di Francesco Costa
Tra le molte discussioni che si fanno in questi anni riguardo al giornalismo e internet, ce n'è una che si fa molto nei giornali – tra le redazioni, i direttori, gli editori – e poco sui giornali: cosa fare con i "commenti", cioè gli interventi pubblicati direttamente dai lettori in calce agli articoli.
Gli addetti ai lavori ne discutono spesso, soprattutto quando ai direttori o agli editori capita di dare un'occhiata a quello che succede nella sezione dei commenti dei loro siti, ma non è uno dei classici temi su cui si organizzano tavole rotonde e dibattiti con esperti: un po' perché è sicuramente una questione minore, all'interno della svolta epocale che sta coinvolgendo i giornali di tutto il mondo, e un po' perché parlarne in pubblico è complicato e delicato. Ma il problema esiste.
Da settembre sull'edizione statunitense dell'Huffington Post non è più possibile commentare gli articoli in forma anonima: bisogna fornire nome e cognome. L'Huffington Post non è il Financial Times, serioso, elegante e di nicchia: è una specie di mega-tabloid che ha costruito le sue fortune su una tecnologia formidabile e sulla costruzione di grandissime masse di contenuti e di utenti, senza preoccuparsi della loro qualità. Nonostante questo, e nonostante il controllo e la supervisione di 40 persone (!), ha ritenuto di dover intervenire. I disturbatori e i violenti sono diventati «sempre più cattivi, aggressivi e ingegnosi», hanno spiegato, trasformando la sezione dei commenti «in uno dei luoghi più oscuri di internet». L'Huffington Post aggiunge che questa deriva è evidente guardando cosa accade in calce ai loro articoli «ma anche a quelli di altri siti di news», e che tre quarti dei commenti che riceve (!) non vanno online perché spam o perché «contengono livelli impubblicabili di vetriolo».
Su una cosa quelli dell'Huffington Post hanno ragione: le sezioni dei commenti sui siti di news molto frequentati contengono nel migliore dei casi luoghi comuni, banalità fuori tema e umorismo di quarta categoria. L'equivalente delle interviste ai passanti trasmesse dai telegiornali. Nel peggiore dei casi, che purtroppo è anche il più frequente, contengono violenza, insulti, aggressività, sessismo, razzismo, diffamazioni e calunnie: tutto ripetuto a grandissima frequenza e tutto destinato a rimanere per anni visibile e accessibile attraverso i motori di ricerca. Su un'altra cosa, però, quelli dell'Huffington Post hanno torto: il problema non è l'anonimato nei commenti. Il problema sono i commenti.
La diffusione dei commenti in calce agli articoli online è un retaggio dell'esplosione dei blog e del cosiddetto "web 2.0". Nel frattempo sono passati più di dieci anni – su internet praticamente un'era geologica – ed è cambiato tutto: come si fanno i siti, chi li legge, come vengono letti, cosa ci trovi dentro. I commenti sono rimasti.
Quello che sappiamo è che persino siti con milioni di lettori al giorno hanno poche centinaia di commentatori fissi: niente che allarghi gli orizzonti e il pubblico del giornale, niente che influisca in alcun modo sui dati di traffico, niente che migliori la qualità delle pagine su cui scrivono. Anzi, spesso la qualità precipita. I commenti non attirano nuovi utenti e lettori: spesso li respingono. Piuttosto che "creare community" – un mantra dell'internet del secolo scorso – nella nostra epoca le nicchie di commentatori distruggono le community (questa è la conclusione a cui è arrivato Gawker, altro sito americano di news di grande successo). L'idea che basti supervisionare i commenti per renderli utili è illusoria, come mostra la decisione dell'Huffington Post – e non c'è giornale in Italia che considererebbe utile assumere 3 persone, figuriamoci 40, per controllare i commenti.
Acclarato che la decisione sul pubblicare o no i commenti non ha a che fare con la costruzione di un sito di news letto e apprezzato, né col mantenimento di una comunità di lettori numerosa e partecipe, il grande equivoco è pensare che c'entri invece con la libertà d'espressione. La libertà di espressione non garantisce il diritto di scrivere qualsiasi cosa in calce a un articolo né obbliga i giornali a pubblicare qualsiasi cosa sulle loro pagine. Nessuno lo pretenderebbe o lo considererebbe normale su un giornale di carta, e non solo per ragioni di spazio: perché non avrebbe senso. Quello che avrebbe senso per i siti di news sarebbe, paradossalmente, quello che fanno già i giornali di carta: invitare i lettori a inviare i loro commenti via e-mail, cosa che già ridurrebbe moltissimo il rumore di fondo, e pubblicare i pochi davvero interessanti, i migliori. Il posto degli altri non è sui giornali, ma sui social network: hanno molto a che fare con la chiacchiera, niente con l'informazione.
