Gruppo 63 (seconda puntata)Le
di Alessandro Zaccuri
Nel ’63 non era ancora nato, ma il Gruppo lo conosce bene. «Non puoi farne a meno, se hai studiato a Bologna», scherza, ma non troppo, Matteo Marchesini, classe 1979, critico fra i più acuminati della sua generazione oltre che poeta e narratore (il suo Atti mancati, edito da Voland, è entrato quest’anno nella selezione del premio Strega). «Adesso siamo al cinquantennale, cifra tonda – aggiunge –, ma non è che gli anniversari precedenti siano passati inosservati. Grandi squilli di tromba, ogni volta che se ne presentava l’occasione. Del resto, la Neoavanguardia si è sempre distinta per una forte solidarietà, anche corporativa, e non per la coerenza dell’elaborazione estetica».
Questo non è esattamente un giudizio benevolo.
«Mi limito a descrivere quello che è successo. Immediatamente successivo alla generazione del dopoguerra, il Gruppo 63 ha subito mostrato un’estrema spregiudicatezza nel cavalcare la nascente industria culturale. L’università, l’editoria, i giornali, la televisione: in ciascuno di questi ambiti i giovani della Neoavanguardia erano attivi e riconoscibili. Con l’effetto autopromozionale che risulta evidente anche oggi».
Detto così, non resta molto da salvare.
«Proviamo a fare qualche paragone?»
Proviamo.
«Quello con il Gruppo 47 tedesco è improponibile, lo sappiamo. Resta la questione dello svecchiamento teorico, che già all’epoca pareva abbastanza deludente a un osservatore attento come Franco Fortini. Nella prospettiva di oggi, ci rendiamo conto che quello proposto dal Gruppo 63 fu, tutto sommato, un corso accelerato di aggiornamento culturale, i cui esiti sono rimasti modesti. Qualcosa del genere si era già verificato un secolo prima con la Scapigliatura, che aveva cercato di importare in Italia le istanze della grande letteratura romantica e post-romantica dell’Ottocento francese. Ma fra Victor Hugo e Giuseppe Rovani ogni raffronto è impietoso, così come lo è quello fra il nouveau roman e la riproposizione, in buona parte meccanica, operata dalla nostra Neoavanguardia».
Vuol dire che sarebbe stato meglio attenersi alla tradizione?
«Sarebbe stato meglio riscoprire la vera Neoavanguardia italiana, quella che, già negli anni Venti, viene praticata da autori come Massimo Bontempelli e Alberto Savinio. Le loro opere rappresentano la prosecuzione e il superamento delle Avanguardie storiche, fenomeno poi auspicato, ma non realizzato dal Gruppo 63. L’effetto surrealista, la precisione geometrica della struttura, la poetica anti-soggetivista: in Savinio e Bontempelli c’è già tutto questo. Con la differenza che i loro sono capolavori, mentre nella ripresa degli anni Sessanta prevale un atteggiamento di liquidazione ludica».
Ma almeno un merito i Novissimi e compagnia lo avranno avuto, no?
«Sono stati gli ultimi intellettuali a fare i conti con la cultura moderna. Gli ultimi, intendo, a porsi i problemi che hanno caratterizzato la modernità così come l’abbiamo conosciuta nel corso del XX secolo. In questo, però, più che la presa di posizione neoavanguardista contava l’elemento anagrafico. Chi era nato tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta non poteva non collocarsi in quella prospettiva. Un autore come Giovanni Raboni, diversissimo e addirittura inconciliabile rispetto ai Novissimi, condivide molte delle preoccupazioni che furono di Sanguineti. È l’ultima ondata di critici-poeti o, se si preferisce, di poeti con una spiccata attitudine critica. E, per inciso, scrivono benissimo. Autunno del Novecento di Alfredo Giuliani, per esempio, è un libro che continua ad affascinare per forza stilistica, anche quando sostiene tesi non condivisibili».
Qual è l’eredità di tutto questo?
«Molto scarsa, purtroppo. Basta guardare a quanto è accaduto nella poesia. La generazione successiva ha ripreso alcune parole d’ordine della Neovanguardia, ma con una coscienza critica bassissima. Da un lato abbiamo avuto il rifiuto ideologico della letteratura, tipico di una certa sottocultura del Sessantotto, dall’altro il riemergere di una scrittura poco sorvegliata, “privatistica” e sostanzialmente anarchica sul versante formale. Tutta la strumentazione del Gruppo 63 mirava a sbarazzarsi dell’individuo, mentre la poesia successiva adopera quegli stessi stratagemmi per imporre un’individualità impoverita, frammentaria e non consapevole».
Con il romanzo non va un po’ meglio?
«Direi di no. Anzi, qui il rapporto con l’industria culturale risulta ancora più ambiguo. Penso al caso di Renato Barilli, che nella sua carriera di critico si è reso disponibile a celebrare ogni nuova nidiata di narratori, incurante dello scadimento estetico e del fatto che molti di quei libri fossero in realtà prodotti in laboratorio dalle case editrici, con una logica non dissimile da quella delle serie televisive. Come se l’entusiasmo per la sperimentazione si fosse tradotto in ottimismo preconcetto verso qualsiasi prodotto di massa ammannito al lettore. E come se, più che altro, la sola sperimentazione riconosciuta fosse quella che si fonda su una serie di infrazioni gridate, eccessive e in definitiva banali. Nonostante le prese in giro del Gruppo 63, il Cassola di Un cuore arido e il Bassani di L’Airone restano molto più sperimentali. E molto più coraggiosi nella loro sottigliezza».
