di Philippe Daverio
Tutto inizia ovviamente dall’archetipo per eccellenza: il cicerone classico, quello che arrotondava lo stipendio da custode museale percependo piccole mance dal visitatori ai quali spiegava l’importanza delle opere appese alle pareti. Ed è nella complessa figura di quest’utilissimo protagonista, ormai scomparso per motivi sindacali, che si annidano le contraddizioni successive dei 'servizi aggiuntivi', come li definiva la legge Ronchey e il successivo codice Urbani. Se il cicerone era attratto solo dalla mancia raccontava ciò che era necessario per ottenerla, il minimo indispensabile, o ciò che serviva a carpire la simpatia del visitatore, ciò che rendeva la questione ironica o misteriosa. Se invece era egli morso dalla passione per la storia delle arti, poteva trasmettere talvolta utilissime informazioni e altre volte trasformare la visita in un autentico supplizio retorico. Comunque sia, i servizi aggiuntivi hanno fatto fare un salto qualitativo all’umanità. Da un lato è sorto il mestiere delle guide museali, ragazze e ragazzi, anche signore e signori, laureati nelle varie discipline dove l’Università italiana offre futuri professionali attraenti, che si dedicavano a spiegare a gruppi di visitatori ciò che stavano vedendo e talvolta addirittura guardando.
La qualità della comunicazione era una combinazione fra i testi, preparati dai loro allenatori e coordinatori, e la loro stessa abilità nel restituirli. Pregio: parlare a tanti consente di lasciare ai partecipanti una sensazione sociale della visita; difetto: parlare a voce alta rende la presenza assai ingombrante per chi al gruppo non partecipa e avrebbe la voglia di guardare in santa pace. Il successo di questi interventi è legato in gran parte alla forte quantità di mostre che organizzatori, assessori, editori e promotori inventano per campare e far campare. La terza fase inizia con la modernizzazione delle macchinette dette 'audioguide' che si affittano all’inizio del percorso e diventano un piccolo vate sonoro collocato del padiglione dell’orecchio. Tutto dipende ovviamente da chi sta seduto nell’auricolare e parla. Certo la parte folkloristica e dialettale del cicerone è stata superata, ma per il resto il ventaglio delle declinazioni stilistiche è quello di ieri: si va dalla lezione ben impartita e ben recitata allo spadellamento delle più nozionistiche fra le ovvietà. Dipende da chi ha vinto la gara d’appalto, e se la gara è stata vinta al massimo ribasso, vedete un po’ voi. Comunque l’utente, che ha pagato, tende a consumare tutto ciò che ha erogato e quindi segue la lezione con attenzione dall’inizio alla fine. È una vittima consenziente della comunicazione.
Per fortuna stiamo entrando nella quarta fase del sistema dei servizi aggiuntivi, quella interattiva. Non è una rivoluzione da poco. La generazione iPad, iPhone ecc. ecc. offrirà in futuro un rapporto interattivo al visitatore, il quale potrà scegliere di interrogare l’elettronica come interrogava una volta il cicerone intelligente. Ben meglio ancora, l’apparecchio, se puntato sull’opera che si decide di guardare, si metterà in moto automaticamente aprendo un vaso di Pandora di informazioni. Il che richiederà ovviamente due passi evolutivi conseguenti: una maggiore consapevolezza dell’utente, cosa che appare possibile visto l’acculturamento suo in corso, e una flessibilità estremamente sofisticata dei testi e dei contenuti, il che dipenderà dalla crescita qualitativa di chi vi pone i contenuti. Cosa non affatto evidente e automatica. E forse sarà necessario rivedere i criteri delle gare d’appalto, scommessa questa realmente difficile nell’Italia d’oggi, dove le microlobby del sistema museale sembrano non scalzabili.
«Avvenire» del 30 settembre 2012
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