Gli addetti ai lavori ne discutono spesso, soprattutto quando ai direttori o agli editori capita di dare un'occhiata a quello che succede nella sezione dei commenti dei loro siti, ma non è uno dei classici temi su cui si organizzano tavole rotonde e dibattiti con esperti: un po' perché è sicuramente una questione minore, all'interno della svolta epocale che sta coinvolgendo i giornali di tutto il mondo, e un po' perché parlarne in pubblico è complicato e delicato. Ma il problema esiste.
Da settembre sull'edizione statunitense dell'Huffington Post non è più possibile commentare gli articoli in forma anonima: bisogna fornire nome e cognome. L'Huffington Post non è il Financial Times, serioso, elegante e di nicchia: è una specie di mega-tabloid che ha costruito le sue fortune su una tecnologia formidabile e sulla costruzione di grandissime masse di contenuti e di utenti, senza preoccuparsi della loro qualità. Nonostante questo, e nonostante il controllo e la supervisione di 40 persone (!), ha ritenuto di dover intervenire. I disturbatori e i violenti sono diventati «sempre più cattivi, aggressivi e ingegnosi», hanno spiegato, trasformando la sezione dei commenti «in uno dei luoghi più oscuri di internet». L'Huffington Post aggiunge che questa deriva è evidente guardando cosa accade in calce ai loro articoli «ma anche a quelli di altri siti di news», e che tre quarti dei commenti che riceve (!) non vanno online perché spam o perché «contengono livelli impubblicabili di vetriolo».
Su una cosa quelli dell'Huffington Post hanno ragione: le sezioni dei commenti sui siti di news molto frequentati contengono nel migliore dei casi luoghi comuni, banalità fuori tema e umorismo di quarta categoria. L'equivalente delle interviste ai passanti trasmesse dai telegiornali. Nel peggiore dei casi, che purtroppo è anche il più frequente, contengono violenza, insulti, aggressività, sessismo, razzismo, diffamazioni e calunnie: tutto ripetuto a grandissima frequenza e tutto destinato a rimanere per anni visibile e accessibile attraverso i motori di ricerca. Su un'altra cosa, però, quelli dell'Huffington Post hanno torto: il problema non è l'anonimato nei commenti. Il problema sono i commenti.
La diffusione dei commenti in calce agli articoli online è un retaggio dell'esplosione dei blog e del cosiddetto "web 2.0". Nel frattempo sono passati più di dieci anni – su internet praticamente un'era geologica – ed è cambiato tutto: come si fanno i siti, chi li legge, come vengono letti, cosa ci trovi dentro. I commenti sono rimasti.
Quello che sappiamo è che persino siti con milioni di lettori al giorno hanno poche centinaia di commentatori fissi: niente che allarghi gli orizzonti e il pubblico del giornale, niente che influisca in alcun modo sui dati di traffico, niente che migliori la qualità delle pagine su cui scrivono. Anzi, spesso la qualità precipita. I commenti non attirano nuovi utenti e lettori: spesso li respingono. Piuttosto che "creare community" – un mantra dell'internet del secolo scorso – nella nostra epoca le nicchie di commentatori distruggono le community (questa è la conclusione a cui è arrivato Gawker, altro sito americano di news di grande successo). L'idea che basti supervisionare i commenti per renderli utili è illusoria, come mostra la decisione dell'Huffington Post – e non c'è giornale in Italia che considererebbe utile assumere 3 persone, figuriamoci 40, per controllare i commenti.
Acclarato che la decisione sul pubblicare o no i commenti non ha a che fare con la costruzione di un sito di news letto e apprezzato, né col mantenimento di una comunità di lettori numerosa e partecipe, il grande equivoco è pensare che c'entri invece con la libertà d'espressione. La libertà di espressione non garantisce il diritto di scrivere qualsiasi cosa in calce a un articolo né obbliga i giornali a pubblicare qualsiasi cosa sulle loro pagine. Nessuno lo pretenderebbe o lo considererebbe normale su un giornale di carta, e non solo per ragioni di spazio: perché non avrebbe senso. Quello che avrebbe senso per i siti di news sarebbe, paradossalmente, quello che fanno già i giornali di carta: invitare i lettori a inviare i loro commenti via e-mail, cosa che già ridurrebbe moltissimo il rumore di fondo, e pubblicare i pochi davvero interessanti, i migliori. Il posto degli altri non è sui giornali, ma sui social network: hanno molto a che fare con la chiacchiera, niente con l'informazione.
«Il Sole 24 Ore» del 27 settembre 2013
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