Questo non è esattamente un giudizio benevolo.
«Mi limito a descrivere quello che è successo. Immediatamente successivo alla generazione del dopoguerra, il Gruppo 63 ha subito mostrato un’estrema spregiudicatezza nel cavalcare la nascente industria culturale. L’università, l’editoria, i giornali, la televisione: in ciascuno di questi ambiti i giovani della Neoavanguardia erano attivi e riconoscibili. Con l’effetto autopromozionale che risulta evidente anche oggi».
Detto così, non resta molto da salvare.
«Proviamo a fare qualche paragone?»
Proviamo.
«Quello con il Gruppo 47 tedesco è improponibile, lo sappiamo. Resta la questione dello svecchiamento teorico, che già all’epoca pareva abbastanza deludente a un osservatore attento come Franco Fortini. Nella prospettiva di oggi, ci rendiamo conto che quello proposto dal Gruppo 63 fu, tutto sommato, un corso accelerato di aggiornamento culturale, i cui esiti sono rimasti modesti. Qualcosa del genere si era già verificato un secolo prima con la Scapigliatura, che aveva cercato di importare in Italia le istanze della grande letteratura romantica e post-romantica dell’Ottocento francese. Ma fra Victor Hugo e Giuseppe Rovani ogni raffronto è impietoso, così come lo è quello fra il nouveau roman e la riproposizione, in buona parte meccanica, operata dalla nostra Neoavanguardia».
Vuol dire che sarebbe stato meglio attenersi alla tradizione?
«Sarebbe stato meglio riscoprire la vera Neoavanguardia italiana, quella che, già negli anni Venti, viene praticata da autori come Massimo Bontempelli e Alberto Savinio. Le loro opere rappresentano la prosecuzione e il superamento delle Avanguardie storiche, fenomeno poi auspicato, ma non realizzato dal Gruppo 63. L’effetto surrealista, la precisione geometrica della struttura, la poetica anti-soggetivista: in Savinio e Bontempelli c’è già tutto questo. Con la differenza che i loro sono capolavori, mentre nella ripresa degli anni Sessanta prevale un atteggiamento di liquidazione ludica».
Ma almeno un merito i Novissimi e compagnia lo avranno avuto, no?
«Sono stati gli ultimi intellettuali a fare i conti con la cultura moderna. Gli ultimi, intendo, a porsi i problemi che hanno caratterizzato la modernità così come l’abbiamo conosciuta nel corso del XX secolo. In questo, però, più che la presa di posizione neoavanguardista contava l’elemento anagrafico. Chi era nato tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta non poteva non collocarsi in quella prospettiva. Un autore come Giovanni Raboni, diversissimo e addirittura inconciliabile rispetto ai Novissimi, condivide molte delle preoccupazioni che furono di Sanguineti. È l’ultima ondata di critici-poeti o, se si preferisce, di poeti con una spiccata attitudine critica. E, per inciso, scrivono benissimo. Autunno del Novecento di Alfredo Giuliani, per esempio, è un libro che continua ad affascinare per forza stilistica, anche quando sostiene tesi non condivisibili».
Qual è l’eredità di tutto questo?
«Molto scarsa, purtroppo. Basta guardare a quanto è accaduto nella poesia. La generazione successiva ha ripreso alcune parole d’ordine della Neovanguardia, ma con una coscienza critica bassissima. Da un lato abbiamo avuto il rifiuto ideologico della letteratura, tipico di una certa sottocultura del Sessantotto, dall’altro il riemergere di una scrittura poco sorvegliata, “privatistica” e sostanzialmente anarchica sul versante formale. Tutta la strumentazione del Gruppo 63 mirava a sbarazzarsi dell’individuo, mentre la poesia successiva adopera quegli stessi stratagemmi per imporre un’individualità impoverita, frammentaria e non consapevole».
Con il romanzo non va un po’ meglio?
«Direi di no. Anzi, qui il rapporto con l’industria culturale risulta ancora più ambiguo. Penso al caso di Renato Barilli, che nella sua carriera di critico si è reso disponibile a celebrare ogni nuova nidiata di narratori, incurante dello scadimento estetico e del fatto che molti di quei libri fossero in realtà prodotti in laboratorio dalle case editrici, con una logica non dissimile da quella delle serie televisive. Come se l’entusiasmo per la sperimentazione si fosse tradotto in ottimismo preconcetto verso qualsiasi prodotto di massa ammannito al lettore. E come se, più che altro, la sola sperimentazione riconosciuta fosse quella che si fonda su una serie di infrazioni gridate, eccessive e in definitiva banali. Nonostante le prese in giro del Gruppo 63, il Cassola di Un cuore arido e il Bassani di L’Airone restano molto più sperimentali. E molto più coraggiosi nella loro sottigliezza».
«Avvenire» del 10 agosto 2013
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