Motivazioni dello studio della cultura classica
di Elisabetta Degl'Innocenti
È un confronto pressoché quotidiano quello degli insegnanti con la richiesta degli studenti delle motivazioni del loro studio: richiesta che si fa più pressante nei riguardi delle discipline umanistiche, insidiate da alcuni decenni da un processo di marginalizzazione nella scuola e di perdita di ruolo nella società.
La domanda "a che cosa serve il latino?" (per non parlare del greco), sollevata da studenti e genitori e accompagnata da dubbi sull"`utilità" anche di altri studi umanistici, si colloca nella drastica riduzione quantitativa e qualitativa delle discipline classiche nei sistemi scolastici europei, dagli anni sessanta del secolo scorso. L’Italia non ha confinato il latino in un solo indirizzo specialistico (come l’Austria o la Danimarca), né l’ha reso opzionale (come la maggioranza degli stati europei); tuttavia l’ha lentamente ridimensionato nel corso degli anni, fino alla notevole contrazione della recente riforma Gelmini.
Lo scarso attaccamento che italiani ed europei sembrano dimostrare nei confronti delle lingue e della cultura dei loro progenitori contrasta con il rapporto che altri popoli instaurano con il loro "latino e greco". Tullio De Mauro - nell’introduzione al saggio della Nussbaum di cui parleremo - ha ricordato che in Cina, Giappone, India, nei paesi arabi e in Israele la conoscenza delle rispettive lingue classiche (il cinese e il giapponese classici, il sanscrito, l’arabo del Corano, l’ebraico biblico) è considerata centrale nei processi educativi e praticata come elemento di identità nazionale. Eppure sono proprio questi alcuni dei paesi protagonisti oggi di tumultuosi progressi economici, dai quali provengono scienziati, tecnici ed economisti di altissimo livello.
Nel saggio Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica (2011) Martha C. Nussbaum analizza le logiche che ispirano i sistemi scolastici dei paesi avanzati. La filosofa americana lancia un grido d’allarme sulla "silenziosa crisi" che sta colpendo i sistemi formativi a livello mondiale, da lei identificata nella perdita di ruolo delle discipline umanistiche. Ciò deriva da un asservimento della missione educativa a logiche economicistiche, secondo una visione semplificata del rapporto tra scuola e sviluppo economico. La scelta del PIL come indicatore prevalente del successo economico di un paese (peraltro messa in discussione da economisti come Amartya Sen) ha infatti indotto i governi a privilegiare le discipline direttamente funzionali alle innovazioni tecnologiche e alla crescita economica, a netto discapito delle discipline umanistiche, percepite come "fronzoli superflui". Ora, sempre secondo la Nussbaum, la dissociazione o il disequilibrio tra le due culture deprime le potenzialità di innovazione, di creatività, di pensiero indipendente, necessarie a conseguire risultati in campo tecnico-scientifico ed economico, e, al tempo stesso, ostacola il formarsi di cittadini pienamente inseriti nella vita democratica, capaci di esercitare i propri diritti. Alla deprecata "istruzione per il profitto" la Nussbaum oppone un’"istruzione per la democrazia".
Secondo la Nussbaum, infatti, le capacità intellettuali favorite dagli studi umanistici sono «fonda-mentali per mantenere vive e ben salde le democrazie [...] per consentire [loro] di far fronte, in modo responsabile, ai problemi che le attendono come parti di un mondo interdipendente». Ella le identifica in tre aree: la capacità di pensare criticamente, la capacità di trascendere i localismi e affrontare i problemi mondiali come cittadini del mondo, la capacità di raffigurarsi simpateticamente la categoria dell"`altro". L’educazione per la buona cittadinanza e la democrazia non è del tutto alternativa a quella per il profitto, perché - aggiunge la Nussbaum - l’interesse di «una democrazia moderna [per] un’economia forte e una cultura di mercato fiorente [...] richiede proprio l’apporto degli studi umanistici e artistici, allo scopo di promuovere un clima di attenta e responsabile disponibilità, nonché una cultura di innovazione creativa».
