L'equazione tra economia di mercato e benessere diffuso non vale più, e il malcontento della classe media rischia di travolgere il sistema
di Claudia Astarita
Siamo davvero arrivati alla fine del capitalismo come noi lo conosciamo? I sintomi che il sistema sia malato ci sono. La crisi economica che ha afflitto la maggior parte delle economie avanzate è soltanto uno di questi, anche se è di gran lunga il più evidente. A volte, dimentichiamo che all'origine di questi anni difficili non ci sono state guerre o eventi epocali – come era avvenuto per le crisi passate della medesima portata, ma la sovraesposizione al debito di alcune società statunitensi. Il vero problema è che dalla crisi si sta uscendo con un modello che non sembra più portare i benefici che l'economia capitalista aveva garantito in passato e che, di fatto, l'avevano resa l'arma micidiale che aveva permesso alle democrazie occidentali di vincere la Guerra Fredda con le dittature comuniste.
In generale, il funzionamento del capitalismo contemporaneo non viene più percepito come capace di diffondere ricchezza in maniera equa. La ripresa economica sembra essere a tutto vantaggio di una élite sempre più ristretta: fenomeno un tempo confinato alle economie emergenti o a quelle del cosiddetto "socialismo di mercato", ma che oggi parrebbe caratterizzare anche Paesi con ben altra tradizione. Qui non si tratta solo dei danni derivanti alla collettività dalle produzioni ad alto impatto ambientale, i cui guadagni vanno in mano a pochi e i cui effetti toccano tutti: in ballo, c'è la condizione della classe media, che è stata storicamente l'asse portante della forza dei grandi Paesi occidentali, Italia compresa. L'impoverimento del ceto medio, derivante da una progressiva redistribuzione dei redditi a favore di minoranze di super ricchi, è un dato globale e fisicamente palpabile. Basti pensare ai quartieri centrali delle grandi metropoli europee e statunitensi, dove un tempo abitavano medici, insegnanti e commercianti affermati e che ora sono esclusivo appannaggio della élite finanziaria internazionale e si stanno trasformando sempre più in isole di lusso estremo, inaccessibili anche a chi abbia realizzato un'ottima carriera professionale. Oppure ai negozi dei grandi marchi di alta moda, dove vengono venduti pezzi dal prezzo equivalente al reddito annuale di un avvocato di provincia.
Chi la pensa così non è più il portavoce di opinioni isolate o il rappresentante di voci fuori dal coro e anti-sistema. In giro per il mondo le manifestazioni di protesta per un capitalismo più equilibrato e per uno sviluppo socialmente più sostenibile non si contano e queste voci potrebbero avere un peso importante nelle decisioni politiche future. Del resto, si tratta di una posizione condivisa anche dai vertici di grandi corporazioni finanziarie: è il caso di Dominic Barto, direttore del global management di McKinsey, secondo il quale l'involuzione del capitalismo lo ha reso un sistema meno inclusivo di quanto non fosse fino a pochi decenni fa, cancellando l'elemento di responsabilità sociale che ne era uno degli aspetti più positivi. Insomma, o si torna all'antica, quando ancora valeva l'equazione tra economia di mercato e benessere diffuso, oppure il rischio che il malcontento della classe media travolga il sistema potrebbe trasformarsi in un'ipotesi concreta.
In generale, il funzionamento del capitalismo contemporaneo non viene più percepito come capace di diffondere ricchezza in maniera equa. La ripresa economica sembra essere a tutto vantaggio di una élite sempre più ristretta: fenomeno un tempo confinato alle economie emergenti o a quelle del cosiddetto "socialismo di mercato", ma che oggi parrebbe caratterizzare anche Paesi con ben altra tradizione. Qui non si tratta solo dei danni derivanti alla collettività dalle produzioni ad alto impatto ambientale, i cui guadagni vanno in mano a pochi e i cui effetti toccano tutti: in ballo, c'è la condizione della classe media, che è stata storicamente l'asse portante della forza dei grandi Paesi occidentali, Italia compresa. L'impoverimento del ceto medio, derivante da una progressiva redistribuzione dei redditi a favore di minoranze di super ricchi, è un dato globale e fisicamente palpabile. Basti pensare ai quartieri centrali delle grandi metropoli europee e statunitensi, dove un tempo abitavano medici, insegnanti e commercianti affermati e che ora sono esclusivo appannaggio della élite finanziaria internazionale e si stanno trasformando sempre più in isole di lusso estremo, inaccessibili anche a chi abbia realizzato un'ottima carriera professionale. Oppure ai negozi dei grandi marchi di alta moda, dove vengono venduti pezzi dal prezzo equivalente al reddito annuale di un avvocato di provincia.
Chi la pensa così non è più il portavoce di opinioni isolate o il rappresentante di voci fuori dal coro e anti-sistema. In giro per il mondo le manifestazioni di protesta per un capitalismo più equilibrato e per uno sviluppo socialmente più sostenibile non si contano e queste voci potrebbero avere un peso importante nelle decisioni politiche future. Del resto, si tratta di una posizione condivisa anche dai vertici di grandi corporazioni finanziarie: è il caso di Dominic Barto, direttore del global management di McKinsey, secondo il quale l'involuzione del capitalismo lo ha reso un sistema meno inclusivo di quanto non fosse fino a pochi decenni fa, cancellando l'elemento di responsabilità sociale che ne era uno degli aspetti più positivi. Insomma, o si torna all'antica, quando ancora valeva l'equazione tra economia di mercato e benessere diffuso, oppure il rischio che il malcontento della classe media travolga il sistema potrebbe trasformarsi in un'ipotesi concreta.
«Panorama» del 3 gennaio 2014
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