11 luglio 2013

Via dal culto imperiale

Capitalismo finanziario e antidoti
di Luigino Bruni
Per capire che cosa veramente si cela die­tro le crescenti resistenze alla chiusura domenicale dei negozi, dobbiamo avere il co­raggio di fare seriamente i conti con la natu­ra antropologica e cultuale del nostro capita­lismo. Il filosofo Walter Benjamin nel 1921 scri­veva che «nel capitalismo bisogna scorgervi u­na religione, perché nella sua essenza esso serve a soddisfare quelle medesime preoccu­pazioni, quei tormenti, quelle inquietudini, cui in passato davano risposta le cosiddette re­ligioni. (…) In Occidente, il capitalismo si è sviluppato parassitariamente sul cristianesi­mo » (Il Capitalismo come religione, 1921). E con capacità profetica aggiungeva: «In futuro ne avremo una visione complessiva».
Infatti, la natura religiosa del capitalismo è oggi molto più evidente che negli anni Venti, se pensiamo quanto sono diventanti esigui i territori della vita non in vendita. Una reli­gione pagana e di solo culto, che cerca di pren­dere il posto del cristianesimo (non di qual­siasi religione), anche perché è dall’umanesi­mo ebraico-cristiano che è stato generato. La modernità, allora, non sarebbe una de-sacralizzazione o disincanto del mondo, ma l’af­fermazione di una nuova religione, o la tra­sformazione dello spirito cristiano nello 'spi­rito' del capitalismo. Una tesi forte, inevita­bilmente controversa, ma che coglie senza dubbio una dimensione fondamentale del no­stro tempo, colta anche dal genio filosofico di Antonio Rosmini quando il capitalismo era ancora ai suoi albori.
Gli intrecci tra cristianesimo e capitalismo so­no profondi fin dalle loro origini. Il capitali­smo prende il proprio lessico dalla Bibbia (fe­de-fiducia, credito-credere...), e gli stessi e­vangelisti usano il linguaggio economico del loro tempo per comporre similitudini e para­bole. E non capiamo Medioevo, Riforma e Mo­dernità senza le tante intersezioni tra grazia e denaro. Ma solo in epoca recente il capitali­smo ha rivelato pienamente la sua natura di religione pagana. Non c’è soltanto la devo­zione alla dea fortuna, divinità suprema del­la legione di 'giochi' che sta possedendo nuo­ve categorie di poveri. Non ci sono soltanto i centri commerciali disegnati a forma di tem­pio, né solo la cultura di quelle società di mul­ti-level marketing che iniziano col segno del­la croce le loro sedute in cerca di nuovi fedeli del loro prodotto-feticcio, e neanche soltan­to la creazione di un sistema finanziario ba­sato sulla sola fede senza più alcun rapporto con l’economia reale.
Questa nuova religione ci promette, ci offre, molto di più: una pseudo-eternità, un surro­gato della vita eterna. La mia auto in quanto singolo prodotto invecchia e si deteriora, ma, se ho il denaro o credito, posso acquistarne immediatamente un’altra nuova, vincendo così la morte. Fino all’apoteosi della chirurgia estetica, l’elisir dell’(illusione) dell’eterna gio­vinezza. Come ogni religione pagana celebra il piacere e la giovinezza, e così non vuol ve­dere e nasconde la morte (anche dentro l’idea orgogliosa di quell’autodeterminazione che si fa eutanasia e suicidio assistito). La na­sconde perché troppo vera per essere da es­sa capita: chi incrocia più un funerale lun­go le nostre strade? Chi vede più i bambini attorno al capezzale di un nonno defunto? Così da idolatria, malattia di ogni civiltà reli­giosa, il culto del denaro si è trasformato con il capitalismo in una vera e propria religione, con propri sacerdoti, chiese, incensi, liturgie e santi, con un culto feriale a orario conti­nuato, un’adorazione perpetua che non si in­terrompe né di sabato, né di venerdì, né tan­tomeno di domenica. È quindi una pia illu­sione pensare che la cultura capitalista pos­sa rispettare il riposo domenicale: in quella re­ligione non c’è domenica, perché ogni gior­no è il giorno del culto. Non c’è coabitazione tra la cultura della domenica e la cultura del capitalismo.
I capitalismi, però, non sono tutti uguali – o almeno non lo erano fino ad epoca recente. L’Europa, in particolare, ha generato una sua propria via al capitalismo, che è stato l’ap­prodo di un modo di intendere l’economia e la società, nato anche dal cuore dei carismi monastici, francescani, domenicani. La Rifor­ma e la Controriforma hanno inferto una profonda ferita a quell’economia di mercato che aveva fatto grandi e bellissime Firenze, Venezia, Lisbona.
La lunga storia europea, con la sua grande esperienza di società diverse e meticce, è stata capace di dar vita ad un capitalismo sociale o, come preferisco dire, a una economia di mercato civile che ha consentito i miracoli economici, la fioritura del movimento cooperativo (la più grande esperienza di economia di mercato non capitalistico della storia), il grande progetto di un’Europa unita, e la realizzazione di uno Stato sociale e comunitario che il mondo civile ci invidiava. Il nostro capitalismo è stato diverso, non dimentichiamolo oggi nell’età della globalizzazione, perché era basato su una idea di mercato solidale e comunitario. Se il nostro capitalismo civile fosse ancora vivo, non dovrebbero esistere società di giochi e scommesse 'legali' che 'donano' un volgarissimo 0,0001% degli enormi profitti a fondazioni per la cura delle dipendenze dall’azzardo da loro create. Come non dovrebbero esistere fondazioni ed enti pubblici che accettano queste elemosine, disoneste e mortifere. E non dovrebbero esistere cittadini europei che assistono silenti a questi sacrifici umani ai nuovi dei pagani. E invece esistono e proliferano, complici i governi, anche per mancanza di forza politica, per assenza di pensiero profondo, e per la latitanza di una società civile matura e responsabile. Le Chiese, in particolare la Chiesa cattolica, nel Ventesimo Secolo avevano individuato il nemico della fede nei grandi sistemi collettivisti, e sono state protagoniste nel crollo di quei muri. E mentre la polvere di quel crollo si alzava, la voce del Papa non mancò di avvertire che un’altra forza presuntuosa e 'selvaggia' continuava a minacciare l’uomo e la donna del nostro tempo.
Non c’è, però, ancora la consapevolezza diffusa del pericolo non meno devastante e anti-cristiano del capitalismo finanziario, che, anche per la nostra distrazione, sta dominando e paganizzando il mondo. L’uomo del capitalismo non può essere evangelizzato, perché ha già il suo vangelo, che chiede molto meno del Vangelo di Gesù. La buona battaglia per salvare la domenica, anche come giorno liberato dalla cultura del mono-mercato, ha senso se è segno di una rinascita di un pensiero politico ed economico diversi, che metta in discussione i dogmi e i tabù del culto dei mercati. Le radici cristiane e umanistiche dell’Europa non possono essere invocate solo per riconoscere da dove veniamo, dovrebbero anche indicarci dove dobbiamo andare. E sono negate e osteggiate proprio perché segno di contraddizione, perché risorse morali utili per tracciare una rotta alternativa rispetto a quella che si vuole imporre. L’impero del capitalismo finanziario e della sua religione è destinato, come tutti gli imperi della storia, a crollare, e sono molti i segni che dicono che il suo crollo non è distante. Dobbiamo sentire forte la responsabilità di agire e reagire subito per far sì che tra due-tre decenni i nostri nipoti crescano liberati dai totem e i tabù che hanno occupato il nostro tempo e persino le nostre anime.
«Avvenire» del 7 luglio 2013

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