01 novembre 2020

Rispetto o libertà? Il dilemma della satira

di Giuseppe Dalla Torre
È trascorso un tempo sufficiente dai tragici fatti di “Charlie Hebdo” per affrontare, con il dovuto distacco, una questione delicata e complessa. Sia chiaro subito: non sono assolutamente condivisibili le posizioni di chi, all’indomani dei fatti, si è lasciato sfuggire espressioni come «se la sono cercata». La vita umana è sacra, sempre, comunque; anche nel caso dei reati più efferati non è ammissibile il ricorso alla pena di morte. In una società civile non è ammissibile che chi si senta leso dal comportamento altrui, anche qualora fosse nel giusto, si faccia giustizia da sé. Uno dei cardini del contratto sociale che dà vita alle moderne democrazie è, infatti, il trasferimento all’autorità dello Stato dell’esercizio del potere di giudicare e di irrogare sanzioni.
Ciò detto, la vicenda parigina che ha tanto coinvolto l’opinione pubblica merita qualche considerazione. Occorre soffermarsi in particolare sulla libertà di professione della fede religiosa. Questo diritto strutturalmente postula una dimensione pubblica e non meramente privata del fatto religioso. La protezione della manifestazione dell’appartenenza religiosa ha senso specialmente nella pubblica agorà, dove in concreto può essere minacciata da altre posizioni religiose o ideologiche, siano esse portate dalla pubblica autorità o da poteri privati. Può essere lesiva della libertà religiosa un’ideologia della laicità che è in realtà laicismo: vale a dire una concezione contraria alla religione, che combatte la religione ritenuta come favola o mito da cui liberare la società. Ciò può avvenire con le armi della violenza fisica, come accaduto in tante dolorose esperienze di Stati che avevano posto l’ateismo tra i propri valori fondanti; ma ciò può avvenire anche con le armi della violenza morale e psicologica.
La tradizione francese, anche se conosce diverse concezioni della laicità, è decisamente segnata da una prettamente ideologica: la famosa laïcité de combat. È da domandarsi se l’ideologia laicista, laddove non rimanga espressione di una tra le tante identità esistenti nel corpo sociale, ma assurga ad un potere di fatto intimidatorio anche attraverso il dileggio e lo scherno, non possa sconfinare talora in una ingiusta violenza nei confronti dei credenti, che si concretizza in una violazione della libertà religiosa.Una seconda considerazione attiene alla libertà di manifestazione del pensiero. Non si può non cogliere oggi una certa degenerazione dell’antico (e nobile) genere della satira: da attacco agli abusi di chi è al potere (anche religioso) ai vizi individuali, a fatti specifici, a individui o gruppi determinati, tende a divenire strumento per colpire in forma caricaturale intere categorie di persone per il mero fatto della loro appartenenza, religiosa o etnica. Si tratta di un fenomeno che porta a tradire il ruolo critico, quindi positivo, della satira, facendo pericolosamente pendere questa verso forme di provocazione gratuite, senza finalità costruttive. Non si vede come irridere ferocemente persone e simboli venerati in una religione, o valori identificanti un popolo, possa essere una manifestazione di pensiero critico, costruttivo, volto al bene della società.
Una terza considerazione attiene al tema della violenza. In uno Stato democratico l’uso della forza è riservato alla pubblica autorità ed eccezionalmente al privato; questi può ricorrere legittimamente alla forza nei soli casi previsti in maniera tassativa dalla legge (si pensi alla legittima difesa). Ma violenza è solo quella fisica? Riflettendo la verità del reale, il diritto ha sempre conosciuto anche la violenza psichica o morale, e l’ha sempre considerata come un fatto civilmente e penalmente illecito, in quanto lesivo della libertà individuale o collettiva. La violenza non fisica, quella contenuta in espressioni del pensiero come talora nella satira, può considerarsi pienamente legittima? Se rientra nei compiti dello Stato bandire la violenza, in qualsiasi forma essa si manifesti nella società, non è mai ammissibile una tutela del sentimento individuale e collettivo contro manifestazioni di pensiero che incarnino violenza?
In una intervista concessa al “Corriere della Sera” del 3 febbraio 2015 Patrick Pelloux, il medico urgentista che il 7 gennaio fu il primo a soccorrere gli amici di “Charlie Hebdo” falciati dalle armi dei terroristi Saïd e Chérif Kouachi, ha tra l’altro affermato: «Rivendichiamo il nostro diritto alla blasfemia, che non è insulto, ma volontà di emancipazione dell’intelligenza». Ora che la blasfemia non sia insulto è quantomeno discutibile, ma certamente essa può concretarsi in una offesa; quanto poi alla “emancipazione dell’intelligenza”, si tratta di espressione che può tradire una volontà, tipicamente laicista, diretta a sradicare la religione anche attraverso la violenza di un pensiero offensivo.Quali conclusioni trarre da tutti gli interrogativi posti? Non certo l’auspicio di un ritorno a forme di censura, inammissibili in una società democratica; né si può confidare nei soli strumenti giuridici, che pure ci sono, di tutela giudiziale nei casi e nelle forme previste dalla legge. Il punto centrale è da rinvenire sul piano culturale ed etico. Appare necessario promuovere una cultura sensibile al fatto che, in una realtà sociale a pluralismo accentuato, la “casa comune” si costruisce non attraverso l’offesa, il vilipendio, l’aggressione sia pure solo “verbale”, sibbene attraverso un pensiero, anche critico, ma rispettoso e sostanzialmente solidale. Occorre comprendere che la satira non è uno strumento innocente; che essa, come ogni strumento, può essere utilizzata bene o male. Chi fa satira dovrebbe sempre chiedersi quali effetti essa può produrre sull’opinione pubblica, se di salutare critica al potere o non piuttosto di odio o dileggio nei confronti di determinate categorie di persone. In questo secondo caso essa può convertirsi in una silenziosa ma reale minaccia per la democrazia, disseminando semi di violenza e di discriminazione nella sua fragile costituzione. Anche in questo ambito, dunque, un impegno formativo e di sensibilizzazione si impone.
«Avvenire» del 13 maggio 2015

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