Il taglio esplicitamente politico dell’analisi della filosofa americana rappresenta una novità nel dibattito sui destini della cultura classica, perlopiù condotto su un piano culturale. Not for profit è divenuto subito un successo planetario e il clima prevalente è di consenso alle posizioni della Nussbaum, ma non mancano le critiche. C’è chi le attribuisce una visione troppo ottimistica e forse illusoria della democrazia, salvata dalle discipline umanistiche grazie al metodo del confronto socratico e del critical thinking. Alessandro Pagnini ha scritto che quella della Nussbaum sembra una «teologia secondo la quale il bene finirà per trionfare in virtù della sola conversazione», ricordando che «Pol Pot leggeva Rousseau e Sartre, e che il neonazista della recente strage di Oslo leggeva Kafka!» (Humanities alla luce della ragione, in "Il Sole 24 Ore Domenica", 4 settembre 2011).
Un’altra obiezione rivolta alla Nussbaum è che il suo saggio sembra riproporre l’antinomia tra la cultura scientifica e quella umanistica. Il problema delle "due culture", posto per la prima volta nel 1959 dal celebre saggio di Charles P. Snow, risulta oggi complicato dal parcellizzarsi delle scienze e delle tecnologie, che sembrano generare non due o tre, ma una pluralità di culture. Da ciò le preoccupazioni di chi vede - citiamo ancora Pagnini - nella «pur sacrosanta rivendicazione del valore formativo delle humanities» il rischio che possa di nuovo assumere i tratti di una pretesa egemonica, soprattutto in paesi i cui sistemi formativi non forniscono un’adeguata «forma mentis scientifica, che faccia con naturalezza pensare le cose in modo oggettivo e le faccia prima di tutto confrontare con le evidenze». È questo, in particolare, il caso dell’Italia, viziata da un persistente deficit di cultura scientifica.
Non mancano d’altra parte i richiami alla primigenia unità di cultura umanistica e cultura scientifica. La scissione tra le due culture non è "naturale", ma si colloca storicamente alla metà del XIX secolo, e il valore di quella unità – scrive Bruno Arpaia – appare se ci chiediamo per esempio come sia possibile oggi «parlare di sentimenti o di emozioni senza sapere nulla di sinapsi e neuroscienze» (Non due, ma mille culture, in "Il Sole 24 Ore Domenica", 10 luglio 2011).
Tra coloro ai quali va riconosciuto il merito di condurre con convinzione questa battaglia per l’unità del sapere stanno certamente i classicisti. Tra gli altri si distingue il Centro Studi La permanenza del Classico dell’Università di Bologna, diretto da Ivano Dionigi, cui si deve un convegno sui rapporti tra scienza e cultura classica tenutosi nel 2005, nel quale intervenne il fior fiore dell’intellettualità classicista, filosofica e scientifica italiana e internazionale. Nel contributo Classici perché, classici per chi (comparso nella miscellanea di saggi Nuove chiavi per insegnare il classico, 2008) Dionigi ricorda la diversità degli statuti disciplinari scientifico e umanistico, uno basato su un paradigma sostitutivo in quanto incrementato da nuove scoperte, l’altro su un paradigma cumulativo in quanto incrementato dalla memoria storica, ma depreca l’autonomia "sciagurata" tra classici e scienza. C’è un terreno sul quale in particolare gli umanisti rivendicano da sempre una comunanza metodologica ed epistemologica con gli scienziati: la filologia. Nel saggio Filologia e libertà (2008) Luciano Canfora attribuisce a questa disciplina quei requisiti di indipendenza di pensiero e di lotta contro il dogmatismo che ne fanno «la più eversiva delle discipline». Canfora ricorda che il «metodo Lachmann», punto di svolta della storia della filologia, venne salutato al suo apparire a metà dell’Ottocento come metodo scientifico, in grado stabilire una "legge", identificata con lo stemma codicum, cioè con l’albero genealogico dei codici tramandati di un testo. Ma poi – prosegue lo studioso – quel metodo fu messo in discussione dagli studi successivi e la "norma" dello stemma divenne l"eccezione", mentre quella che prima era considerata l’eccezione, cioè la contaminazione dei codici, divenne la norma: un capovolgimento che sembra parallelo a quello che riguardò matematica, fisica, astronomia, le cui "norme" vennero messe in discussione dagli inizi del Novecento. Da un protagonista delle rivoluzioni culturali novecentesche, Albert Einstein, viene un’altra riflessione sul legame tra cultura scientifica e cultura umanistica. Nella sua autobiografia intellettuale Einstein ricorda il rapporto profondo che esiste tra concetti, cioè tutto quel che sappiamo e pensiamo, e parole, che apprendiamo dalla tradizione. E la tradizione da cui sono nate le nostre parole (lo sottolinea De Mauro nella già citata prefazione alla Nussbaum) è quella greco-latina, dalla quale proviene in maniera pressoché esclusiva il lessico intellettuale delle lingue europee. Conoscere quelle parole nella precisione e densità del loro significato è indispensabile per parlare con un linguaggio non stereotipato o banale, per accedere ai testi del proprio patrimonio culturale, per progredire nella conoscenza.
