Il dibattito sui cristiani discriminati
di Alessandro Zaccuri
Cristiani sempre più discriminati in Europa: anche Ernesto Galli della Loggia rilancia l’allarme. Gli fanno eco le riflessioni di intellettuali credenti e non credenti
Si fa presto a dire secolarizzazione. «In realtà – osserva Francesco Botturi, ordinario di Filosofia morale alla Cattolica di Milano – il quadro descritto domenica sul “Corriere” da Ernesto Galli della Loggia si presta a tutta una serie di valutazioni, che non hanno necessariamente come punto di partenza la pretesa “irrilevanza” della religione sulla scena pubblica».
Non sarà troppo ottimista, professore?
«Non direi, se non altro perché il fenomeno è in atto da tempo, risale già al Pontificato di Giovanni Paolo II e si traduce in un rinnovato atteggiamento di interesse per l’esperienza cristiana. Nel contesto occidentale, insomma, lo spazio di indifferenza che, per effetto della secolarizzazione, si era creato intorno al fatto religioso tende sempre più a ridursi, come dimostra anche l’attenzione con cui l’opinione pubblica ha seguito le recenti vicende relative alla vita della Chiesa cattolica».
Nessuna marginalità, dunque?
«Quanto sta accadendo è più complesso, perché complessa è la secolarizzazione in sé, specie in questa sua fase crepuscolare. Al rinnovo di interesse per la religione corrisponde infatti il rinfocolarsi di un atteggiamento a sua volta non inedito nella mentalità europea. Mi riferisco al tentativo di escludere la fede dall’ambito della sfera pubblica, tentativo che ai giorni nostri si presenta in modo tanto più forte quanto più il vettore della secolarizzazione tende a esaurirsi».
Può essere più chiaro?
«Si insiste molto, e giustamente, sulla tendenza a relegare la fede nell’ambito privato. Ma questa è soltanto la fase più debole e transitoria dell’intero processo. Quella che stiamo vivendo è in effetti la stagione successiva, nella quale si fronteggiano i due elementi che ho fin qui cercato di descrivere: da un lato la rivalutazione della religione come fonte di identità o comunque di senso, dall’altra un dispositivo ad excludendum, per cui alla religione stessa viene negata qualsiasi cittadinanza pubblica, con le conseguenze che Galli della Loggia ha voluto elencare. Ma in questo momento le premesse ideali o, se si preferisce, ideologiche che stavano alla base della secolarizzazione sono sempre più labili, sempre meno percepite. L’intolleranza che ne deriva ha caratteristiche eminentemente pratiche e quindi tanto più sbrigative».
C’è una via d’uscita?
«La stessa che tutto l’Occidente è oggi chiamato a percorrere: davanti al travaglio che segna il nostro tempo, siamo chiamati a uno sforzo di pensiero, nel senso di una riproposta dei valori che passi attraverso un’opera di rifondazione. Per dirla con una formula, riuscirà a sopravvivere soltanto ciò che sarà radicalmente ripensato».
Vale anche per la religione?
«Certo, ma vale anche per il suo opposto, e cioè per questa falsa tolleranza dietro la quale si maschera l’intolleranza di quanti postulano che la fede non possa esprimere alcunché di fondamentale e tanto meno di fondativo. Se davvero si vogliono sostenere queste tesi, però, non basta appellarsi allo schema della religione come sentimento privato. Si tratta di una posizione ormai datata, che non rende giustizia della criticità attuale».
Tempi duri per i cristiani?
«Siamo tutti risospinti nell’agone e non è detto che questo sia un male. L’alternativa è secca: o come credenti riusciamo a contare sul piano dei fondamenti oppure non contiamo affatto. È la logica di ogni evoluzione culturale, alla quale occorre rispondere elaborando un linguaggio pubblico, capace di rendere conto della nostra identità e, insieme, di mostrarsi sensibile al pluralismo».
Non sarà troppo ottimista, professore?
«Non direi, se non altro perché il fenomeno è in atto da tempo, risale già al Pontificato di Giovanni Paolo II e si traduce in un rinnovato atteggiamento di interesse per l’esperienza cristiana. Nel contesto occidentale, insomma, lo spazio di indifferenza che, per effetto della secolarizzazione, si era creato intorno al fatto religioso tende sempre più a ridursi, come dimostra anche l’attenzione con cui l’opinione pubblica ha seguito le recenti vicende relative alla vita della Chiesa cattolica».
Nessuna marginalità, dunque?
«Quanto sta accadendo è più complesso, perché complessa è la secolarizzazione in sé, specie in questa sua fase crepuscolare. Al rinnovo di interesse per la religione corrisponde infatti il rinfocolarsi di un atteggiamento a sua volta non inedito nella mentalità europea. Mi riferisco al tentativo di escludere la fede dall’ambito della sfera pubblica, tentativo che ai giorni nostri si presenta in modo tanto più forte quanto più il vettore della secolarizzazione tende a esaurirsi».
Può essere più chiaro?
«Si insiste molto, e giustamente, sulla tendenza a relegare la fede nell’ambito privato. Ma questa è soltanto la fase più debole e transitoria dell’intero processo. Quella che stiamo vivendo è in effetti la stagione successiva, nella quale si fronteggiano i due elementi che ho fin qui cercato di descrivere: da un lato la rivalutazione della religione come fonte di identità o comunque di senso, dall’altra un dispositivo ad excludendum, per cui alla religione stessa viene negata qualsiasi cittadinanza pubblica, con le conseguenze che Galli della Loggia ha voluto elencare. Ma in questo momento le premesse ideali o, se si preferisce, ideologiche che stavano alla base della secolarizzazione sono sempre più labili, sempre meno percepite. L’intolleranza che ne deriva ha caratteristiche eminentemente pratiche e quindi tanto più sbrigative».
C’è una via d’uscita?
«La stessa che tutto l’Occidente è oggi chiamato a percorrere: davanti al travaglio che segna il nostro tempo, siamo chiamati a uno sforzo di pensiero, nel senso di una riproposta dei valori che passi attraverso un’opera di rifondazione. Per dirla con una formula, riuscirà a sopravvivere soltanto ciò che sarà radicalmente ripensato».
Vale anche per la religione?
«Certo, ma vale anche per il suo opposto, e cioè per questa falsa tolleranza dietro la quale si maschera l’intolleranza di quanti postulano che la fede non possa esprimere alcunché di fondamentale e tanto meno di fondativo. Se davvero si vogliono sostenere queste tesi, però, non basta appellarsi allo schema della religione come sentimento privato. Si tratta di una posizione ormai datata, che non rende giustizia della criticità attuale».
Tempi duri per i cristiani?
«Siamo tutti risospinti nell’agone e non è detto che questo sia un male. L’alternativa è secca: o come credenti riusciamo a contare sul piano dei fondamenti oppure non contiamo affatto. È la logica di ogni evoluzione culturale, alla quale occorre rispondere elaborando un linguaggio pubblico, capace di rendere conto della nostra identità e, insieme, di mostrarsi sensibile al pluralismo».
«Avvenire» del 4 giugno 2013
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