Le critiche della Ue all’uso dei dati personali
di Francesco Ognibene
di Francesco Ognibene
Dicono che la crisi
abbia incoraggiato a rispolverare il baratto: quando mancano i soldi per la
compravendita si può sempre fare appello allo scambio tra beni di valore
equivalente, qualcosa di mio per qualcosa che ti appartiene. Un gesto che,
peraltro, riattiva la fiducia reciproca oscurata dal ricorso esclusivo al denaro
nelle relazioni personali, chiamando le parti a mettersi in gioco assai più di
quanto accada con una banconota o la carta di credito.
L’importante è che la transazione avvenga all’insegna del gratuito e su un piano di sostanziale parità, soppesando i benefici attesi da entrambi.
Dove il sistema del baratto funziona a pieno regime – pressoché non visto, ma in regime di effettivo monopolio – è dentro il "sesto continente" di Internet, nel quale vige un codice elementare quanto efficacissimo: vuoi fruire gratis di uno qualunque dei servizi oramai irrinunciabili per chiunque si muova sul Web? L’affare si può concludere, ma cosa mi offri in cambio? Ormai è chiaro che i fornitori di posta elettronica, messaggistica, mappe stradali, musica e spazi video su Internet puntano dritto sul solo bene che nel Web oggi vale come moneta sonante, ed è considerato di valore sufficiente a ripagare i considerevoli servizi offerti senza chiedere alcun corrispettivo economico: l’identità degli utenti.
Niente di più facile che cliccare nelle caselle indicate in calce alla corposissima modulistica sulla privacy – provate solo a non farlo: sarete messi alla porta, ovviamente a mani vuote – per vedersi spalancare la porta già aperta da milioni di altri utenti che hanno accettato il baratto digitale tra parti rilevanti di sé e la libertà di comunicare senza limiti.
Quello che si cede infatti non sono solo le generalità ma la propria "mappabilità", la radiografia completa di gusti, interessi, opinioni, consumi, acquisti, persino degli spostamenti. Della raccolta sistematica dei dati personali, autorizzata dai diretti interessati in cambio del piatto di lenticchie di una casella postale o di qualche video amatoriale caricato su Internet, Google ha fatto una scienza per effetto della sua tumultuosa espansione da motore di ricerca a oligopolio del Web con marchi come Gmail, YouTube, Google Maps e Google News associati a servizi trasformati in standard.
L’impero fondato da Sergey Brin e Larry Page prospera grazie alla pubblicità mirata sul profilo individuale di chi usa uno qualunque dei servizi gratuiti targati Google. La fotografia di ciascun utilizzatore dev’essere precisa al punto da permettere, a fronte di ricerche uguali, risultati differenti (e differente pubblicità) a seconda di chi interroga Google: un effetto paradossale della pesca a strascico nei dati personali, che finisce per cucire attorno a ogni utente un vestito informativo su misura, come se il sapere, le notizie, le idee o i dati che emergono dagli spazi sconfinati della rete potessero assumere infiniti volti e non possedessero più una natura propria. L’effetto-Google è che ognuno trova quel che si aspetta piuttosto che la realtà, una conoscenza parziale e non uno sguardo completo. Siamo sulla soglia di un ridisegno della conoscenza ma nessuno ci ha avvertiti: sembrava tutto facile, quando ci fu chiesto di "accettare" le condizioni per il baratto identità-servizi, ma il gioco oggi si svela assai più complesso del "tutto gratis".
È probabile che i Garanti della privacy dei Paesi Ue avessero presenti anche questi aspetti di scenario quando, ieri, hanno sottoscritto una lettera per chiedere conto a Google della sua gestione sempre più opaca della mole ingentissima di informazioni personali stivata giorno dopo giorno nei forzieri informatici del quartier generale a Mountain View. La loro offensiva diplomatica ha preso di petto la questione centrale nell’era della piena maturità di Internet: la gestione delle orme che lasciamo a ogni segnale di attività lanciato tramite computer, tablet o smartphone. Non c’è sospiro che passi inosservato.
La «privacy policy» di Google – il documento che si sottoscrive prima di accedere al servizio desiderato – costituisce ormai una cambiale in bianco della quale abbiamo perso il controllo. Ma è realistico pensare che basti aggiungere qualche pagina a questo cavilloso contratto preliminare, congegnato da uno stuolo di avvocati al solo scopo di prevenire qualunque grana legale, per rendere più trasparente il rapporto in questo scambio sempre più diseguale? La verità è che quanto maggiori sono le prestazioni che esigiamo da Google tanto più acuta dev’essere la consapevolezza nell’uso di uno strumento così potente e pervasivo. Una questione di coscienza e responsabiltà. Come sempre.
