di Francesco D'Agostino
La categoria della "non negoziabilità" è emersa per la prima volta nel Magistero della Chiesa nella Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica emanata il 24 novembre del 2002 dalla Congregazione per la dottrina della fede. La Nota era firmata dal cardinale Joseph Ratzinger, nella qualità di Prefetto della Congregazione e venne approvata da Papa Giovanni Paolo II. Nel paragrafo 3 della Nota si ribadisce che «non è compito della Chiesa formulare soluzioni concrete – e meno ancora soluzioni uniche – per questioni temporali che Dio ha lasciato al libero e responsabile giudizio di ciascuno». Se però, aggiunge la Nota, il cristiano è tenuto ad «ammettere la legittima molteplicità e diversità delle opzioni temporali», egli è ugualmente chiamato «a dissentire da una concezione del pluralismo in chiave di relativismo morale, nociva per la stessa vita democratica, la quale ha bisogno di fondamenti veri e solidi, vale a dire, di principi etici che per la loro natura e per il loro ruolo di fondamento della vita sociale non sono negoziabili». Nel prosieguo della Nota, e in particolare nel paragrafo 4, si procede a una esemplificazione di questi principi, dopo aver ribadito che «la partecipazione diretta dei cittadini alle scelte politiche si rende possibile solo nella misura in cui trova alla sua base una retta concezione della persona». Le esigenze etiche fondamentali e irrinunciabili, nelle quali è in gioco l’essenza dell’ordine morale, che riguarda il bene integrale della persona, sono quelle che emergono nelle leggi civili in materia di aborto e di eutanasia, quelle che concernono la tutela e la promozione della famiglia, fondata sul matrimonio monogamico tra persone di sesso diverso, protetta nella sua unità e stabilità e alla quale non possono essere giuridicamente equiparate in alcun modo altre forme di convivenza; quelle che garantiscono la libertà di educazione ai genitori per i propri figli.
L’esemplificazione ovviamente non è esaustiva. La Nota infatti continua richiamando la tutela sociale dei minori e la liberazione delle vittime dalle moderne forme di schiavitù (come la droga e lo sfruttamento della prostituzione), includendo in questo elenco il diritto alla libertà religiosa e lo sviluppo per un’economia che sia al servizio della persona e del bene comune, nel rispetto della giustizia sociale, del principio di solidarietà umana e di quello di sussidiarietà. E infine si richiama come essenziale in questa esemplificazione il grande tema della pace. Non deve destare meraviglia il fatto che l’espressione principi non negoziabili, elaborata da Joseph Ratzinger Cardinale, sia stata da allora ripresa molte volte da Joseph Ratzinger come Papa Benedetto XVI e, naturalmente, in altri documenti del Magistero, fino al punto che tale espressione è ormai divenuta frequente ogni qual volta si discuta sulle posizioni in merito alle quali la Chiesa e i cattolici non possono e non devono transigere. È chiaro, in base ai testi che abbiamo citato, che l’ammonimento del Papa a difendere fino i fondo questi principi è rivolto in primo luogo ai cattolici che partecipano alla vita politica. Ma è lecito interrogarsi se i giuristi non debbano sentirsi anche loro destinatari di un invito così autorevole. La risposta, ovviamente, è positiva. I giuristi non solo possono, ma devono assumere i principi indicati da Benedetto XVI (la promozione del bene comune, l’impegno per la pace, la difesa della vita e della famiglia, il pieno riconoscimento della libertà di educazione) come giuridicamente non negoziabili e assimilarli a quei principi che, nel loro lessico tradizionale, costituiscono l’ossatura del diritto naturale.
Ai giuristi è infatti sufficiente rilevare che, se non si assumono questi principi come non negoziabili, la costruzione di un qualsivoglia sistema giuridico diviene impossibile. Facciamo alcuni esempi. Un potere rescisso dal bene comune può pure imporsi sulla faccia della terra (e storicamente si è imposto innumerevoli volte), ma non come ordinante e pacificante (secondo quella che è la vocazione del diritto), bensì nella sua dimensione di forza bruta e cieca. Se la vita non è tutelata giuridicamente dal suo inizio fino alla sua fine naturale, l’esistenza dell’individuo cade inevitabilmente nelle mani di poteri biopolitici, governati dalla logica glaciale della funzionalità riproduttiva. Se la famiglia non viene riconosciuta come l’ordine antropologico primario, antecedente a qualsivoglia ordine politico, perché, a differenza di questo, è dotato di una naturalità non convenzionale, l’identità personale di ogni essere umano diviene evanescente e cade nella disponibilità delle forze occasionalmente prevalenti. Se si nega ai genitori la libertà di educare ai propri valori i figli per affidarla unicamente allo Stato, la formazione delle nuove generazioni verrà inevitabilmente modellata sui paradigmi impersonali della politica e non su quelli personali dell’unico luogo, cioè il contesto familiare, nel quale l’individuo può farsi riconoscere e riconoscere l’altro in una logica di comunicazione totale. Negoziare su tali principi implica mettere in discussione non opzioni individuali per il bene (cosa che è sempre, in linea di principio, lecita), ma l’esistenza stessa di un bene umano universale, al quale tutte le persone hanno il diritto di attingere. Se è diverso l’orientamento al bene umano proprio dei politici, rispetto a quello proprio dei giuristi, non può essere diverso l’impegno di testimonianza che nei confronti del bene devono assumere gli uni e gli altri. La coerenza eucaristica, che il Papa cita come ammonimento ai credenti, va tradotta e professata dai giuristi cattolici come una vera e propria coerenza antropologica o, se si vuole, di servizio limpido e infaticabile al bene dell’uomo.
«Avvenire» del 7 dicembre 2012
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