L’analisi
di Pierluigi Battista
Gli elettori americani hanno votato, segretamente, nel segreto dell’urna come si dice. E per molti, che pubblicamente avevano dichiarato di voler votare Clinton, proprio alle urne si è consumata la vendetta contro il «politicamente corretto»
Molti elettori americani, raccontano gli inviati in Ohio e nel Michigan, o nel Wisconsin, confessano di aver mentito nei sondaggi e di aver tenuto nascosto che avrebbero votato per Trump. «Non volevo che mi criticassero», dice uno. «Non volevo litigare», dice un’altra. «Mi avrebbero fatto vergognare», ha confessato un altro ancora. Ma perché? Cosa li ha trattenuti dal dire la verità? Volevano tenere segreta la loro scelta «impresentabile», ecco perché. Non avrebbero mentito se avessero scelto Clinton, perché sapevano che la loro scelta sarebbe rientrata nei canoni della correttezza (politica). Sapevano che esistono delle regole che impongono ciò che si può dire e ciò che non si può dire e che «io voto Trump» avrebbe infranto queste regole non scritte. E in cuor loro sapevano che chi imponeva quelle regole faceva parte del mondo che ha il potere delle parole. E contro i depositari del potere delle parole, contro il solito establishment, è partita la rivolta.
La «secessione delle plebi» come ha osservato acutamente Massimo Cacciari. La secessione segreta ma inesorabile dal mondo del «politicamente corretto». La secessione dal «regno della parola» come si intitola un libro che sta per uscire in Italia (Giunti) di Tom Wolfe, uno scrittore che ha infilzato i tic e le autocensure del politicamente corretto come nessun altro. Un regno in cui comandano antipatici pedagoghi, educatori odiosi che bacchettano sulle dita i riottosi e i trasgressori. E i pedagoghi spocchiosi non si amano. Non si votano. Si votano invece, segretamente, nel segreto dell’urna come si dice, quelli che stanno fuori, che stanno contro, che parlano una lingua libera dalle ingiunzioni del politicamente corretto. Votano Trump. O votano Brexit senza dirlo ai sondaggisti ma nel segreto dell’urna per mettere in pratica una secessione radicale dai gruppi dirigenti della società che parlano una lingua spocchiosa e innaturale, elitaria e censoria, autoritaria e intransigente: la lingua del politicamente corretto, appunto.
Il politicamente corretto ha anche qualche merito: impone di non offendere chi è più debole, chi viene messo ai margini attraverso il linguaggio. Quando esagera, diventa uno strumento intollerante. Vietare all’Università il «Tito Andronico» di Shakespeare perché, bollandolo di sessismo, contiene scene di stupro e offende le studentesse che hanno subito molestie sessuali non è solo una sciocchezza, ma esaspera la rivolta, offre un’arma a chi sente come asfissiante il controllo delle parole nella dimensione pubblica e si rifugia in una resistenza privata che arriva fino al voto segreto e scandalosamente inaccettabile. Nella dimensione pubblica viene lasciato campo libero ai guardiani occhiuti del verbo della correttezza politica. Ma lontano dallo sguardo sociale si prepara la vendetta.
Dicono che non è vero, che l’emergere dei movimenti «populisti» stia al contrario sdoganando il politicamente scorretto e la cattiveria. Sicuri? Nel mondo dei social, dove circolano cose feroci e anche immonde sulle donne, sui neri, sui gay, sugli immigrati, i troll più scatenati sono quasi tutti degli anonimi, che dalla caverna segreta del rancore vomitano insulti contro il mondo del politicamente corretto senza mai rivelare la loro identità. Si nascondono, non vogliono dire la verità, sanno che nella dimensione pubblica non potrebbero sopportare nemmeno una parte della riprovazione che viene loro riservata quando sono protetti dell’anonimato. Non è vero che tutto è stato sdoganato e che siamo, come scrive Antonio Padellaro sul Fatto, all’apologia spudorata del «rutto libero».