Ma, se sono vere e da tanti condivise tutte queste qualità della cultura classica, perché assistiamo al suo declino? Basta a spiegarlo l’interpretazione economica della Nussbaum, che si lega alle conseguenze dell’attuale mondo globalizzato? Quali effetti provoca la globalizzazione sul piano culturale, sul senso comune delle persone, sul loro modo di interpretare la realtà e se stessi? E questi effetti confliggono con la cultura umanistica e classica in particolare?
Salvatore Settis (nel saggio Futuro del "classico", 2004) individua nel postmoderno il sistema culturale che corrode dall’interno la cultura classica, soprattutto attraverso due elementi che lo caratterizzano: la perdita di senso storico, cioè l’appiattimento sul presente percepito come virtualmente simultaneo a qualunque momento del passato; il citazionismo, cioè la scomposizione della tradizione in frammenti decontestualizzati e sottoposti ai più arbitrari rimontaggi. I due elementi si combinano in quanto le "citazioni" – per esempio gli elementi architettonici classici inseriti in edifici di oggi, o le vignette che raffigurano George W. Bush vestito da imperatore romano – corrispondono a «un uso della storia per exempla, e non secondo una concatenazione di eventi, stabiliti mediante l’indagine storica e legati da nessi di causa ed effetto». Così, nell’orizzonte globalizzato l’antichità classica si guadagna il suo piccolo posto in mezzo a tante altre antichità (indiane, cinesi, maya), oppure viene «ridotta a un retroterra nebbioso e indistinto, conservando semmai solo una qualche funzione ornamentale» (i "fronzoli superflui" di cui parla anche la Nussbaum).
Le amare constatazioni di Settis si accompagnano alle sue accuse contro certi sostenitori della classicità, involontari alleati dei suoi peggiori nemici. Attribuire al classico un carattere paradigmatico e di perenne attualità, investirlo della responsabilità di esprimere un valore identitario in risposta alle ansie della globalizzazione, farne la bandiera della civiltà occidentale come contenitore di radici comuni: tutto ciò da una parte esprime una concezione eurocentrica ed egemonica, destinata a fallire nel mondo globalizzato, dall’altra banalizza la stessa cultura classica perché ne semplifica la complessità, riducendo ad unum ciò che invece è plurale. Insomma, proiettare la classicità su un piano universale equivale a "estirparla dalla storia", esattamente come fa la cultura postmoderna. Un analogo rifiuto dell’"iconizzazione" del classico è espresso da Giuseppe Cambiano. Per rispondere alla domanda posta dal titolo del suo saggio Perché leggere i classici (2010), Cambiano contesta uno dopo l’altro i luoghi comuni sulla validità della cultura classica, lasciandoci in un disarmante disorientamento. Non è vero che i classici sono dotati di intramontabile verità e bellezza: anch’essi soffrono di finitudine e precarietà. Non è vero che sono per forza attuali, perché le risposte che, per esempio, i filosofi antichi danno alle esigenze del presente possono essere viziate da quella che egli chiama la "cosmetica" dei classici, cioè da un’operazione di occultamento di ciò che non è considerato ideologicamente valido al momento, oppure possono essere più proficuamente sostituite dalle risposte offerte dalla filosofia contemporanea. Non è corretto neppure affermare che nella cultura classica risiedono le radici della cultura occidentale: questa metafora esprime una concezione teleologica, secondo la quale il presente è il frutto inevitabile del passato e non avrebbe potuto essere diverso da quello che è, mentre sappiamo che la storia scritta dai vincitori tende a cercare nel passato solo ciò che li giustifica e li esalta.