L’importante è che la transazione avvenga all’insegna del gratuito e su un piano di sostanziale parità, soppesando i benefici attesi da entrambi.
Dove il sistema del baratto funziona a pieno regime – pressoché non visto, ma in regime di effettivo monopolio – è dentro il "sesto continente" di Internet, nel quale vige un codice elementare quanto efficacissimo: vuoi fruire gratis di uno qualunque dei servizi oramai irrinunciabili per chiunque si muova sul Web? L’affare si può concludere, ma cosa mi offri in cambio? Ormai è chiaro che i fornitori di posta elettronica, messaggistica, mappe stradali, musica e spazi video su Internet puntano dritto sul solo bene che nel Web oggi vale come moneta sonante, ed è considerato di valore sufficiente a ripagare i considerevoli servizi offerti senza chiedere alcun corrispettivo economico: l’identità degli utenti.
Niente di più facile che cliccare nelle caselle indicate in calce alla corposissima modulistica sulla privacy – provate solo a non farlo: sarete messi alla porta, ovviamente a mani vuote – per vedersi spalancare la porta già aperta da milioni di altri utenti che hanno accettato il baratto digitale tra parti rilevanti di sé e la libertà di comunicare senza limiti.
Quello che si cede infatti non sono solo le generalità ma la propria "mappabilità", la radiografia completa di gusti, interessi, opinioni, consumi, acquisti, persino degli spostamenti. Della raccolta sistematica dei dati personali, autorizzata dai diretti interessati in cambio del piatto di lenticchie di una casella postale o di qualche video amatoriale caricato su Internet, Google ha fatto una scienza per effetto della sua tumultuosa espansione da motore di ricerca a oligopolio del Web con marchi come Gmail, YouTube, Google Maps e Google News associati a servizi trasformati in standard.
L’impero fondato da Sergey Brin e Larry Page prospera grazie alla pubblicità mirata sul profilo individuale di chi usa uno qualunque dei servizi gratuiti targati Google. La fotografia di ciascun utilizzatore dev’essere precisa al punto da permettere, a fronte di ricerche uguali, risultati differenti (e differente pubblicità) a seconda di chi interroga Google: un effetto paradossale della pesca a strascico nei dati personali, che finisce per cucire attorno a ogni utente un vestito informativo su misura, come se il sapere, le notizie, le idee o i dati che emergono dagli spazi sconfinati della rete potessero assumere infiniti volti e non possedessero più una natura propria. L’effetto-Google è che ognuno trova quel che si aspetta piuttosto che la realtà, una conoscenza parziale e non uno sguardo completo. Siamo sulla soglia di un ridisegno della conoscenza ma nessuno ci ha avvertiti: sembrava tutto facile, quando ci fu chiesto di "accettare" le condizioni per il baratto identità-servizi, ma il gioco oggi si svela assai più complesso del "tutto gratis".
È probabile che i Garanti della privacy dei Paesi Ue avessero presenti anche questi aspetti di scenario quando, ieri, hanno sottoscritto una lettera per chiedere conto a Google della sua gestione sempre più opaca della mole ingentissima di informazioni personali stivata giorno dopo giorno nei forzieri informatici del quartier generale a Mountain View. La loro offensiva diplomatica ha preso di petto la questione centrale nell’era della piena maturità di Internet: la gestione delle orme che lasciamo a ogni segnale di attività lanciato tramite computer, tablet o smartphone. Non c’è sospiro che passi inosservato.
La «privacy policy» di Google – il documento che si sottoscrive prima di accedere al servizio desiderato – costituisce ormai una cambiale in bianco della quale abbiamo perso il controllo. Ma è realistico pensare che basti aggiungere qualche pagina a questo cavilloso contratto preliminare, congegnato da uno stuolo di avvocati al solo scopo di prevenire qualunque grana legale, per rendere più trasparente il rapporto in questo scambio sempre più diseguale? La verità è che quanto maggiori sono le prestazioni che esigiamo da Google tanto più acuta dev’essere la consapevolezza nell’uso di uno strumento così potente e pervasivo. Una questione di coscienza e responsabiltà. Come sempre.
«Avvenire» del 17 ottobre 2012
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