E poi chi si separa dal dominio del politicamente corretto, sente che i suoi custodi e sacerdoti sono immersi nell’ipocrisia del doppio standard, che sono severi con gli altri e quando fa loro comodo non hanno pudore. Deplorano la violenza verbale, le espressioni smodate e non controllate quando i bersagli dell’aggressione sono i «buoni», ma non hanno nessuna remora a sostenere uno dei «nostri», Robert De Niro, quando dà del «porco» e del «maiale» a Trump augurandosi di potergli spaccare la faccia: questo è accettabile, è cool, è miracolosamente «corretto». Ma nella secessione delle plebi, questo doppio standard del linguaggio rende ancora più odiose le ingiunzioni del politicamente corretto. E la vendetta arriva. Nel segreto. Contro tutti.
La «secessione delle plebi» come ha osservato acutamente Massimo Cacciari. La secessione segreta ma inesorabile dal mondo del «politicamente corretto». La secessione dal «regno della parola» come si intitola un libro che sta per uscire in Italia (Giunti) di Tom Wolfe, uno scrittore che ha infilzato i tic e le autocensure del politicamente corretto come nessun altro. Un regno in cui comandano antipatici pedagoghi, educatori odiosi che bacchettano sulle dita i riottosi e i trasgressori. E i pedagoghi spocchiosi non si amano. Non si votano. Si votano invece, segretamente, nel segreto dell’urna come si dice, quelli che stanno fuori, che stanno contro, che parlano una lingua libera dalle ingiunzioni del politicamente corretto. Votano Trump. O votano Brexit senza dirlo ai sondaggisti ma nel segreto dell’urna per mettere in pratica una secessione radicale dai gruppi dirigenti della società che parlano una lingua spocchiosa e innaturale, elitaria e censoria, autoritaria e intransigente: la lingua del politicamente corretto, appunto.
Il politicamente corretto ha anche qualche merito: impone di non offendere chi è più debole, chi viene messo ai margini attraverso il linguaggio. Quando esagera, diventa uno strumento intollerante. Vietare all’Università il «Tito Andronico» di Shakespeare perché, bollandolo di sessismo, contiene scene di stupro e offende le studentesse che hanno subito molestie sessuali non è solo una sciocchezza, ma esaspera la rivolta, offre un’arma a chi sente come asfissiante il controllo delle parole nella dimensione pubblica e si rifugia in una resistenza privata che arriva fino al voto segreto e scandalosamente inaccettabile. Nella dimensione pubblica viene lasciato campo libero ai guardiani occhiuti del verbo della correttezza politica. Ma lontano dallo sguardo sociale si prepara la vendetta.
Dicono che non è vero, che l’emergere dei movimenti «populisti» stia al contrario sdoganando il politicamente scorretto e la cattiveria. Sicuri? Nel mondo dei social, dove circolano cose feroci e anche immonde sulle donne, sui neri, sui gay, sugli immigrati, i troll più scatenati sono quasi tutti degli anonimi, che dalla caverna segreta del rancore vomitano insulti contro il mondo del politicamente corretto senza mai rivelare la loro identità. Si nascondono, non vogliono dire la verità, sanno che nella dimensione pubblica non potrebbero sopportare nemmeno una parte della riprovazione che viene loro riservata quando sono protetti dell’anonimato. Non è vero che tutto è stato sdoganato e che siamo, come scrive Antonio Padellaro sul Fatto, all’apologia spudorata del «rutto libero».
E poi chi si separa dal dominio del politicamente corretto, sente che i suoi custodi e sacerdoti sono immersi nell’ipocrisia del doppio standard, che sono severi con gli altri e quando fa loro comodo non hanno pudore. Deplorano la violenza verbale, le espressioni smodate e non controllate quando i bersagli dell’aggressione sono i «buoni», ma non hanno nessuna remora a sostenere uno dei «nostri», Robert De Niro, quando dà del «porco» e del «maiale» a Trump augurandosi di potergli spaccare la faccia: questo è accettabile, è cool, è miracolosamente «corretto». Ma nella secessione delle plebi, questo doppio standard del linguaggio rende ancora più odiose le ingiunzioni del politicamente corretto. E la vendetta arriva. Nel segreto. Contro tutti.
«Corriere della sera» dell'11 novembre 2016
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