11 luglio 2013

Tornano i moralisti di professione

Quel tintinnare di manette che è sempre preludio dello Stato etico
di Piero Ostellino
A giudicare dai commenti sul processo e la condanna di Silvio Berlusconi, molti italiani pensano sia giusto che un imputato - la cui probità è oggetto di discussione nell'opinione pubblica - non debba godere delle garanzie dello Stato di diritto e venga condannato, anche in difetto di prove, perché «in ogni caso, se lo merita e sconta, così, colpe per le quali se l'era cavata in passato». «Le sentenze - dicono - non si discutono; si rispettano». Anche quando sono palesemente sbagliate e/o ingiuste? Sì, perché, discuterle sarebbe «compromettente» per i magistrati che le hanno erogate. Se, ieri, per molti italiani, era il duce ad avere «sempre ragione»; oggi, forse per gli stessi, sono i magistrati. Non è un gran passo avanti. Sarebbe, perciò, inutile spiegare a costoro che la democrazia liberale è discutibile e perfettibile; che lo Stato di diritto è ben altra cosa del tentativo di «raddrizzare il legno storto dell'umanità» a furor di popolo. Nello Stato di diritto, l'imputato è giudicato per quello che ha fatto, non per quello che è, si presume sia, o appaia attraverso i media; e anche il peggior criminale è garantito dalla legge contro gli eventuali abusi del potere, compreso quello giudiziario, come ogni cittadino onesto. Quando c'è di mezzo Berlusconi, a prevalere, sono i pregiudizi e il quadro diventa di più complessa lettura. Ciò non di meno, il dato sugli italiani e lo Stato di diritto è ugualmente significativo perché non rivela solo il pregiudizio contro Berlusconi, ma anche una opposizione strutturata nei confronti delle «formalità procedurali» dello Stato di diritto in vista della realizzazione di una giustizia «sostanziale». L'Habeas corpus, più che una serie di garanzie a tutela dell'inquisito, è una medicina da subire con lo stesso disgusto col quale, da piccoli, ingurgitavano, a forza, l'olio di fegato di merluzzo. Eppure, la forte cultura progressista, che domina incontrastata sull'intero Paese, avrebbe dovuto vaccinarne i cittadini contro le derive antidemocratiche. Invece, ne è stata la causa, ancorché indiretta. Le campagne contro il Caimano - un pericolo per la democrazia e del quale bisognava sbarazzarsi al più presto e in ogni modo - si sono tradotte in una ideologica e universalistica messa in discussione dello stesso Stato di diritto. Se il Caimano era un pericolo, non aveva senso perdere tempo in formalismi; il problema era eliminarlo e colpire l'infezione che lui aveva provocato. Un giornalismo pedagogico, laico, democratico e antifascista - che doveva essere la levatrice di un popolo di sinistra presidio della democrazia - è stato l'incubatrice di un fenomeno reazionario. È sorta una congerie di tagliagola; di moralisti di professione e di bigotti ideologici; di fautori dell'ordine poliziesco e del tintinnare di manette preludio dello Stato etico. E la strada, costellata di buone intenzioni progressiste, ha portato all'inferno della Reazione.
«Corriere della Sera» del 6 luglio 2013

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