E dunque? La soluzione sta nell’accettare la realtà multiforme della classicità e nel rifiutarne l’immagine di modello armonico a senso unico, o compatibile con nostre scelte di valore. Sta, in altre parole, nel farla emergere nella sua irriducibile complessità, «come rete di alternative che di volta in volta sono state fatte valere e si fanno ancor oggi valere» (Cambiano), nella consapevolezza che non esiste un "classico" perché ogni epoca se n’è inventata un’idea diversa (Settis).
Bisogna insomma accettare che gli antichi sono "altro" da noi e rapportarsi a loro con procedimenti simili a quelli che l’antropologia usa per studiare culture diverse dalla propria, considerandoli un "altrove" (nel tempo) analogo a quello di altre culture extraeuropee (l’altrove" nello spazio). Questi procedimenti di "straniamento" consentono di misurare la distanza che ci separa dai Greci e dai Romani per esempio in materia di amore e sessualità, o di giudicare con i nostri parametri la schiavitù e i giochi gladiatori, o di confrontare il nostro concetto dei diritti femminili con la condizione giuridica delle matrone (come fa Maurizio Bettini, Noi e i romani. Un problema di giusta distanza, nel volume collettaneo Nuove chiavi per insegnare il classico, 2008).
Un relativismo culturale, dunque, nel quale la cultura classica "vale" per noi quanto le grandi civiltà asiatiche o le culture cosiddette "primitive"? In realtà, il confronto che stabiliamo con i nostri maiores è profondamente diverso. Il fatto è – afferma ancora Cambiano – che essi si sono così profondamente sedimentati nella nostra cultura da fornire oggi un patrimonio di "credenze comuni" (concetti filosofici, principi giuridici, tòpoi letterari e artistici, pratiche di vita quotidiana ecc.) che costituiscono non un blocco omogeneo, anzi «una sorta di multiculturalismo nel cuore stesso di quella cultura che si crede unitaria, e che siamo abituati a chiamare occidentale», ma tuttavia esplicitamente o implicitamente condiviso.
In questa polarità tra alterità e persistenza del classico risiede la motivazione più profonda del suo studio, e del nostro insegnamento. Come dice Settis, «sia perché lo sentiamo nostro, sia perché lo riconosciamo "diverso" da noi; sia in quanto esso è intrinseco alla cultura occidentale e indispensabile a intenderla, sia in quanto ci apre la porta a studiare e comprendere le culture "altre"; sia perché serbatoio di valori in cui possiamo ancora riconoscerci, sia per quello che esso ha di irriducibilmente estraneo».
In conclusione, possiamo rispondere ai nostri studenti che la cultura classica "serve" per gli strumenti di critical thinking (su cui tanto insistono gli americani), per «l’apertura e la radicalità delle argomentazioni, il conflitto delle idee, la fiducia nella capacità della ragione di decidere di questo conflitto, l’instancabile curiosità nell’esplorare prospettive e orizzonti di conoscenza» (Mario Vegetti, Di fronte ai classici, 2003).
Serve perché ci aiuta a pensare, parlare e leggere bene, comprendendo il significato del patrimonio letterario (il che, di questi tempi, rappresenta un’emergenza educativa nazionale). Serve perché, con la sua identità plurale, costituisce una sorta di pre-globalizzazione che aiuta a "trascendere i localismi", e, con il suo cosmopolitismo, offre strumenti per affrontare i problemi mondiali come "cittadini del mondo", come dice la Nussbaum. Serve perché, con la sua alterità, ci abitua a un sano relativismo nemico del pensiero unico e perché, come si augura ancora la filosofa americana, offre la raffigurazione simpatetica della categoria dell’altro.
E, ancora, serve perché aiuta ad acquisire una profondità di senso storico e per l’eredità insieme linguistica e di fondamenti e strutture del pensiero europeo.
Serve, infine, perché ci aiuta ad abitare le città e le campagne del nostro paese e di tanti paesi di quello che fu un tempo l’impero romano, il cui immenso patrimonio archeologico non può essere compreso se non se ne conosce la cultura; il che, come ricorda Ivano Dionigi, tra l’altro offre, o offrirebbe, straordinarie prospettive economiche.
Autori vari, «Cultura umanistica e scuola: riflessioni e analisi», Pearson Italia, 2011 (pp. 49-54)
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