risorto. Ecco, proprio a quest’ultima notazione ci connettiamo per la nostra breve considerazione che ripropone l’antitesi sopra indicata tra “corpo psichico” e “corpo spirituale”. Nella risurrezione è la creazione intera che viene ricondotta, attraverso l’intervento divino, a un nuovo progetto “cosmico” (nel senso etimologico di “ordine, armonia”). In esso cadranno le coordinate limitative del tempo e dello spazio e, quindi, della finitudine, in cui ora siamo immersi, e della corruzione materiale e morale.
Alcuni teologi, soprattutto protestanti, pensano che nella morte avvenga una fine totale, così come nella conclusione dell’intera realtà creata: la risurrezione sarebbe, allora, una vera e propria “ri-creazione” divina, condotta ex novo. Ma in realtà nella visione paolina, esplicitamente modellata sulla risurrezione di Cristo, la cui identità personale permane, si sottolinea una continuità, anche se di difficile definizione e descrizione: l’essere attuale, individuale e cosmico sotto l’azione divina viene trasformato in un nuovo statuto di essere e di esistere, immesso nell’eterno e nell’infinito. Tra presente e futuro dell’uomo e del mondo c’è, allora, un rapporto di continuità nell’identità individuale, ma anche di discontinuità nella qualità dell’essere.
Non è certo facile delineare in modo puntuale e accurato questa transizione e lo stesso Paolo nel capitolo 15 della Prima lettera ai Corinzi fatica nel rappresentare questa uscita dalla prigione dello spazio e del tempo e l’evolversi della realtà presente e storica verso quell’orizzonte trascendente. Infatti, fa ricorso a immagini come quella del nesso tra seme e albero, un nesso di continuità, ma anche di novità e di diversità, e conclude: «Si semina corruttibile e risorge incorruttibile, si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza, si semina un corpo psichico [sôma psychikón] e risorge un corpo spirituale [sôma pneumatikón]» (15,42-44).
Si riaffaccia, dunque, il contrasto tra il “corpo psichico”, che indica la creatura umana con la sua psyché, la sua interiorità, inserita però nello stato presente, storico della realtà, e il “corpo spirituale” che è quello del futuro escatologico, ossia della pienezza di vita della nuova creazione, oltre lo spazio e il tempo. “Corpo spirituale” non è, allora, qualcosa di evanescente o simile a un ectoplasma; con questa espressione Paolo intende il corpo risorto, cioè la persona umana pienamente pervasa dallo Pneuma, lo Spirito di Dio operante nel Cristo risorto. Per l’apostolo il modello e il principio della nostra futura trasfigurazione è proprio Cristo risorto che incarna lo statuto dell’uomo redento, in comunione perfetta con l’eterno e l’infinito divino.
Si potrebbe, quindi, concludere affermando che Paolo ha considerato l’“anima” (psyché) come il segno della nostra umanità terrena e lo “spirito” (pneuma) come emblema della nostra meta oltremondana quando «Dio sarà tutto in tutti» (1Cor 15, 28). La redenzione futura coinvolge tutto l’essere creato e, quindi, anche la materia che è in noi e fuori di noi. Con una battuta si potrebbe dire che, mentre nella concezione greca l’oltrevita è liberazione dalla materia considerata come un gravame maligno, nel cristianesimo l’oltrevita è liberazione anche della materia destinata a essere trasfigurata e integrata in una creazione rinnovata.
È per questo che nella Lettera ai Romani si legge: «La creazione stessa [quindi anche la materia] attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio. Essa, infatti, è stata sottomessa alla caducità […] ma nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloria dei figli di Dio» (8, 19-21).
«Avvenire» del 20 gennaio 2014
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